lunedì 27 dicembre 2010

Consolazione#2

Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.) è collocato, dal punto di vista filosofico, tra gli eclettici. Egli anzi offre, come scive G. Reale, «il più bel paradigma di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle speculazioni». Tuttavia, egli ebbe il grandissimo merito di avere svolto un lavoro di divulgazione e di diffusione della filosofia greca nell’area della cultura romana.
Il tema della consolazione sembra particolarmente adatto per essere affrontato da un eclettico-divulgatore come lui. Cicerone, infatti, dedicò all’argomento il De consolatione, del 45, in occasione della morte di sua figlia Tullia (opera di cui restano soltanto dei frammenti), e molte pagine delle Tusculanae disputationes. Nel libro III di queste, Cicerone elenca, sinteticamente, i metodi offerti dalle varie scuole, optando per un approccio integrato o eclettico, di tipo — si direbbe oggi  cognitivo-comportamentale. Nei §§ 75-79 leggiamo:

(75) Questo è dunque il dovere dei consolatori, togliere dalle radici la tristezza, o calmarla, o diminuirla il più possibile, o fermarla impedendole di espandersi ulteriormente, o deviarla su altri obiettivi. (76) Alcuni pensano che il solo compito del consolatore sia quello di far capire che il male non esiste, come sostiene Cleante. Altri, che il male non è grave, come dicono i peripatetici. Altri spostano l’attenzione dal male al bene, come Epicuro. Per altri è sufficiente dimostrare che non è successo niente di imprevisto, come i cirenaici. Crisippo pensa che la cosa capitale sia togliere dalla persona sofferente l’idea di svolgere una funzione giusta e dovuta. Altri mettono insieme tutti i vari generi di consolazione, giacché ogni persona si lascia toccare da argomenti diversi, come ho fatto io stesso nella mia Consolazione riunendo i vari argomenti: il mio animo era gonfio e dovevo tentare ogni genere di cura.
Ma bisogna anche cogliere al momento giusto le malattie dell’anima non meno che quelle del corpo, come il Prometeo di Eschilo, a cui vien detto: «Penso che tu sappia, Prometeo, che la parola può curare la collera». E lui risponde: «Sì, se si applica il farmaco in tempo, e non si irriti la ferita con una mano pesante».
(77) Nella consolazione, dunque, il primo rimedio è insegnare che non c’è nessun male o almeno non grande; il secondo è addurre la comune condizione umana e le caratteristiche specifiche, se ce ne sono, della persona sofferente; il terzo mostrare che è sommamente sciocco farsi vincere dalla tristezza, pur sapendo che non se ne trae nessun vantaggio. Cleante infatti consola il sapiente, che non ha bisogno di consolazione; e se chi soffre tu lo persuadi che non esiste nessun male tranne ciò che è disonorevole, gli togli non già il dolore, ma l’ignoranza: peraltro l’occasione non è propizia all’insegnamento. Eppure a me sembra che Cleante non abbia considerato abbastanza il fatto che la tristezza può nascere talvolta proprio da quello che lui considerava il sommo male. Cosa diremo infatti di Socrate che, secondo la tradizione, persuase Alcibiade di non essere un uomo e che tra lui, il nobile Alcibiade e un qualunque facchino non c’era nessuna differenza, quando Alcibiade era addolorato e piangendo supplicava Socrate di insegnargli la virtù e di scacciare da lui il vizio? Che diremo dunque, Cleante? Che non c’era male in ciò che affliggeva Alcibiade? (78) E quali sono gli argomenti di Licone? Costui per sminuire la tristezza dice che è provocata da piccole cose, inconvenienti della fortuna o del corpo, non dai mali dell’anima. Ma ciò di cui si doleva Alcibiade non consisteva proprio nei mali e nei difetti dell’anima? Per quanto riguarda la consolazione di Epicuro ho detto abbastanza prima.
(79) Non è del tutto certa neppure la consolazione più usuale e spesso utile che dice «non a te solo questo è successo». È utile, dicevo, ma non sempre e non a tutti: c’è chi la respinge, ma fa differenza come viene adoperata. Ciò che è in questione infatti è come sopportò le sue disgrazie ognuno di quelli che le sopportarono con saggezza, e non già qual era la disgrazia da cui ognuno di loro fu colpito. L’argomento di Crisippo è oggettivamente il più solido, ma è difficile da usare in circostanze di dolore. È difficile provare a una persona sofferente che soffre per sua scelta e perché così ritiene di dover fare. E così come nelle cause non adottiamo sempre la stessa posizione — questo è il termine che usiamo per i generi di controversie ma la adattiamo alla circostanza, al tipo di controversia, alla persona — altrettanto nella consolazione bisogna considerare quale tipo di rimedio ogni persona può ricevere.

Ritroviamo qui argomentazioni che presentano forti analogie con insegnamenti che vengono dalla tradizione del buddhismo della scuola antica; su questi, in particolare, vorrei soffermarmi.
L’argomento della generalità del dolore ci rimanda alla storia di Kisagotami, la donna che, disperata per la perdita di un figlio, viene invitata dal Buddha a portargli un grano di senape da una casa in cui non ci sia stata alcuna morte. La donna, non trovandola, viene messa di fronte alla universalità e della inevitabilità della morte: «credevo di essere solo io a soffrire, ma ho visto che la morte è in ogni casa del villaggio e i morti sono più numerosi dei vivi». La constazione che la morte non è qualcosa di personale («non tibi hoc soli») avrebbe liberato la donna dalla sua disperazione e, sulla base di un gratuito automatismo che dalla constatazione va alla accettazione, Kisagotami sarebbe risultata “illuminata”. Argomentazione debole, che ha un senso solo come ammonimento a non enfatizzare la propria condizione, ma che non porta a elaborare nessuna coscienza tragica della condizione umana. Cicerone, giustamente, la introduce con prudenza, guardando piuttosto all’esempio che può venire offerto in occasione delle sventure: «Ciò che è in questione infatti è come sopportò le sue disgrazie ognuno di quelli che le sopportarono con saggezza, e non già qual era la disgrazia da cui ognuno di loro fu colpito».
La consolazione offerta da Crisippo (il male dipende di nostri giudizi e dalla nostra volontà) appare a Cicerone validissima sul piano teorico, ma «difficile da usare in circostanze di dolore. È difficile provare a una persona sofferente che soffre per sua scelta e perché così ritiene di dover fare». Secondo questa visione, il male è nella coscienza (del male) e nel “consenso” che viene dato al giudizio. Analogamente, nel Discorso della freccia, il Buddha dice: «È come se, o monaci, un uomo fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da un’altra, cosicché egli, o monaci, percepirebbe i dolori di due frecce. Allo stesso modo, o monaci, l’uomo ordinario, che non ha ricevuto gli insegnamenti spirituali, quando viene toccato da una sensazione dolorosa soffre, si affligge, si lamenta, piange battendosi il petto, entra in uno stato di grande confusione. Egli sperimenta due tipi di sensazione: una corporea e una mentale». Per il saggio ciò che è veramente male è la turpidudine, ciò che è disonorevole, il resto o non può essere visto come male o è un «male così piccolo che viene oscurato dalla sapienza e lo si scorge a fatica, questo perché il sapiente non inventa né aggiunge elementi all’afflizione per via dell’opinione, e non ritiene giusto tormentarsi il più possibile e lasciarsi consumere dal lutto, che è il peggiore degli atteggiamenti possibili». Anche qui, se il discorso è finalizzato alla moderazione, alla misura, al controllo del comportamento, siamo in presenza di un insegnamento più che valido e opportuno, ma non è più così se si cade in un atteggiamento anti-intellettualistico e ci si propone l’obiettivo di negare il giudizio, “riducendo” e annullando il soggetto. L’avversione, la rabbia (diversamente dalla indignazione etica) sono frutto di separazione e aumentano certamente la sofferenza, per cui l’atteggiamento del saggio sarà quello di vivere con un attaggiamento non-dualistico gli inevitabili dualismi dell’esistenza, al fine di non-soffrire di soffrire, almeno fino a quando il dolore non sia tale da sopraffare la possibilità di controllo e la coscienza stessa, ma ciò non va confuso con la riproposizione dell’anti-intellettualismo filosofico, sul quale mi permetto di rinviare, a quanto ho già scritto in Ri-legature buddhiste, pp. 24 ss.
Comunque, da buon eclettico, Cicerone guarda al risultato e, al pari di un medico che vuole ottenere la guarigione di un ammalato, non si preoccupa troppo di privilegiare una determinata terapia, ma sceglie quella o quelle che ritiene più opportune per il suo paziente. Ovvero, da oratore qual è, dice anche: «come nelle cause non adottiamo sempre la stessa posizione (questo è il termine che usiamo per i generi di controversie) ma la adattiamo alla circostanza, al tipo di controversia, alla persona, altrettanto nella consolazione bisogna considerare quale tipo di rimedio ogni persona può ricevere». Pertanto, dopo aver elencato vari metodi, egli opta per un orientamento eclettico.
(continua)

mercoledì 22 dicembre 2010

Domande senza risposta


Da tempo girano nella rete elenchi di domande senza risposta e anche il portale Ask Jeeens, che vorrebbe rispondere a tutto, fa un elenco delle 10 domande che da sempre sembrano senza risposta, invitando gli utenti a cercarle. Tra queste: «qual è il significato della vita?», «Dio esiste?», «le bionde si divertono di più?» e via continuando. E non mancano le domande comico-demenziali come quelle che si possono trovare nel sito http://www.zigolo.net/domande-senza-risposta.html. Ma di recente, a quanto vedo riportato dai giornali, anche una delle più prestigiose accademie scientifiche, la Royal Society, ha elencato, per bocca del suo presidente Martin Rees, le domande a cui la scienza non ha (ancora?) saputo dare risposta. Oltre a quelle di argomento cosmologico ce ne sono alcune che riguardano l’uomo, tra le quali mi ha colpito quella che chiede: «Cosa è la coscienza?». Mi ha colpito perché, posta così, rivela una sorta di ingenuità metodologica relativa al modo e al significato del definire. La psicologia, scienza della psiche, si era autolesionisticamente inferta (espellendo dai suoi concetti proprio quello della coscienza) una ferita che oggi si va faticosamente rimarginando, per cui possiamo con piacere salutare il giusto ritorno a ciò che le è più proprio (pur con tutti gli interrogativi connessi), la mente e la coscienza. Scrive Julian Jaynes, uno degli psicologi dell’attuale riscoperta della coscienza: «Mondo di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e  misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno su cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. Eremo occulto dove possiamo studiare fino in fondo il libro tormentato di ciò che abbiamo fatto e ancora possiamo fare. Un introcosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. Questa coscienza, che è il mio me stesso più segreto, che è ogni cosa eppure non è nulla di nulla, che cos’è? E da dove venne? E perché?»
Parlando di coscienza credo sia necessario, prima di tutto, fare alcune indispensabili considerazioni. Va precisato che ci vuole riferire qui alla coscienza nella sua accezione più generale di esperienza cosciente, a partire dal suo “grado zero” («qualcosa sta accadendo», «avverto piacere o dolore»), di vita interiore o di vissuto, al di fuori, pertanto, dei campi semantici della cura e della moralità, e delle relative coppie polari di diligenza/negligenza, responsabilità/disimpegno, etc. Ma chi pensasse di poter trovare nei manuali o nei dizionari una definizione di questo concetto, rimarrà inevitabilmente deluso: di lemma in lemma, si imbatterebbe infatti in una serie di rimandi e in un gioco di sinonimie che non farebbe giungere a nessuna vera definizione. Consultando, ad es., il Webster’s (Third New International Dictionary of the English Language), troveremo che consciousness, come coscienza nel senso di funzione psichica generale e sinonimo di mente, ci conduce a: awareness = comprensione, coscienza di q.c., prontezza, rendersi conto, esser desto,  esser pronto; mindfulness = consapevolezza, presenza mentale; alertness = attivazione, allarme; vigilance = vigilanza, e via continuando. Più  nettamente, il Lalande (Vocabulaire technique et critique de la Philosophie), rilevato che la coscienza è uno dei dati fondamentali dell’attività mentale, e, come tale, non è scomponibile in elementi più semplici, riporta le seguenti parole di Hamilton: «La coscienza non può essere definita: noi possiamo sapere perfettamente ciò che è la coscienza, ma non possiamo comunicare agli altri senza confusione una definizione di ciò che noi stessi afferriamo chiaramente. La ragione è semplice: la coscienza si trova alla radice di ogni conoscenza». Tuttavia, questa difficoltà di definizione non è scandalosa né testimonia una congenita debolezza della psicologia allorquando venga confrontata con altre discipline. Tutte, infatti, hanno dei presupposti, assunti come punti di partenza per la definizione di altri concetti o proprietà (detti, in quanto misurabili, “grandezze”) dei fenomeni che si studiano. Così la fisica assume ciò che è dato dall’esperienza immediata, relativamente a lunghezza, massa, tempo e carica elettrica, assumendo queste come “grandezze fondamentali”, impiegandole poi per definire le altre grandezze, che vengono dette appunto “grandezze derivate” (ad es., la velocità, rapporto tra lunghezza e tempo). Il fatto che le grandezze fondamentali non siano definite, ma vengano “prelevate” dall’esperienza cosciente (e quindi siano fondate su un dato psicologico!) non significa che non possano essere studiate e misurate, come la fisica ben insegna.
Non definibile, la coscienza — fondamento non solo della psicologia, ma dell’intera costruzione scientifica — potrà pertanto essere oggetto di indagini, oltre che da parte della psicologia, anche dalla psicopatologia, dalla neurologia, dell’antropologia, etc., interessate a comprenderne estensione, oscillazioni, qualità, correlati, etc. Dunque, la coscienza è la nostra stessa esperienza, quella senza la quale non ci sarebbe nessun mondo e nessuna domanda, e, come accade anche in altri casi, la domanda su di essa non è una domanda senza risposta, ma una domanda mal posta.

venerdì 17 dicembre 2010

Divagazioni e ricordi "freddi"

Baudelaire, Le crépuscule du matin
L’aurore grelottante en robe rose et verte/ S’avançait lentement sur la Seine déserte,/
Et le sombre Paris, en se frottant les yeux/
Empoignait ses outils, vieillard laborieux.
[Il crepuscolo del mattino: Tremando di freddo, in veste rosa e verde, l’aurora lentamente avanzava sulla Senna deserta, e cupo, vecchio laborioso, Parigi stropicciandosi gli occhi impugnava i suoi attrezzi; trad. RV].

giovedì 16 dicembre 2010

Cariatidi e dintorni#28/Telamoni milanesi


corso Venezia, Milano
(foto Vito Ferri)

mercoledì 15 dicembre 2010

modi di dire#13/Vittoria di Pirro

Circola insistentemente, in questi giorni, l'espressione «vittoria di Pirro». Ma chi era Pirro e di quale vittoria si parla?
Pirro (Pýrros, in greco, il rosso), 318-272 a. C., re dell’Epiro (piccolo regno tra l’Albania e la Grecia), fu uno dei principali nemici dell’espansione romana, aspirando ad estendere la sua egemonia in Italia e in Africa. Quando, nel 281, la città di Taranto (allora in Magna Grecia) gli chiese aiuto contro Roma Pirro ebbe un buon pretesto per inviare un potente esercito nel sud dell’Italia che riportò due vittorie, a Heraclea (oggi Policoro, Matera) e ad Ausculum (Ascoli Satriano, Foggia). Benché vincitore, Pirro perse la metà dei suoi uomini e i principali comandanti, lasciando sul terreno più di 13000  soldati. Successivamente sconfitto dai romani (275) e dai cartaginesi (anch’essi ostili alle sue mire espansionistiche) morirà tre anni dopo. Pirro, secondo gli storici, dopo le sue costose vittorie avrebbe pronunciato la frase «Un'altra vittoria come questa e tornerò in Epiro senza più nemmeno un soldato» (Paolo Orosio, IV sec. D. C.). Lo scontro tra le grandi potenze di allora ha lasciato un segno nella memoria collettiva e l’espressione “vittoria di Pirro” continua ad essere impiegata nel linguaggio sportivo, politico, etc. in occasione di vittorie che dànno più gloria che vero successo.
«Vittoria di Pirro» è una locuzione abbastanza semplice e c’è da augurarsi che (riferimenti storici noti o supposti tali) non venga maltrattata come è accaduto per la dantesca «mi fa tremar le vene e i polsi» (Inf., I, v. 90), dove i polsi sono le arterie pulsanti (e non la regione anatomica del polso!), volendo Dante dire che, ad es. per paura, questi vasi tremano venendo abbandonati dal sangue. Di essa abbiamo dovuto ascoltare varie deformazioni nell’uso politico, anche da parte di personaggi “rapprentativi”, per cui è diventata: «far tremare le vene dei polsi» (Prodi) o «fa tremare i polsi» (Casini), etc.

domenica 28 novembre 2010

Modi di dire#12/Paccottiglia


Vendere paccottiglia, erudizione di paccottiglia, produrre opere d’arte che non sono altro che paccottiglia, lusso di paccottiglia… Da dove viene questa parola che sentiamo così spesso impiegata?
Probabilmente essa deriva dallo spagnolo pacotilla (da paquete, forse dal francese paquet), benché sembri attestata in spagnolo solo alla fine del XVIII sec. Designava, in origine, la merce che era imbarcata esentasse dal capitano, dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave allo scopo di farne commercio personale nei mercati coloniali di paesi lontani (“pacotilles d’objet pour échanges avec les sauvages”, A. Daudet). Quindi, metaforicamente, merce di cattiva qualità, di scarso valore, volgare, di cattivo gusto; in arte e letteratura le opere di scarso valore, “commerciali”, e  nella vita quotidiana la miscellanea di oggetti che riempie le case popolari o piccolo borghesi e le botteghe dei rigattieri.
Val la pena di ricordare anche che pacchetto (dal fr., paquet o pacquet), appare in italiano come diminutivo di pacco (oggetto o gruppo di oggetti legati o tenuti insieme da un involucro), benché preceda quest’ultimo, derivando dal francese paquet (dall’antico pacque), a sua volta dall’olandese pak (balla di lana?).

venerdì 19 novembre 2010

Madeleines de Commercy

Con l’autunno sono tornate le madeleines, piccolo dolce di nobili origini e grande tradizione. La loro storia?
Stanislao Leszczyński, re di Polonia in esilio, duca di Lorena, aveva stabilito la sua residenza a Commercy e a Luneville  (con una splendida corte e un’animata vita culturale). Nel 1755 in occasione di una festa data nel 1755 nel castello di Commercy, una delle  inservienti, Madeleine Paulmier, aveva preparato come dessert un dolce tradizionale del luogo (a base di farina, uova, zucchero e burro), dalla forma originale di conchiglia, a cui il re diede il nome di Madeleines de Commercy. Essendo la figlia di Stanislao, Maria Leszczyńska, regina di Francia, moglie di Luigi XV dal 1725, il dolce raggiunse i saloni di Versailles e, in seguito, uno dei pasticceri di Stanislao ne cominciò la produzione commerciale che è, nella sua forma autentica, arrivata fino a noi. Altro momento di notorietà per le madeleines fu quello che esse ebbero in occasione dell’inaugurazione della ferrovia Parigi-Strasburgo (1852) da parte di Napolone III, quando la corte imperiale sostò a Commercy per una colazione, nella quale esse troneggiavano come prodotto tipico del luogo.
Un’altra tradizione lega le madeleines all’origine dei pellegrinaggi a Saint-Jaques-de-Compostelle (intorno al IX sec.), occasione, per una ragazza di nome Madelaine, di offrire al pellegrini questo dolce (modellato nella  conchiglia Saint-Jaques, emblema del pellegrinaggio). I due racconti possono, tuttavia, non essere in contrasto se, come detto, il dolce preparato dalla Paulmier era già nella tradizione del luogo.
Ma la fama delle madelaines è indiscutibilmente connessa alla Recherche proustiana. Marcel, in una famosa pagina del libro, ne parla come esempio della “memoria involontaria”, attivato da «questi dolci corti e paffuti che chiamano Petites madelaines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”». Il sapore di una madeleine riporta Proust all’infanzia a Combray: i ricordi di quel tempo sembravano disgregati, niente sopravviveva, «le forme — compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota — erano scomparse»; ma ecco che grazie a quel sapore egli, nella coincidenza di passato e presente, si sottrae alla transitorietà del tempo e può intuire l’essenza delle cose. La “resurrezione” di Cambray gli consente così di iniziare «il pellegrinaggio devoto alla ricerca del tempo perduto e della verità, un itinerario che — a differenza di quanto avveniva nel medioevo — non comporta nessuna mortificazione della sensibilità, ma anzi ne esalta il valore. Devoto e sensuale, dunque, un paradosso solo apparente che racchiude in un’estrema condensazione il significato del libro» (dal commento di Alberto Beretta Anguissola a Dalla parte di Swann).
La nostra infanzia povera non ci ha fatto conoscere madeleines da rievocare, ma la più ricca maturità ci fa riandare alle letture proustiane. E non è poco: non aveva, lo stesso Proust, affermato che «la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura»?


(foto da Wikipedia)

venerdì 12 novembre 2010

Sul tempo#3/Eliade e il perder tempo

«Raramente puoi vivere in maniera più sorprendente, più fertile, che nei momenti in cui perdi il tempo. In effetti, soltanto in tal caso puoi sentire veramente; negli altri casi ascolti solo per fare una replica o per completare un’informazione. […] Questa felice perdita di tempo è una completa apertura, un completo svuotamento» (in Oceanografie, cit. in I. P. Coulianu, Mircea Eliade, Assisi, Cittadella Ed., 1978).
Un tempo vuoto, ogni tanto, ha il valore di un fare il bucato per la mente (per usare un'espressione del mio Maestro Ichishima) e questo va bene, ma poi? E voi?

venerdì 5 novembre 2010

Modi di dire#11/Nostalgie tripartite

Nostalgia della tripartizione dello spazio (ciò che è vicino a me che parlo o scrivo, vicino a te a cui parlo o scrivo, lontano da entrambi), alla quale corrisondono tre gruppi di aggettivi (dimostrativi) e avverbi (di luogo).
Le grammatiche ci ricordano, infatti, che questo, codesto/cotesto, quello si usano per designare oggetti collocati rispettivamente vicino a chi parla, a chi ascolta, lontani da entrambi. Esempio: Quando lascerò questa casa verrò a casa tua, ma in codesta mi troverò ristretto, non come potrei stare in quella di tuo fratello.
Se qui e qua si riferiscono a un luogo vicino a chi parla e meno vicino o lontano da chi ascolta, costì e costà (con i composti costassù e costaggiù) si riferiscono a un luogo lontano da chi parla, ma vicino a chi ascolta, indicando, preferibilmente, costì un luogo puntuale, costà un’area senza delimitazione precisa; e si riferiscono, invece, a un luogo lontano da chi parla e da chi ascolta. Esempi: Verrò da te e quando sarò costì potremo cenare insieme; poi ci recheremo là dove siamo stati lo scorso anno. — Verrò in Italia e quando sarò costà visiterò molti musei. — Silenzio costassù! — Che fai costaggiù? E in questi due versi di Dante troviamo insieme rappresentanti delle due classi: E tu che se’ costì, anima viva, partiti da cotesti che son morti.

martedì 26 ottobre 2010

Ascolto e Via di mezzo

«Lo spazio domestico, quello della casa, dell’appartamento (equivalente in fondo al territorio animale) è uno spazio di rumori familiari, riconosciuti, che nel complesso formano una sorta di sinfonia domestica: sbattere differenziato di porte, voci, rumori di cucina, di tubature, echi dall’esterno: Kafka ha descritto con esattezza questa sinfonia familiare in una pagina dei Diari (5 novembre 1911): “Sto seduto in camera mia, nel quartiere generale del rumore di tutto l’appartamento: odo sbattere tutte le porte…”; e si sa l’angoscia del bambino ricoverato in ospedale che non sente più i rumori familiari del rifugio materno»: così R. Barthes scrive dell’Ascolto (in L’ovvio e l’ottuso, tr. it., Torino, Einaudi, 1985), mostrando come, attraverso la quotidianità di questo linguaggio, la “sinfonia domestica” ci introduca e ci leghi al mondo fenomenico, ordinario, orizzontale. Ma noi possiamo, e desideriamo, ascoltare altre voci, che ci portino in un territorio, diverso, altro, “totalmente altro”, in un mondo assoluto, straordinario, verticale, per i quali si richiede la capacità di «un ascolto panico, nel senso greco, dionisiaco».
Si fa obbligatorio, a questo punto, tornare al mitico canto delle Sirene e alle conseguenze del suo ascolto. Non è su queste mitologiche figure che desidero qui soffermarmi (e per questo rinvio all’ampio volume di M. Bettini e L. Spina, Il mito delle Sirene, Torino, Einaudi, 2007 e alla ricca voce in Wikipedia, l’enciclopedia libera), ma sul significato di quel canto e sulle conseguenze del suo ascolto come metafore del percorso e delle realizzazioni spirituali.
Cosa poteva avere di tanto speciale quel canto? Doveva essere, al primo contatto, semplice, comprensibile, quotidiano, come è, ad es., il corpo dell’altro, semplice e quotidiano, ma anche “perturbante”, quando ci viene incontro nella sua assoluta immediatezza: «C’era qualcosa di meraviglioso in quel canto reale, comune, segreto», scrive M. Blanchot (cit. da Barthes), «canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava da riconoscere […] canto dell’abisso: che, inteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro». Quel canto non poteva essere ascoltato impunemente, perché era un in-canto, «un suono di miele», dice Omero. Promettevano le figlie di Acheloo: «Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose. Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta soffrirono Argivi e Troiani per volontà degli dei; conosciamo quello che accade sulla terra ferace». Sapere più cose, forse un sapere assoluto, un sapere che ha un alto prezzo per chi cede a questa tentazione: l’allontanamento dalla vita terrena, l’estraniazione, la mortificazione e la morte stessa: «a colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce
 delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini
gli sono vicini, felici che a casa è tornato,
 ma le Sirene lo incantano con limpido canto,
adagiate sul prato». Commenta A. Tarabocchia Canavero (cfr. Wikipedia): «Sembra al di fuori delle loro intenzioni trattenere per sempre gli uomini che hanno accettato il loro invito: mentono o, incoerenza del mito che le vuole onniscienti, non sanno che il desiderio di “sapere più cose” ha portato tutti coloro che si sono fermati presso di loro per soddisfarlo a dimenticare gli affetti familiari, a trascurare tutto ciò che ha a che fare con la vita, fino a lasciarsi morire: sembrano non rendersi conto che, dal mare, si possono vedere tra i fiori, le loro ossa e loro membra imputridite... La bella voce è solo l'involucro della vera tentazione delle Sirene omeriche: “sapere più cose”. È la tentazione “originaria” dell’onniscienza. Cedere a questa tentazione, assecondare, in modo assoluto, questo desiderio porta a rompere i legami famigliari, a perdere la dimensione sociale e civile, a morire. Per questo Omero le condanna. Per questo l’eroe deve fuggirle, non deve interrompere il suo nóstos [ritorno]».
Per ri­manere nella metafora, se il canto delle Sirene possiamo ritrovarlo nelle promesse totalitarie delle “rivelazioni” religiose o nelle seduzioni delle ideologie, non dobbiamo dimenticare che le Sirene possiedono un’arma che può essere an­cora più temibile del canto: il loro silenzio. Ci porta a que­sta riflessione un racconto di Kafka (Il silenzio delle sirene, in Racconti, tr. it., Milano, Mondadori, 1990), che presenta un Ulisse il quale si riempie le orecchie di cera e si fa incatenare all’albero maestro, ma è, possiamo dire, beffato dalle Sirene, che alla sua vista non cantano. Ulisse «aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nes­sun mortale può resistere al sentimento di averle scon­fitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne de­riva. Di­fatti all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non canta­rono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene. Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, cre­dette che cantassero e immaginò che lui solo fosse pre­servato dal­l’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare pro­fon­da­men­te, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto questo facesse parte delle me­lodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò sol­tanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scom­parvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e pro­prio quando era loro più vicino, egli non sapeva nulla di loro».
Il silenzio delle Sirene fa pensare all’altra modalità con la quale le “rivelazioni” spesso si presentano, “esprimendo” l’abisso della Totalità nel suicidio della parola in un silenzio “mistico”: se le parole sono sempre inadeguate, tanto vale rimenere in silenzio e cercare “dentro” quel che è impossibile trovare “fuori”!
Rumori della sinfonia domestica, come Verità del mondo fenomenico che ci trascinano nella banalità quotidiana, da un lato; “rivelazioni” della Totalità che ci trascinano via dal mondo pretendendo di collocarci in una realtà “altra”, Pleroma o Vacuità, dall’altro.
Ma insoddisfatti, invaghiti come siamo della Via di mezzo, ci domandiamo: c’è un altro modo di realizzare un “ascolto riuscito”, direbbe Barthes, affermando la Verità dell’“altrimenti” invece di quella dell’irraggiungibile “Altro”? Una risposta, a ben raccoglierla, ci è viene incontro, ancora, dal racconto mitico. Bisogna risalire all’impresa degli Argonauti, precedente i viaggi di Ulisse, e al racconto che di esse fa, nelle Argonautiche, il poeta Apollonio Rodio. Va ricordato che dei componenti della spedizione degli Argonauti faceva parte anche Orfeo, il cantore tracio, figlio di una delle Muse. Quando, al passaggio della loro nave, le Sirene si apprestavano a compiere il consueto gioco di seduzione, egli ingaggiò con loro una gara che mise in salvo i compagni, in modo ben più significativo di quanto avrebbe successivamente fatto Ulisse coi suoi “mezzucci”. «Anche per loro, senza esitare mandavano l’incantevole voce e quelli già stavano per gettare a terra gli ormeggi, se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo, non avesse teso con le sue mani le corde della cetra di Bistonia e intonato un canto vivace, con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel suono: così la cetra ebbe la meglio sulla voce delle vergini. Zefiro e l’onda risonante che spingeva da poppa portavano avanti la nave e il loro canto si fece un suono indistinto». La gara, come osservano M. Bettini e L. Spina, contiene numerosi elementi simbolici: è «gara di canto, di melodia, di ritmo, di vocalità, oltre che sfida mortale; gara di statuti artistici, forse; gara tra un uomo di origini in parte divina e creature ibride, […] incancrenite nel male, come risposta a una felicità sottratta loro da una dea vendicativa». Ma c’è di più: nelle Argonautiche orfiche Orfeo, parlando in prima persona, ci dice: «Cantavo, innalzando la voce con tono acuto, un inno di prodigi, come una volta entrarono in conflitto per dei cavalli dai piedi veloci come il turbine, Zeus alto-tuonante e il marino Scuotitor della terra, e poi il dio-scura–capigliatura adirato col padre Zeus colpì la terra licaonia col suo tridente d’oro e con violenza la frantumò in pezzi nelle acue senza fine per farne delle isole marine; e così le chiamarono Sardegna, Eubea e ancora Cipro ventosa. E dunque, mentre io cantavo con la cetra, le Sirene, dalla cima dello scoglio, rimasero attonite, poi misero fine al loro canto. […] Gemevano in maniera disperata, perché giungeva il giorno fatale della morte» (in M. Bettini e L. Spina, op. cit.). Se dei contenuti del canto delle Sirene non sappiamo nulla, il canto di Orfeo è affascinante proprio nei suoi contenuti, racconta di lotte tra divinità e di fenomeni naturali, non è un canto vuoto, privilegia la parola, le storie e gli eventi. La fine delle Sirene possiamo, a questo punto, leggerla come la fine della capacità di seduzione delle rivelazioni e delle ideologie della Totalità, lo svelamento degli elementi di menzogna presenti in esse e dei disonesti tentativi, totalitari, di presentare la parte come Tutto. L’Assoluto che offre Orfeo è, invece, la Totalità non-totalitaria dell’Assoluto della forma, della parola e del canto, è il cielo e la terra, la bellezza della verità e la verità della bellezza, la perfezione realizzata nella compiutezza del canto o del gesto: non è proprio questo l’insegnamento della Via di mezzo proposto dall’Orfeo indiano che è stato chiamato Buddha, l’Illuminato e l’Onorato dal mondo? E non sono la Bibbia, il Sutra del Loto, la Bhagavad-Gita delle grandi opere di Poesia?

venerdì 22 ottobre 2010

Schermaglie#17/Toro, Moloch, Il Sole

Sokurov ha dedicato tre film al potere (Toro, Moloch, Il Sole), più precisamente a tre figure che hanno incarnato il potere assoluto nel XX secolo, Lenin, Hitler, Hiroito, per demitizzarli, mostrarne la personale fragilità e, quindi, l’assurdità del sostegno dato loro come capi carismatici. Non si tratta, evidentemente, di analisi storico-politiche, fin troppo facile da rigettare per semplicismo, parzialità, ingenuità (Hiroito è una specie di traballante marionetta, Hitler un paranoico perverso, Lenin un povero ammalato). Viceversa, guardando questi ritratti da un punto di vista psico-spirituale viene da fare, soprattutto considerando Lenin, il meno maltrattato dei tre, una serie di considerazioni sul tipo di gestione della vita personale di individui che sono, come si diceva tra hegheliani, “individui cosmici universali”. Tranne Hiroito (un’occasione mancata per Sokurov) si tratta di uomini nuovi, non appartenenti a levigate aristocrazie e quindi con loro invincibili ingenuità e grossolanità, a stento controllate, che riemergono tutte di fronte alle difficoltà e alla infelice conclusione delle loro vicende. Lenin, paralizzato, incapace di esprimersi e di agire, affidato a donne di famiglia e militari è ormai privo di ogni dignità, si confronta da perdente con un cinico Stalin che va a visitarlo, chiede del veleno, alterna spezzoni di farneticazioni politiche ad attacchi di rabbia furiosa e a regressioni da misero ammalato, sembra farsi luce in lui la coscienza del fallimento. Se le situazioni si degradano e gli stimoli superano una certa soglia, suggerisce l’Autore, la dignità di cui il personaggio aveva cercato di rivestirsi (anche con l’inganno) quando era in auge si frantuma e lascia emergere tutta la miseria dell’uomo “denudato”. Questo vale anche per tutti noi e riguarda il tema del confronto con la malattia e la morte. Forse solo il grande Luigi poteva dire: Les rois ne sont pas malades, ils meurent.

sabato 16 ottobre 2010

Altro luogo

Ecco un altro luogo di riflessione, ora disponibile


venerdì 15 ottobre 2010

Feste romane: (15 ottobre) l'October equus

Se la festa, come fenomeno religioso, ha come carattere fondamentale quello del suo essere separata dal tempo comune (quello delle ordinarie attività dominate dall’impermanenza per cui tutto si forma e si consuma, separata al pari di altre realtà attinenti alla sfera del sacro, come quelle di luoghi, oggetti, etc.) che consente, quindi, di collocarsi nella sfera “altra” della stabilità non-umana, i calendari sono gli strumenti che assicurano la sistematizzazione delle feste periodiche: strumenti, dunque, di computo del tempo ma soprattutto, e originariamente, atti a disporre le feste, legate a periodicità cosmiche e naturali, in un sistema cronologico.
Nel calendario della Roma antica il 15 ottobre riportava la festa dell’October equus, un rituale complesso che univa elementi militari, agricoli e funerari. In quella data, al Campo di Marte aveva luogo una corsa di bighe al termine della quale il cavallo destro della biga vincente veniva ucciso con un giavellotto dal Flamen Martialis,  presso l’altare di Marte. Il sacrificio aveva il significato di chiusura dell’anno militare e di conservazione delle forze vittoriose, rappresentate dall’animale vincitore. Prima di essere immolato il cavallo veniva ornato con una collana di pagnotte, allo scopo di assicurare il buon esito del raccolto. Una volta ucciso, al cavallo veniva tagliata la coda che era trasportanta di corsa dal Campo Marzio alla Regia, in modo che il sangue potesse cadere nel focolare, mentre la testa, tagliata anch’essa, veniva contesa tra gli abitanti di due quartieri: i Sacravienses (gli abitanti della Sacra via, Palatino) e i Suburenses (della Suburra, Quirinale). Al fine di assicurare prosperità e allontanamento di malattie e malefici, in caso di vittoria dei primi la testa veniva fissata al muro della Regia, nel caso di vittoria dei secondi era appesa alla Torre Mamilia. Il sangue della vittima, conservato dalle Vestali, veniva mescolato con le ceneri del feto estratto dalla vacca sacrificata in occasione di un’altra festa (Fordicidia, da forda = vacca gravida, 17 aprile) e bucce di fave (legate al mondo degli inferi, come riscatto dei vivi), a farne una mistura magica di purificazione e rinvigorimento (suffimen), gettata sul fuoco acceso sul Palatino, con successivo impiego delle ceneri residue per fumigazione purificatrice dei pastori e delle greggi o spargimento sui campi, il 21 aprile, giorno dei Parilia o Palilia (da Pales, dea della pastorizia, a sua volta da parere = partorire), festa dei pastori e anniversario della fondazione di Roma. Il suffimen svolgeva così la funzione di mettere in connessione tre feste e le divinità della guerra (Mars), dell’agricoltura (Tellus), della pastorizia (Pales) e degli inferi, mostrando un conglomerato di elementi di epoche diverse, finalizzato ad assicurare la prosperità delle campagne e la salute di uomini e animali mediante la protezione di un dio guerriero.
J. G. Frazer nel suo famoso studio della magia e della religione, Il ramo d’oro (tr. it. Torino, Einaudi, 1950), afferma che «l’uso di ornare la testa con una collana di pani e lo scopo del sacrificio, procurare un buon raccolto, indicherebbero che il cavallo ucciso era uno di quei rappresentanti dello spirito del grano […]. L’uso di tagliare la
coda corrisponde a quello africano di tagliare le code dei buoi e sacrificarle per avere un buon raccolto. Tanto a Roma che in Africa l’aimale, a quanto pare, rappresentava lo spirito del grano e il suo potere fecondatore si credeva che risiedesse specialmente nella coda».
Il grande filologo comparativista G. Dumézil, noto soprattutto per i suoi studi della sovranità nella religione e nella società proto-indo-europee, ha interpretando questa festa romana alla luce delle fonti vediche (v. Fêtes romaines d’été et d’automne, Paris, Gallimard, 1975). Il sacrificio del cavallo (skr. aśvamedha) nel mondo vedico era il re dei riti e il rito dei re, essendo il sacrificio regale offerto da un re vittorioso. Un cavallo era, da un raja che esercitava la sovranità, lasciato libero di spostarsi a suo piacimento; quando attraversava le terre di un altro raja, questo poteva o impadronirsi del cavallo, dando segno di rifiutare la sovranità e scatenare una guerra o, viveversa, lasciarlo passare senza intervenire, manifestando così la propria condizione di vassallo. Il cavallo veniva poi sacrificato dal raja in un solenne rito finalizzato ad affermare la sua sovranità sulle province vicine e ad assicurare la prosperità del regno (sul sacrificio vedico v. http://en.wikipedia.org/wiki/Ashvamedha). «Possiamo vedere in questo sacrificio l’elaborazione finale, minuziosamente dettagliata, di un lungo processo nel quale elementi prevedici, riti della fertilità, riferimenti cosmogonici, motivi sociali, fattori politici e interssi sacerdotali svolgono tutti un ruolo, dando vita a un rituale altamente elaborato e senza dubbio d’effetto» (R. Panikkar, I Veda, tr. it. Milano, BUR, 2001). Il Rg-Veda dedica due inni (I,162 e 163) all’aśvamedha, omologando il cavallo al sole e al cavallo primordiale cosmico che rappresenta l’universo. «Il contributo vedico a questo riguardo è quello di sottolineare il carattere cosmico e universale del cavallo [… che] occupa una posizione così centrale proprio perché assume in sé stesso l’intero universo e deve svolgere un ruolo vicario» (ivi).
Dumezil, con il suo studio, ha sottolineato il passato indo-europeo del popolo romano, invitandoci così a riflettere sui misteriosi e arcaici legami tra mitologie e riti presenti in contesti diversi delle nostre remote radici.

giovedì 14 ottobre 2010

Mitici#3/Macarons

Pasticceria Ladurée, rinomata per i "macarons"
rue Bonaparte, Parigi (foto RV) 

venerdì 8 ottobre 2010

Plaisanteries, dalla rete#3/Schubert, Sinfonia Incompiuta


CORPORATE MENTALITY AT THE SYMPHONY

A corporation president was given a ticket for a performance of Schubert's Unfinished Symphony.  Since she was unable to go, she passed the ticket on to her first lieutenant.  The next morning the president asked him how he enjoyed it, and instead of receiving a few pleasant observations of the performance, she was handed a memorandum which read as follows:

1.  For a considerable time, the oboe players had nothing to do.  Their number should be reduced and their work spread over the whole orchestra, thus avoiding peaks of inactivity.

2.  All twelve violins were playing identical notes. This seems unnecessary duplication, and the staff of this section should be drastically cut.  If a large volume of sound is really required, this could be obtained through the use of amplification.

3.  Much effort was involved in playing the sixteenth notes.  This seems an excessive refinement, and it is recommended that all notes should be rounded up to the nearest eight note.  If this were done, it would be possible to use paraprofessionals instead of experienced musicians.

4.  No useful purpose is served by repeating with horns the passage that has already been handled by the strings.  If all such redundant passages were eliminated, the concert could be reduced from two hours to twenty minutes.

5.  This symphony had two movements. If Schubert didn't achieve his musical goals by the end of the first movement, then he should have stopped there.  The second movement is unnecessary and should be cut.  In light of the above, one can only conclude that had Schubert given attention to these matters, he probably would have had time to finish the symphony.

domenica 3 ottobre 2010

Per una meditazione sulla bellezza


Mentre si rivestiva/com’era fragile/com’era affascinante
(haiku di Matsuo Basho, 1644-94)

giovedì 30 settembre 2010

Mitici#2/Asile Sainte-Anne



Asile Sainte-Anne, Hôpital psychiatrique
Paris

martedì 28 settembre 2010

Modi di dire#10/Franchi tiratori

Qual è l’origine di questa espressione? Per conoscerla dobbiamo risalire almeno alla guerra franco-tedesca del 1870, che oppose la Francia del Secondo Impero ai regni germanici uniti, quando i soldati tedeschi invasori si vedevano sovente insidiati alle spalle da gruppi di “franchi (cioè liberi, ove franco ha il significato di sincero, onesto, esplicito e, quindi, libero da ogni dipendenza, servitù, dominio) tiratori” che si erano formati alle loro spalle. Costituivano questi una sorta di milizia popolare volontaria, non inquadrata nell’armata imperiale, ma non priva di un suo statuto legale. Una disposizione imperiale del 1868 ne riconosceva infatti la legittimità, fissando nel contempo alcuni obblighi per gli appartenenti (che dovevano provvedere autonomamente a equipaggiamento, armamento e uniformi, risultanti, appunto, abbastanza difformi tra loro!). Il generale Helmuth von Moltke, comandante dei soldati tedeschi, con una direttiva del settembre 1870 negava, invece, ogni riconoscimento a queste formazioni, esplicitando che gli appartenenti a esse in quanto “irregolari” sarebbero stati assimilati a malfattori, soggetti a un consiglio di guerra immediato che poteva condannarli alla pena di morte e che i villaggi, dove fossero avvenuti agguati da parte di tiratori non identificati, sarebbero stati considerati collettivamente responsabili e oggetto di rappresaglie (come accadde, ad es., a Bazeilles, presso Sedan).

Durante la seconda guerra mondiale troviamo la locuzione nuovamente impiegata per designare una organizzazione armata di resistenza all’occupazione militare tedesca, detta F.T.P., Francs-tireurs et partisans, creata dal Fronte nazionale. Essa fu poi sciolta nell’ottobre 1944, quando venne integrata nell’armata del generale de Lattre.

Se l’espressione è stata impiegata in seguito nell’accezione di persona che, lavorando da sola, professa indipendenza di spirito senza piegarsi a discipline imposte dall’esterno, è nel linguaggio politico italiano degli anni Cinquanta che assume il significato, oggi prevalente, in riferimento a chi, appartenente a un partito o a uno schieramento, in votazioni segrete, vota in modo diverso da quello deciso ufficialmente dal proprio partito o schieramento. Viene ricordato, in proposito, quanto osservava Gino Pallotta, giornalista e saggista, nel suo Dizionario politico e parlamentare (Roma, Newton Compton, 1976): «nel franco tiratore parlamentare c’è, riflessa, l’immagine del “cecchino”, che, nascosto, tira all’improvviso». Questo ha fatto passare, nel corso di un secolo, la figura del franco tiratore da quella dell’oscuro eroe popolare a quella del traditore che, approfittando della segretezza, non esista a trasgredire le indicazioni del proprio gruppo di appartenenza.

domenica 26 settembre 2010

Consolazione#1

Il verbo “consolare” si riferisce all’azione di lenire il dolore che qualcuno prova per una disgrazia, una perdita, un malanno. La consolazione degli afflitti è anche una delle cosiddette opere di “misericordia spirituale”. La parola viene dal latino con- e solari, col significato appunto di mitigare, ma se solari è legato a sollus, intero, e quindi solo, si può dire che è l’aiuto che si apporta all’uomo solo col suo dolore (ad es., solari famen è soddisfare la fame). In questa famiglia di parole, spesso considerate sinonimi, penso vadano invece tenuti distinti il “conforto”, azione che dà forza per affrontare e combattere una situazione negativa, il “sollievo” che solleva, cerca cioè di allontanare uno stimolo nocivo o ridurre una condizione dolorosa in atto e la “consolazione” che tenta di attenuare un dolore dovuto a cause e condizioni che non si possono modificare. Viene impiegato anche il sostantivo “consolo”, non soltanto come sinonimo di consolazione, ma con i significati di vino drogato che si dava al condannato a morte per attutirne la viglilanza e — specie nell’Italia meridionale — di banchetto offerto o cibo inviato da parenti e amici alla famiglia del defunto nei primi giorni di lutto.

Nell’Antichità classica, “consolazioni” sono, di queste voglio parlare qui, le composizioni filosofico-letterarie, spesso redatte in forma di lettera, aventi la fisionomia di trattatelli morali, scritte al fine di consolare sé o altri di qualche dolore e, in particolare, della morte di una persona cara. Tra queste, sono da ricordare il De Consolatione di Cicerone, scritta per consolare il proprio animo della morte della figlia Tulliola (e di cui sono rimasti solo pochi frammenti), le Consolationes di Seneca (a Marcia, a Polibio, alla madre Elvia), quelle di Plutarco Ad Apollonium e Ad Uxorem. Fu la  sofistica a dare il maggiore contributo alla costituzione di questo genere letterario che fa parte di un genere più ampio di scritti, aventi finalità analoga, quelli sulla tranquillità dell’anima.
Il primo autore che scrisse di una tέcnh ¢lup…aj (tecnica di liberazione dal dolore) sembra sia stato il filosofo e retore greco Antiphôn o  Antifonte (V sec. a. C.), del quale, nelle Vitae X Oratorum (dello Ps.-Plut.), si narra di questa sua attività, precoce esempio di psicoterapia o consulenza filosofica: «Avendo allestito a Corinto un locale nei pressi del mercato, egli aveva affisso sulla porta un cartello in cui affermava di possedere una tecnica per curare le angosce delle persone mediante le parole. Consentendo loro di conoscere le cause delle proprie malattie, egli poteva prescrivere immediatamente il rimedio, a loro conforto. Ma dopo qualche tempo, valutando quell’attività come non rispondente alle sue attese, egli si dedicò allo studio e all’insegnamento dell’oratoria». Alla fine dell’Antichità la consolazione si insegnava nelle scuole di retorica e, come l’orazione funebre — della quale è parente stretta — era divenuta un esercizio scolastico. Era naturale che quindi ci fosse un repertorio di “luoghi comuni”, citazioni, esempi, da utilizzare nei modi opportuni secondo le circostanze. Per questo, attraverso lo studio delle composizioni consolatorie, possiamo conoscere il comune sentire sulla morte e sui modi di fronteggiare la sofferenza di fronte all’irreversibilità e ineluttabilità di tale evento.

Jean Hani, nel suo commento alla Consolatio ad Uxorem di Plutarco (ed. Les Belles Lettres), riporta quelli che sono i principali topici tradizionali delle consolazioni e cioè:
inopportunità delle consolazioni fatte in tempi sbagliati, che aggravano il dolore;
critica dell’afflizione eccessiva, nociva alla salute dell’anima e del corpo;
elogio di un dolore moderato che non comprometa l’integrità della pesona;
idea che l’afflizione è prodotta da una falsa opinione, per cui un corretto ragionamento potrà guarire il dolore restituendo costanza e controllo di sé;
che la morte è inevitabile ed è nell’ordine della natura;
che le vicissitudini del destino fanno sì che la vita, che è breve, sia anche piena di mali;
che lo stato dopo la morte equivale a quello che precede la nascita;
che le nostre disgrazie non sono paticolari e individuali, ma comuni a tutti;
che la morte inroduce il defunto nella vera patria, quella celeste;
che il miglior mezzo che abbiamo per onorare i nostri morti, e assicurare la pace della nostra anima, è quello di coltivarne il ricordo.
(continua)

mercoledì 22 settembre 2010

Equinozio d'autunno

vedi 21 settembre 2008

sabato 18 settembre 2010

Schermaglie#16/L'arca russa

L’Arca russa (2002) è uno dei film più noti del regista russo Aleksandr Nicolaevič Sokurov, considerato un continuatore dell’opera di Tarkovsky. Dapprima “prigioniero” all’interno dell’URSS, la sua opera dalla fine degli anni Ottanta ha potuto essere progressivamente conosciuta e a Parigi è in programma una retrospettiva della sua produzione. Regista elegiaco, nostalgico, introspettivo, nell’Arca russa un inivisibile regista contemporaneo si trova all’interno del Museo dell’Ermitage (a San Pietroburgo, già reggia imperiale) ove accompagna un diplomatico francese dell’Ottocento in una visita-confronto tra il presente del museo e le opere e i personaggi del passato. La rivisitazione dello splendore della Russia zarista si conclude con una straziante uscita dal Palazzo delle centinaia di attori e comparse in costume che si avviano verso il nulla, concludendo così l’ininterrotto ed eccezionale piano-sequenza che costituisce il film (un’unica sequenza della durata di 90 min, che abbraccia tutto il contenuto in solo, angoscioso respiro!). Il film è una riflessione sulle aristocrazie, il loro splendore, la loro fine, il loro succedersi e tramutarsi: aristocrazia come perfezione (o, almeno, rappresentazione della perfezione!) nel linguaggio e nel gesto, negli sguardi e nelle stoviglie, nel vestiario e nella condotta, in tutto ciò che eleva il biologico alla dignità della coscienza. La Russia distrusse la sua aristocrazia nel XX secolo e, dopo il Terrore, tentò di ricostruirne un’altra, ma il suo bonapartismo imperfetto travolse anche quella che stava nascendo, violenta nell’apparato militare e sanguinaria nell’apparato burocratico-partitico. È finita come sappiamo. E ora? E noi? Voglio concludere, per continuare a riflettere, citando una fonte non sospetta, A. Camus, che nei Taccuini scriveva: «Ogni società si fonda sull’aristocrazia, perché essa, se è tale, è esigenza nei confronti di sé stessa, e senza questa esigenza ogni società muore».

giovedì 16 settembre 2010

Tommaso Crudeli

Il gentile terremoto
coll’amabile suo moto
smantellava le città;
mentre il fulmine giulivo,
che non lascia l'uomo vivo,
saltellava or qua, or là.

Con questi ironici versi, quasi strizzandoci l’occhio, il poeta toscano Tommaso Crudeli (1703-45), massone, anticonformista libertino, vittima della “santa” Inquisizione, sembra volerci aiutare a liberarci dei sostenitori della teodicea, dell’armonia taoista e del “tutto va bene”.