lunedì 22 dicembre 2014

Schermaglie#38/L'ultimo Resnais

Alain Resnais, l’indimenticabile regista di Hiroshima mon amour, L’anno scorso a Marienbad e Mio zio d’America, che ci ha lasciati nel marzo scorso, ha concluso la sua opera cinematografica col film Aimer, boire et chanter [Amare, bere e cantare], girato a 91 anni, dando una prova di inarrestabile energia e creatività.
Giocando ancora una volta sul doppio piano di recita teatrale e vita ordinaria (ma quale delle due è più reale?), ci presenta la storia di tre coppie (interpreti alcuni dei suoi attori preferiti), con le tre donne tutte affascinate-dal e legate-a un comune amico, George, seducente attore col quale vantano vicinanza, intimità, complicità. Lui non compare mai nel film e ci viene detto essere gravemente ammalato (tutti spunti autobiografici): un invito a trascorrere una breve vacanza, rivolto a ciascuna delle tre scatena gelosie e, soprattutto, accende nei mariti-compagni, quello che Girard chiamava “desiderio mimetico”, per cui si “ri-accorgono” delle loro compagne alle quali dichiarano il loro rinnovato amore. Nessuna andrà in vacanza con l’attore, che sarà invece inaspettatamente accompagnato dalla giovane figlia di una delle coppie.
Tutto finisce “bene”, con un funerale di conciliazione generale: l’ultima donna conquistata da George forse allude all’idea che il fascino non passa con gli anni e oltrepassa la morte, come quello di Alain Resnais, fino alla fine pronto ad amare, bere, cantare.

sabato 13 dicembre 2014

Modi di dire (e di pensare)#23/Sull’improprio uso del “piuttosto che...”

Le proposizioni avversative sono quelle che indicano una circostanza o situazione in contrasto con un’altra proposizione “reggente”, es.: «sei uscito mentre dovevi riguardarti». Le avversative sono introdotte da quando, laddove, anziché, etc. e divengono comparative, di solito rappresentate da un infinito, e sono introdotte dall’avverbio “piuttosto”, come quando diciamo: «Quel farmaco lo stava intossicando piuttosto che farlo guarire», «Preferiva andare a piedi piuttosto che prendere un autobus affollato». Quello che è sicuramente scorretto è l’uso di piuttosto con significato disgiuntivo o di alternativa, quindi al posto di “o”, “oppure”, “ovvero”..., uso che va purtroppo dilagando nel linguaggio radio-televisivo e, a cascata, in quello parlato, intendendo addirittura ammantarsi di una forma di rozzo e grossolano snobismo. Innumerevoli gli equivoci che si possono generare. Chi dicesse: «La prossima estate andrò a Londra piuttosto che a Parigi, Praga e Francoforte» vorrà dire che andrà in queste tre città o a Londra invece che...?
Fortunatamente, non sono mancate le reazioni a questo uso scorretto e, a proposito, Ornella Castellani Pollidori, in La Crusca per voi, scriveva: «Mi limiterò qui a un paio d'esempi  fra i tanti che potrei citare: dal settimanale L'Espresso, del 25.5.2001, incipit dell'articolo a p. 35 intit. Il cretino locale (sulla fuga dei cervelli dal nostro Paese): “È stupefacente riscontrare quanti italiani trentenni e quarantenni pòpolino le grandi università americane, piuttosto che gli istituti di ricerca e le industrie ad avanzata tecnologia nella Silicon Valley”; naturalmente questo piuttosto che pretende di surrogare la semplice disgiuntiva, ma il lettore non edotto è portato a chiedersi come mai i giovani studiosi italiani sbarcati negli Stati Uniti snobbino per l'appunto i prestigiosi centri di ricerca della Silicon Valley. E ancora: “... di questo passo, saranno gli omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari ad essere perseguitati”: frase pronunciata dal noto (e benemerito) dott. Gino Strada nel corso del Tg3 del 22.1.2002; in questo caso, la prospettiva d'una persecuzione concentrata protervamente sulla prima categoria avrà reso perplesso più di un ascoltatore [...] Immaginiamoci poi che cosa potrà accadere con l'insediarsi dell'anomalo piuttosto che anche nei vari linguaggi scientifici e settoriali in genere, per i quali congruenza e  univocità di lessico sono indispensabili. Gli esempi raccolti nel parlato e nello scritto sono ormai innumerevoli e le schede dei sempre più scoraggiati raccoglitori (è il caso della sottoscritta) si ammucchiano inesorabilmente. Eppure non c'è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell'inammissibilità nell'uso dell'italiano d'un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o. Intendiamoci: se quest'ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma (a partire dalle premesse etimologiche); la ragione più seria sta nel fatto che un  piuttosto che abusivamente equiparato a o può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio. [...] Il lancio vero e proprio del nuovo malvezzo lessicale, avvenuto senza dubbio attraverso radiofonia e televisione  (e inizialmente - è da presumere - ad opera di conduttori  settentrionali), sembra potersi datare dalla metà degli anni Novanta. Resta da capire la meccanica del processo che ha portato un modulo dal senso perfettamente chiaro, e rimasto saldo per tanti secoli, come piuttosto che a virare - all'interno di un certo uso dapprima circoscritto e verosimilmente snobistico - fino al significato della comune disgiuntiva. Per azzardare una ricostruzione di quel processo proviamo  a partire da una frase del genere: “Andremo a Vienna in treno o in aereo”. In questo caso le due alternative semplicemente si bilanciano. Se variamo la frase rafforzando il semplice o con l'aggiunta dell'avverbio piuttosto: “Andremo a Vienna in treno o piuttosto in aereo”, chi ci ascolta può cogliere una tendenziale inclinazione per la seconda delle due soluzioni, quella dell'aereo. Sostituiamo a questo punto o piuttosto con piuttosto che: “Andremo a Vienna in treno piuttosto che in aereo”; qui risalta abbastanza nettamente — sempre attraverso la comparazione tra due opzioni — una preferenza per la prima rispetto alla seconda. Dall'analisi delle varianti contestualizzate nelle tre frasi, mi sembra si delinei una possibile spiegazione del piuttosto che semanticamente “deviato” di cui ci stiamo occupando (e preoccupando): in sostanza, può essere il prodotto di una locale, progressiva banalizzazione portata fino alle estreme conseguenze, cioè fino al totale azzeramento della marca di preferenza che storicamente gli compete  (e che nell'italiano corretto continuerà a competergli). Basterà avere un po’ di pazienza: anche la voga di quest’imbarazzante piuttosto che finirà prima o poi col tramontare, come accade fatalmente con la suppellettile di riuso. Segnalo intanto la significativa variatio che mi è capitato di cogliere al volo qualche giorno fa (precisamente, il 17 aprile 2002), nel corso di una trasmissione televisiva che si occupa di alimenti e di buona cucina: un’esperta di gastronomia, chiamata a giudicare tra piatti a base di pesce allestiti in gara da due cuochi, nel sottolineare quanto sia importante anche l'effetto estetico nella presentazione d'una vivanda ha fatto osservare come nei molluschi dalle valve variopinte utilizzati in una delle portate ci fosse “più colore rispetto a una triglia anziché a una sarda” (triglia e sarde essendo i pesci usati nella preparazione di altre due portate). In effetti, una volta appiattito semanticamente piuttosto che fino all'accezione del latino vel, non c'è ragione che non accada la stessa cosa ad anziché (e anche, di questo passo, a invece che, invece di)».

Il linguista Francesco Sabatini ha, anche lui, esortato dai microfoni di Radio 3 alla lotta contro questo errore e, da non perdere, è la divertente invettiva di Carlotta Mazzoncini, su YouTube, contro “L’uso improprio del ‘piuttosto che’” . Saranno sufficienti? Per ora, lo scontro continua...

venerdì 5 dicembre 2014

Schermaglie#37/Si alza il vento...

Finalmente l’ultimo grande film d’animazione di Hayako Miyazaki è disponibile anche per noi (in Italia), ultimo non solo in senso cronologico, ma perché film d’addio del geniale Maestro giapponese che, come viene ripetuto più volte nel film, ha voluto affermare il senso del limite: «l’arco della creatività dura solo una decina d’anni», anche se quello di Miyazaki è durato oltre 40 anni.
Il padre di Miyazaki aveva una fabbrica che produceva componenti per la produzione degli aerei “Zero”, il famoso aereo da combattimento giapponese progettato dal designer Jiro Horikoshi, alla cui memoria e a quella di Hori Tatsuo (nonché, implicitamente, a quella del padre di Miyazaki) il film è dedicato. «Gli aeroplani sono uno splendido sogno» e in questo sogno compare anche il conte Giovanni Battista Caproni (1886-1957), pioniere dell’aviazione italiana, in quegli anni idolo dei progettisti di aerei.
Horikoshi affronta tutte le difficoltà e gli insuccessi che si susseguono pur di tener fede al sogno e, di fronte a ogni ostacolo,  viene ripetuto il verso di Paul Valéry che dà il titolo al film: «Si alza il vento, bisogna tentare di vivere»: il vento simbolo delle difficoltà e anche condizione di ogni creazione (ritorna la colomba di Kant!). È questa la filosofia del film: l’impegno a dispetto di tutti i problemi, dell’impermanenza intrinseca alla vita, della eterogenesi dei fini che porta spesso a conseguenze diverse da quelle attese, generando anche dolore e distruzione. Jiro, accompagnato dall’immagine di Caproni, sa affrontare gli impedimenti del lavoro (gli aerei Zero, finalmente realizzati, saranno usati dai kamikaze e tutti distrutti nella Seconda guerra mondiale), della vita collettiva (terremoto del 1923, crisi del 1929, condizioni del Paese) e privata (malattia e morte della sua amata).

Qualcuno ha voluto scioccamente attaccare il film come nazionalista e bellicista, non comprendendone il significato più vero che è quello di affermare che il buon gusto e i sogni devono essere difesi e inseguiti, nonostante tutto, in una visione della vita impegnata, matura, drammatica, ma non depressiva. E il conte Caproni, alla fine, ci invita tutti a bere un buon bicchiere di vino (italiano).

mercoledì 3 dicembre 2014

Colpevoli, non-colpevoli?

Le religioni sono vie di accesso, ma anche sistemi di regole per proteggere l’uomo dai rischi di un contatto troppo ravvicinato col sacro e la Totalità, contatto che non può essere “sopportato” che per brevi momenti: giungendo al mondo dietro il mondo, vedendo ciò che non deve essere visto si potrebbe acquisire un sapere che sconvolge, che fa divenire folli o morire. Nella Torah il divieto è esplicito e categorico: «“Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia”. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”» (Es 33, 18-20). E numerosi sono gli esempi che sottolineano la temerarietà o hýbris presente nell’essere entrato nella particolare sfera di energia del sacro venendo meno alle norme di prudente separazione, temerarietà pesantemente punita anche quando c’è error e non scelus essendo la trasgressione commessa inconsapevolmente: di qui il valore protettivo dei riti e dei simboli condivisi e consacrati che “regolano” il contatto con la sfera  dell’inaccessibile.
Sempre nella Torah (II Sam 6, 6-8) si racconta di Uzzà che stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm». Davide si rattristò per il fatto che il Signore si era scagliato con tale impeto contro Uzzà. Un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2) che «offrirono davanti al Signore un fuoco illegittimo, che il Signore non aveva loro ordinato. Ma il fuoco si staccò dal Signore e li divorò e morirono così davanti al Signore».
Viene poi (Lv 18) dettagliata una serie di proibizioni sessuali legate a visioni e contatti, come le seguenti: «Non recherai oltraggio a tuo padre avendo rapporti con tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità della tua matrigna; è la nudità di tuo padre. Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, sia nata in casa o fuori. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non scoprirai la nudità della figlia della tua matrigna, generata nella tua casa: è tua sorella. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, cioè non ti accosterai alla sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.
 Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia; né prenderai la figlia di suo figlio, né la figlia di sua figlia per scoprirne la nudità: sono parenti carnali: è un’infamia».
Il mondo classico, analogamente, ci presenta vari casi, tra i quali possiamo ricordare quelli molto significativi di Atteone e di Edipo.
Atteone (v. Callimaco, Ovidio, Nonno di Panopoli), fu trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani per aver visto Artemide nuda, divenuto spettatore «della dea che non è consentito vedere». Così ne narra Ovidio (Metamorfosi, III):

Dumque ibi perluitur solita Titania lympha,
ecce nepos Cadmi dilata parte laborum
per nemus ignotum non certis passibus errans
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant.
Qui simul intravit rorantia fontibus antra,
sicut erant nudae, viso sua pectora nymphae
percussere viro, suitisque ululatibus omne
implevere nemus circumfusaeque Dianam 
corporibus texere suis; tamen altior illis
ipsa dea est collooque tenus supereminet omnes.
Qui color infectis adversi solis ab ictu
nubibus esse solet aut purpureae Aurorae,
is fuit in vultu visae sine veste Dianae.
[Mentre là dentro ne vanno come sempre irrorando la figlia del Titano, ecco giungere al bosco il nipote di Cadmo, che ha smesso ogni traffico e ha errato con passi malcerti per forre a lui sconosciute, seguendo la guida del fato. Non s’era ancora affacciato alla grotta stillante di spruzzi che, nude com’erano, le ninfe alla vista di un uomo si batterono il petto e riempirono il bosco di grida stringendosi intorno a Diana e cercando di colpirla col corpo; ma più alta di loro è la dea, di una testa le supera tutte. L’identica tinta che sempre colora le nuvole colpite dai raggi del sole o l’aurora di porpora comparve sul volto di Diana, vista così senza vesti (tr. it. di Ludovica Koch)].

      Diana, nipote del titano Coeo, quindi dotata di un doppio potere divino, arcaico e recente, mostra un rossore espressione più di ira che di virginale modestia e infligge la tremenda punizione ad Atteone, benché (come per Edipo) la sua condotta sia priva di scelus (essendo guidato dal fato: sic illum fata ferebant).
        Il mito di Edipo (e la drammatizzazione tragica che ha ricevuto da Sofocle) ci porta a divieti legati alle relazioni di parentela e alle origini, e quindi al tabù dell’incesto, terreno di scontro tra desiderio di “conoscere” e divieti che proteggono da situazioni “pericolose”. Nel nostro sapere sulle origini di noi stessi c’è, infatti, un punto cieco, un insuperabile non-sapere relativo alla vita dei corpi che generano corpi, al mistero della congiunzione, momento sacro di non-dualità, coniunxio oppositorum dei sessi, dotata del potere magico di “estrarre” una nuova vita dall’abisso della “latenza” prenatale: mistero insondabile del congiungimento (dei genitori, quando i figli ovviamente non c’erano), che non può essere rivelato (ai figli) e la cui “conoscenza”, mediante una esperienza incestuosa, verrebbe a scontrarsi con la proibizione in cui si esprimono norme di convivenza sociale e divieti di diretto contatto col sacro. Edipo si interroga, vuole sapere: rispondendo alla Sfinge, in una sfida in cui conoscere è questione di vita o di morte, lotta per sopravvivere, lotta per la realtà e, passando attraverso il tormento dell’interrogazione, acquista la tragica consapevolezza della condizione umana. Ma egli vuole sapere anche sulla sua propria origine (chi è? di chi è figlio? «Non posso non far luce sulla mia origine»; «devo sapere», Sofocle, Edipo re, v. 1059 e 1066) e sulla natura delle sue azioni (nel sospetto di parricidio e incesto), disposto a pagare tutto il prezzo di sofferenza che quella conoscenza può comportare («attraverso il patimento, il sapere», secondo le parole di Eschilo, Agamennone e «molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore nel Qoèlet, 1,18).
        La tragedia ci fa partecipi del disvelamento a cui giunge Edipo riguardo alla  natura delle sue origini e delle sue azioni («Tutto è ormai chiaro. O luce del sole che io ti veda per l’ultima volta, perché oggi è avvenuta la rivelazione che sono nato da chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso chi non dovevo uccidere», 1182-85): non solo ha ucciso il padre, ma con la “nudità” di sua madre anche lui ha visto ciò che non si doveva vedere: nella consapevolezza dell’incesto compiuto, scopre di essere entrato in contatto con la coincidentia oppositorum, col sacro nel sesso, che non consente più di vivere una vita ordinaria. Il sole, il sesso, la morte, il sacro non possono essere visti “a occhio nudo” se non vogliamo rimanerne accecati: chi, come Edipo, ha superato il limite del sapere del determinato e “visto” il Tutto indiviso, non ha niente altro da vedere, perché quel che potrebbe ancora incontrare avrebbe solo valore di simulacro: la cecità di Edipo non è, dunque, una banale, pur se orribile, punizione, ma la dichiarazione dell’impossibilità di vedere la parte dopo aver visto il Tutto. Occorre allontanare per vedere, distanziare per vivere, evitare i cortocircuiti per far circolare la corrente. Con l’atto generativo tra “estranei”, che pur conserva in sé un sentore di peccato, si aggiungono anelli alla catena dell’insondabile, si realizza un distanziamento dal punto iniziale e si attutisce lo sconvolgimento del contatto col mistero originario:  una convivenza con la figura del padre è possibile e, grazie a un incesto simbolico (in ogni donna l’ombra di Giocasta!), lo sguardo sulle origini è ormai protetto da un utile velo per cui si può sopportare la vita. Sublimazione, diluizione, dilazione...
«Apollo fu, Apollo miei cari, che ha voluto questi miei patimenti atroci», dice Edipo. In effetti, la condotta di Edipo è stata priva di scelus, anzi egli ha fatto di tutto per allontanarsi dal destino che aveva intravisto attraverso il messaggio dell’oracolo. L’oracolo aveva “parlato” al padre e a Edipo stesso, ma «il signore, a cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna» (Eraclito), cioè né svela né inganna, solamente allude, mostrando come le azioni siano già disegnate e indirizzate, ma non tanto da impedire l’azione a chi interroga, lasciandogli l’occasione dell’errore e, infine, lo spazio per una presa di coscienza che segna una discontinuità nell’azione degli dèi, in definitiva rispettosa dell’uomo, che può reperire, proprio in questa lacuna, lo spazio della propria dignità. È quanto Edipo ribadisce con forza a Creonte: «Tu sputi dalla tua bocca assassinii e accoppiamenti e calamità che ho subito mio malgrado. Evidentemente piacque così agli dèi, forse adirati da tempo remoto contro la mia stirpe. Sì, perché di certo non troverai da rinfacciare a me personalmente alcuna colpa volontaria, […] se, tramite l’oracolo, arrivò a mio padre la profezia che sarebbe morto per mano di un suo figlio, come puoi ragionevolmente rimproverare a me, che non ero ancora nato, anzi che non ero stato nemmeno concepito da mio padre e da mia madre?» (962 ss.).
     Ciò che dagli dèi (o dal Fato) è stato disposto non può essere deviato o corretto: gli dèi, al fine di (ri)stabilire la giustizia (violata da qualche pregressa forma di hýbris), programmano il corso degli eventi, ma sta agli uomini “interpretarlo” e, quando poi è raggiunta la consapevolezza di essere stati veicolo di una Volontà più alta o più ampia (nello Straniero di Camus, Meursault non sapendo come giustificare l’omicidio che ha commesso dirà «che era stato a causa del sole», in Opere, tr. it., Milano, Bompiani, 1996, p. 179), l’assunzione della “responsabilità” di essere stati via del passaggio del male produce una discontinuità, che il genio tragico mette in luce. Nel caso di Edipo, continuare a vivere nel determinato non poteva significare che percorrere un cammino di espiazione (quello rappresentato appunto nell'Edipo a Colono), divenendo, per questo, un personaggio speciale, capace di portare beneficio e indurre santificazione. Secondo R. Barthes, nella tragedia un fenomeno si tramuta nel contrario: il potere in disgrazia, la fortuna in sfortuna, la ricchezza in miseria… Il  male irreversibile che può colpire l’individuo facendogli commettere degli “errori” agendo contro giustizia, anche se non intenzionalmente, trova un riscatto che non passa attraverso il pentimento o il rimorso, ma, una volta raggiunta la consapevolezza di essere stato strumento della volontà divina («le mie azioni io non le ho decise, ma le ho patite», Edipo a Colono, v. 266) e di essere caduto, «sotto l’impulso degli dèi» (v. 998), in un «abisso di calamità», attraverso un cammino di espiazione e il pagamento di un prezzo di patimento “necessario” (ma che non implica — come il pentimento — una partecipazione soggettiva) per il ristabilimento di giustizia e armonia: coscienza di aver compiuto il male e convinzione di innocenza possono così paradossalmente coesistere. Il disvelamento apporta grande dolore e grande sapere, ma apre a Edipo le porte della redenzione attraverso un martirio che lo trasforma da reietto in eletto. Egli potrà, perciò sentirsi ormai «puro, consacrato agli dèi e aiuto agli abitanti di questa città» (286). A Colono“ egli è santificato” e, questa volta — sempre per effetto di una Volontà superiore —  divenire tramite di interventi divini ri-equilibratori. Come dice la figlia Ismene, «Adesso gli dèi ti risollevano come prima ti rovinarono» (394).
      Le religioni hanno, dunque, stabilito codici di accesso-al e di distanza-dal sacro, ma la modernità secolarizzata considera ormai arcaismi i tabù, i divieti biblici e i miti; la psicoanalisi ha visto in Edipo “il nostro eroe” (poiché nelle fantasie edipiche egli è quello che ciascuno vorrebbe essere) e, nel disincanto generale, la trasgressione finisce per banalizzare sé stessa. Nell’Atteone e Diana di Tiziano qualcuno legge più che la punizione di chi ha osato spiare ciò che dovrebbe restare occulto la felice condizione di chi, almeno per un istante senza tempo, ha potuto godere, costi quel che costi, la contemplazione della divina bellezza: si intravede il rischio calcolato e accettato dal “moderno” che, con Baudelaire, potrebbe dire: «Che importa l’eternità della dannazione a chi ha trovato in un istante l’infinito della gioia?»
In tutte le “creazioni” (del mondo, degli dèi, di noi stessi, delle opere d’arte...) compare una dimensione di Totalità, non-dualità, sacralità, ineffabilità. Potrebbe ritrovarsi qui la possibilità di procedere a un nuovo incanto del mondo e a una nuova disciplina di rapporto con l’inaccessibile?

sabato 1 novembre 2014

Cariatidi e dintorni#45/Palazzo Litta, Milano


disperazione
(foto Antongiulio Panizzi)

mercoledì 29 ottobre 2014

Colette e le lacrime di Proust


Colette (Sidonie-Gabrielle Colette, 1873-1954) fu attrice, scrittrice, membro e poi presidente dell’Académie Goncourt, insignita del grado di grand officier della Légion d’Honneur, al centro di scandali per le sue relazioni e il suo comportamento spregiudicato; alla sua morte la Chiesa le negò i funerali religiosi, ma in cambio (prima donna in Francia) ebbe le esequie di Stato. La prestigiosa collana della Pléyade ne ha raccolto gli scritti in ben 4 volumi.
Colette aveva conosciuto Proust quando, appena sposata (1893) con Henry Gauthier-Villars, aveva cominciato a frequentare i salotti parigini. Non divennero mai amici, ma quando la scrittrice gli inviò il suo romanzo Mitsou ou comment l’ésprit vient aux filles [Mitsou ovvero come le fanciulle diventano sagge] (1919) Proust le scrisse «Ho un poco pianto stasera, per la prima volta dopo molto tempo, eppure da un pezzo sono oppresso da dispiaceri, da sofferenze e da seccature. Ma se ho pianto non è per tutto questo. È leggendo la lettera di Mitsou. Le due lettere finali sono il capolavoro del libro».
Cosa può avere così fortemente commosso Proust? Il libro (che ha spunti autobiografici) narra la scoperta dell’amore da parte di un’attricetta di music-hall, mantenuta da un “uomo perbene”, per un tenente incontrato per caso al tempo della prima guerra mondiale. La scoperta cambia la sensibilità e la vita della giovane donna, ma ove risiede la raggiunta saggezza?  Forse, è nella dolorosa scoperta fatta dalla protagonista che l’amore può ferire, non essere ricambiato, rimanere unilaterale («Mio caro, la cosa difficile per voi era non essere amato da me. La cosa quasi impossibile per me era essere amata da voi»), parziale e transitorio, quando lo si vorrebbe totale ed eterno: ma la “saggezza” di Mitsou sta nel non entrare nell’esibizionismo depressivo («so comportarmi bene e non ho bisogno di essenza di melissa né di aceto»), mostrandosi capace di rinunce e, pur con qualche vaga speranza, rimanendo ferma sul presente, non per spensierato edonismo, ma con un maturo, malinconico realismo.