giovedì 26 giugno 2014

Cariatidi e dintorni#42/Villa Farnesina, Roma


In un corridoio affrescato della villa romana nota come Villa della Farnesina, lussuosa residenza suburbana dell’età augustea (vedi l'allestimento a Palazzo Massimo) troviamo, dipinte, una serie di cariatidi: sostenute dai capitelli di esili colonne, a loro volta sorreggono le colonne dell’attico, dove si possono apprezzare una serie di quadretti che mostrano nature morte, paesaggi e forse una rappresentazione della battaglia navale di Azio (che pose fine alla guerra civile tra  Antonio e Ottaviano e portò alla conquista dell’Egitto da parte di Roma).





(foto RV)

venerdì 20 giugno 2014

Spiritualità del finito#6/ Perché l’Essere invece del Nulla?

Nel suo tour filosofico Perché il mondo esiste? (tr. it., Novara, De Agostini,  2013), proposto da Jim Holt in modo garbato, esaustivo e gradevole, l’A. afferma che gli antichi pensatori greci, che formularono delle cosmogonie razionali contrapposte alla varietà mitopoietica rappresentata dai racconti della creazione, non si domandarono mai perché esistesse il mondo invece del nulla, ritenendo che il mondo comincia ad esistere quando al disordine viene imposto un ordine, quando il Caos diviene Cosmo, sempre partendo da un principio, individuato in acqua, fuoco, àpeiron (materia indefinita)... Occorreva arrivare a una cosmogonia nuova, quella della creazione ex nihilo per dare al nulla il carattere di un’autentica possibilità ontologica e rendere plausibile chiedersi perché esista il mondo invece del nulla, perché l’ente invece del niente. E infatti Gottfried W. von Leibniz se lo chiese, formulando la domanda di tutte le domande: «Perché l’Essere invece del Nulla?». La risposta data dallo stesso Leibniz era in armonia con la tradizione religiosa cristiana: il mondo esiste perché Dio lo crea, per propria scelta, mosso dalla propria infinita bontà. Si tratta, evidentemente, di una di quelle “spiegazioni” che creano più problemi che soluzioni (Perché c’è Dio? E quali le sue motivazioni?), ma ormai l’incantesimo era stato rotto e la domanda fu ripresa dai filosofi successivi, da Schelling a Hegel, Schopenhauer, Bergson, Heidegger... La cosmologia scientifica non ha ignorato il problema, ma è sempre stata consapevole che la domanda sul principio dei principî non può essere affrontato dalle scienze, alle quali conviene limitarsi a indagare sull’origine del nostro universo, della vita, della coscienza..., lasciando la domanda sul perché ultimo alla religione e alla filosofia. Ma, ormai, non possiamo ignorare che la domanda si pone a partire dall’Essere, dall’interno dell’Essere: non si porrebbe, infatti, se l’Essere non ci fosse, non potendosi porre dal di fuori, in un punto/momento di indifferente possibilità, senza interrogarsi su chi formula domanda. Poiché l’Essere c’è, ci saranno (buone?) ragioni perché ci sia, secondo il paradigma di causa-effetto, ragioni che, tuttavia, noi ignoriamo. Impossibile, quindi, andare a un “prima”, perché o il tempo inizia col mondo o c’è sempre un “prima” del prima: del big bang, della creazione, dello spazio quantico, etc., in uno sterile regresso all’infinito.
La domanda si può porre allora in prospettiva teologica e a un più limitato livello, rivolgendola a qualcosa o a qualcuno già presente: a Dio, un Dio (necessariamente) esistente, creatore del mondo fenomenico (e di sé stesso?) per capire quali potrebbero essere state le sue motivazioni. Si è affermato che (per es., da S. Ignazio, in Esercizi, n. 23), Dio «non ha altro motivo per creare se non il suo amore e la sua bontà. L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio Nostro Signore e per salvare, in questo modo, la propria anima»: Dio in quanto summum bonum, essendo diffusivum sui, non potrebbe fare a meno di creare. Concetti presenti nel Concilio Vaticano I (1868-70) e ripresi nel Catechismo di Pio X, secondo i quali Dio crea per manifestare e creare la propria gloria (ove per gloria dobbiamo intendere qui lo splendore, la grandezza, la beatitudine della maestà divina): Dio, «padrone assoluto di tutte le cose» (n.5), «ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra, in paradiso» (n. 13). Anche nel più recente Catechismo del 1992, leggiamo: «il mondo è stato creato per la gloria di Dio» (n. 293) e «Dio ha creato tutto per l’uomo, ma l’uomo è stato creato per servire e amare Dio e per offrigli tutta la creazione» (n. 358). I termini “padrone”, “servire”, “gloria” sono termini che, non c’è bisogno di sottolinearlo, suscitano reazioni di rigetto da parte della mentalità moderna, ma non è su questo che vale ora la pena di soffermarsi, quanto sulla “motivazione” divina. Da un lato, Dio avrebbe avuto bisogno di essere riconosciuto e amato, ma l’amore, per come noi lo concepiamo, implica sempre una mancanza, un bisogno, cosa che non si addice a un essere perfettissimo; dall’altro, questa “necessità” di creare da chi verrebbe imposta? C’è una legge a cui anche Dio deve sottostare? E che dire poi del desiderio di essere glorificato, che ci fa pensare ai serafini sfibrati dalla perenne ripetizione del tersanctus (Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Sabaoth), e «fa di Dio il più raffinato dei narcisisti» (V. Mancuso)?
Più significativi appaiono i temi della teodicea o di quello che chiamerei dell’“ateismo morale”, che vede la creazione tanto intrisa di dolore da apparire non come frutto di amore misericordioso, ma come opera di un essere incosciente o sadico piuttosto che benevolo. «La divinità», ci si è chiesti «o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all'essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?» Gli interrogativi di Epicuro, ripresi da Pierre Bayle (1647-1706), provocarono la “risposta” di Leibniz, che introdusse il termine “teodicea” per la sua tesi giustificazionista di Dio (che addossa all’uomo e al suo peccato tutta la responsabilità del male e del dolore), poi avversata da Voltaire e confutata da Kant. Non più gratificante è la visione di un Dio machiavellico, che userebbe il male a fin di bene e che metterà, a suo tempo e a suo piacimento, le cose a posto, dimenticando che un dolore provato è per sempre, per sempre rimane irredento e non giustificato da ciò che può venire poi, a dispetto di tutte le ideologie dell’armonizzazione. Son per questo preziose le riflessioni del teologo Vito Mancuso che si domanda (in Il principio passione): «Ma il mondo merita di essere amato? Oppure, a causa del prezzo altissimo di dolore che esso impone, meriterebbe ben altro, cioè disprezzo, avversione, persino odio, o solo noncuranza e distacco? E qual è il punto di vista più maturo per guardare questo mondo nel quale siamo capitati nascendo? […] Qualcuno dice l’amore. Ma che cos’è, da dove viene l’amore? È un risultato del lavoro del mondo oppure una contraddizione del lavoro del mondo? È l’applicazione più coerente della logica cosmica oppure ne è una trasgressione e un’eresia?»
Perché per il cosmo siamo così insignificanti? Enti finiti, collocati dentro-il (come esistenti) e fuori-del (come spettatori interroganti) mondo siamo dunque invitati a rinunciare sia alla domanda metafisica sul perché del mondo, che rimanda sempre a un altro perché, sia alla domanda esistenziale sul dolore che non possiamo spiegare. Ma per farlo senza cadere nel più pessimistico dei nichilismi è necessario un passo ancora, che ci porti a trasformare, con un lavorio di alchimia transpersonale, l’ignoranza, il patimento, la nausea nell’affermazione (ma si potrebbe anche dire fede, impegno, apertura, speranza...) del diverso valore che abbiamo intravisto proprio in virtù della più profonda contraddizione esistenziale, per cui non sia vano pensare che il coltello dell’assassino, la bruttezza e l’oscurità non siano “l’ultima parola”... Quando Mishima diceva: «Io penso che i “grandi problemi” siano cose davvero volgari» forse voleva dire che la “grande domanda” è cosa oziosa, sciocca, da ignoranti, deviante da una spiritualità del finito a cui, con altre parole, ci indirizzava Stendhal: «Chi siamo? Dove andiamo? Chi lo sa? Nel dubbio, di concreto c’è soltanto il piacere tenero e sublime che ci dànno la musica di Mozart e i quadri del Correggio (Stendhal, Passeggiate romane).

giovedì 12 giugno 2014

Quel palazzo dice...#3/via Nemorense, Roma


(foto RV)

Semplice, categorico, ottimistico il messaggio di questa facciata, in via Nemorense [dal tempio di Artemide Nemorense, a Nemi], angolo piazza Verbano [Lago Maggiore]: Laeta domus – Laeti habitantes [Lieta la casa – lieti gli abitanti].

lunedì 9 giugno 2014

Spiritualità del finito#5/ Per te (da Tich Nhat Hanh)


Una poesia che ci ricorda come guardare, dal punto di vista dell’ichinen sanzen, le cose e le persone che ci sono vicine

PER TE
Tu: roccia, gas, nebbia, mente, mesoni viaggianti tra le galassie alla velocità della luce, tu sei venuta qui, mia amata, e i tuoi occhi neri risplendono, così belli  e profondi.
Hai seguito il cammino tracciato per te da ciò che non ha inizio e non ha fine. Mi fai capire che sulla tua strada hai attraversato milioni di nascite e morti; innumerevoli volte sei stata trasformata nelle tempeste di fuoco del cosmo; hai usato il tuo corpo per misurare l’età di montagne e di fiumi.
Ti sei manifestata come alberi, erba, farfalle, cellule e crisantemi, ma gli occhi con cui mi guardi questa mattina mi dicono che tu non sei mai morta. Il tuo sorriso m’invita al gioco di cui nessuno conosce l’inizio, il gioco del nascondere e del cercare.

(Tich Nhat Hanh, Il vecchio mendicante, tr. it., con modifiche, di R. V.)