sabato 27 settembre 2008

Roma barocca#2


finestre e medaglioni della casa dei ritratti in via del Governo vecchio
(foto RV)

venerdì 26 settembre 2008

ancora sulla costrizione (v. sogno, 9 set. 2008)




il legame che la nostra sensibilità avverte tra costrizione e dolore è ben evidenziato dal kanji (carattere cinese adoperato per il giapponese) impiegato per esprime gentilezza, bontà, misericordia (pron. ON), composto dall'unione del carattere del cuore con quello di un uomo prigioniero (chiuso in uno spazio delimitato): dunque, il sentimento di pietà che proviamo verso chi soffre perché è immobilizzato, confinato, costretto.  

giovedì 25 settembre 2008

Duras#2

Le Square, Paris, Édition Gallimard (“square” in francese “giardinetto”, di solito al centro di una piazza, delimitato da una cancellata) è un romanzo (più che un romanzo un testo per il teatro, che lo ha infatti messo in scena nel 2003) che Marguerite Duras, ha pubblicato nel 1955, fatto di un fitto dialogo tra una cameriera e un venditore ambulante, esempi di quella moltitudine di esseri (tutti noi?) dotati solo di “una identità di morte”, preoccupati esclusivamente della sopravvivenza, che si incontrano e parlano, delle loro difficoltà personali e della comune infelicità.

La conversazione ha spesso i toni di una filosofia popolare, con accenti drammaticamente esistenzialistici che hanno fatto includere Le square nella letteratura dell’assurdo (“È una cosa comune procedere così nella vita, senza sapere affatto perché”. “Niente o nessuno, io credo, ha la missione di ricompensare i nostri meriti personali, soprattutto quelli oscuri e sconosciuti. Noi siamo abbandonati”), in cui si confrontano l’irrazionalità, o forse una razionalità irragionevole, del mondo e il desiderio disperato dell’uomo di risposte, di chiarezza e di senso.

Ma, più che i contenuti del conversare, la cosa importante per questi esseri sofferenti e sperduti è il fatto stesso di chiacchierare, “senza il quale, dicevano queste persone (è la stessa Duras che così scrive nella “premessa” del 1989) non avrebbero potuto sopravvivere alla loro solitudine”. La “chiacchiera” (per Heidegger una delle modalità inautentiche — insieme alla curiosità e all’equivocità — di apertura dell’esserci e del suo costitutivo decadere), pertanto, lascia qui filtrare una possibilità di comunicazione e si presenta quindi come un embrionale superamento dell’angoscia. Il parlare, anche nella sua più brutale banalità, sembra farsi metafora della letteratura che, dicendolo, domina l’assurdo attraverso la magia della parola, svolgendo così una funzione esorcistica, catartica e salvifica.

domenica 21 settembre 2008

autunno

Inizia una nuova stagione, un nuovo anno di attività: un'occasione per la consapevolezza del cambiamento, ricognizioni biografiche, progetti, bilanci. In giapponese, la parola SHU è scritta con due caratteri che rappresentano la pianta di riso e i cereali in genere (a sn) e fuoco, secco, maturo (a dx), cioè la stagione in cui i cereali sono raccolti; anche la stagione che viene dopo il secco estivo e quella in cui si bruciano le stoppie, finita la mietitura. L'equinozio di settembre segnava l'inizio dell'anno secondo il calendario adottato  dalla prima Repubblica francese, avendo la Convenzione nazionale, nella sua prima adunanza, tenutasi il 21 settembre 1792, abolito la monarchia. È anche il giorno designato da una risoluzione dell'ONU (1981) come Giornata internazionale della pace.




venerdì 19 settembre 2008

Schermaglie#2/Café Lumière

Hou Hsiao-Hsien, regista taiwanese (nato a Meixian, RPC, nel 1947), ha raggiunto ormai successo e popolarità, attestati anche da vari riconoscimenti (tra cui il Leone d’oro per La città dolente, Venezia 1989). Come egli stesso ha avuto occasione di riferire, nel 2003, in occasione del centenario della nascita del grande maestro del cinema giapponese Yasujirô Ozu, lo studio Shochiku “m’a proposé d’écrire et de réalizer un long-métrage.. Jamais je n’aurais imaginé un jour une telle chance. Je suis un réalisateur taïwanais. Même si je suis allé une vingtaine de fois au Japon au cours de ces vingt dernières années, je n’y habite pas. J’y suis un étranger. C’est donc instinctivement que je remarque les particularités du pays et de ses habitants”. Questo spiega molto dell’attenzione e dell’affetto per i particolari con cui il film è stato girato, film che non vuole “imitare” lo stile di Ozu, ma continuarne lo spirito, non facendo citazioni ma ri-attualizzando situazioni, trasferite all’oggi, e problemi legati alla struttura dei rapporti familiari, in particolare, quello padre-figliaOzu est un cinéaste passionné par la clarté, par la limpidité. Ozu sait tout de ses personnages. Moi, je suis mes personnages, pas à pas, j’ignore où ils vont mener le film. Mon style est donc naturellement moins direct, plus ambigu peut-être.”.
Per Café Lumière sarebbe forse più proprio il titolo “luce e tempo”, perché il passare del tempo è espresso attraverso i cambiamenti di luce (vedi la cultura visuale del regista: Klee, Mondrian, Léger…) e in alcune scene (libreria, caffè…) si è come dentro una camera oscura, in cui il mondo entra attraverso un foro attraverso cui passa un raggio di luce…
Come nei film di Ozu, la figlia è diventata adulta, aspetta un bambino, ma vive al di fuori di una ideologia familiare condivisa. Il padre non sa parlarle, il giovane amico libraio (non è il padre del figlio che attende) vive con lei un rapporto di tenera e silenziosa amicizia. I maschi non parlano, le donne parlano, ma non sappiamo quali siano i loro sentimenti trattenuti, quali le attese e i non-progetti di Yoko (personaggio antipatico ma “mobile”, una ragazzina che “vuole prendersi per un’altra”, come dice la canzone di coda scritta e cantata dall’interprete), attraverso i quali sentiamo passare i cambiamenti sociali.
Nel racconto principale sono inseriti due sotto-racconti riferiti all’inconscio dei protagonisti, due diversi tipi di presenza e di rapporto con esso. Per Yoko si tratta di un vero sogno (di un bambino di carne che è sostituito da un bambino di ghiaccio che si scioglie), analizzato attraverso un libro di fiabe, ricordo di un tempo perduto e della madre (morta?). Il bambino di ghiaccio è lei stessa? Forse si è disfatta per uscire dall’infanzia e soffre lo “stato intermedio” in cui si trova. La sofferenza dell’analisi e del recupero mnestico sono espressi dalla luce nera della stanza ove Yoko legge mentre c’è un temporale. Hajime esprime, invece, il suo inconscio nel disegno che realizza al computer, in cui si rappresenta al centro di una rete di linee ferroviarie, in cui vive la sua “regressione all’utero”: lì si sente protetto e lo vediamo poi andare in giro a raccogliere col microfono i suoni del mondo, che ascolta come un feto ascolta il mondo, attraverso il ventre materno, mettendo così una protettiva distanza tra sé e la realtà esterna.
L’attuale mondo neo-fluttuante è espresso attraverso il movimento (treni) e la telecomunicazione (telefoni, computer). Campi e controcampi esprimono la partecipazione dei due al mondo inconscio dell’altro senza lasciarsene tuttavia coinvolgere: Hajime apprende con impassibilità gentile la notizia della gravidanza e Yoko aprezza e si diverte guardando il disegno di Hajime. I due si muovono nella metropolitana sfiorandosi da vetture diverse, senza incontrarsi, ma la camera li unisce nella loro separatezza (tema della giusta distanza); nella scena finale altrettanto casualmente si incontrano, ma ciascuno inseguendo i suoi motivi: Yoko, mentre tutto sembra girare intorno a lei e alle sue insufficienze (ha bisogno che tutti la alimentino mentre lei sa solo bere latte e mangiare disordinatamente nella precarietà della sua esistenza, in contrasto con la seconda moglie del padre: nutrice, premurosa, realista…), non è realmente centrale ed è osservata dall’esterno (si direbbe da lontano), oggetto come tante altre persone di cui ignoriamo tutto, mentre Hajime, dall’utero protettivo della stazione, cerca di catturare il mondo che gli parla solo col rumore dei treni. 
Distacco, nostalgia, incomunicabilità (molte riprese di spalle e silenzi dove ci si aspetterebbe un colloquio, come negli incontri familiari), incertezza del futuro in un quotidiano sublimato alla Ozu: il dolore, contenuto dalla contemplazione, non sfocia in tragedia, la realtà incomprensibile non viene giudicata ma osservata, il mondo e la vita girano come il groviglio di treni a Shinjuku, nella città-giocattolo della ripresa centrale-finale: la serenità è possibile solo se si affronta (e si sopporta) la questione della distanza. Si può stare vicini, ma per la comunicazione bisognerà attendere: forse allora si potrà venire alla luce, Lumière, uscendo dal… métro-utero.
In tutto il film un’irresistibile seduzione di dettagli, profumi e colori del Giappone. La vita, come dice ancora la canzone, vale la pena di essere vissuta: proprio questa.

venerdì 12 settembre 2008

10+10/Schermaglie#1


Quando si fa il gioco dei 10 libri/film da salvare o da portare nell’isola o quando, più semplicemente, ci viene chiesto un consiglio (“da dove comincio?”) l’imbarazzo nel rispondere è enorme:come selezionare, cosa includere, quali settori/correnti considerare? Ho davanti a me un libro di ben 997 pp. di consigli su come costruire La bibliothèque idéale (Paris, Albin Michel, 1997), di vari autori (con prefazione di Bernard Pivot, conduttore dell’indimenticabile Apostrophe, rubrica tv di novità librarie di France2) e la rivista Time che, tempo fa, aveva azzardato l’elenco dei 100 film “migliori”. Cosa posso osare io col vincolo di 10+10? Ci provo, tanto per non sottrarmi, in modo del tutto personale e chiedendo perdono in anticipo:
Libri:
(dalla Bibbia) Il libro di Giobbe
Sofocle, Edipo re
Platone, Apologia di Socrate
Voltaire, Candide
Flaubert, Madame Bovary
Manzoni, I promessi sposi
Leopardi, Canti
Mann, La montagna incantata
Hesse, Siddharta
Camus, La peste
Duras, Le ravissement de Lol V. Stein (esiste una trad. it., Feltrinelli,  esaurita)
Film:
Dreyer, Dies irae
Carné, Les enfants du Paradis
Renoir, La regola del gioco
Ozu, Viaggio a Tokyo
Kurosawa, Vivere
Visconti, Senso
Resnais, Hiroshima mon amour
Kumai, Morte di un maestro del tè
Tarkovskji, Andrej Rublev
Bertolucci, Il tè nel deserto

giovedì 11 settembre 2008

11 settembre 2001

RICORDIAMO

Cariatidi#1

Vitruvio ne riporta l’origine alle donne di Caria, città che, alleatasi coi persiani, sconfitti da Atene, vide gli uomini trucidati e le donne rese schiave; in ricordo di questa “punizione”, l’architettura le avrebbe adoperate come motivo ornamentale. Pausania, invece, nella sua “guida” della Laconia, parla del santuario di Artemide Cariatide, in Caria, città della Laconia. Caria, figlia del re, era stata trasformata in un albero di noce, in gr. kàryon, per non aver amato Dioniso e in Caria era sorto un tempio dedicato ad Artemide. “Qui le vergini spartane eseguono danze annuali e ripetono, secondo la tradizione, un ballo locale”. Poiché sembra danzassero portando sulla testa cesti di fiori e frutti, questi potrebbero essere diventati “facilmente” capitelli. Le più famose sono certamente le cariatidi dell’Eretteo (culto dell’eroe Eretteo o Erechthèus) ad Atene,  opera di Alkamenes, allievo di Fidia. Qualunque sia l’origine, resta che le cariatidi in architettura sono state una geniale invenzione, omaggio alla bellezza femminile, che ha reso leggeri, animati e seduttivi colonne e sostegni.

Non potevano mancare i corrispondenti maschili, detti Atlanti (da Atlante, gigante o titano?, comunque della generazione dei ribelli alle divinità olimpiche, poi sconfitti; punito col dover sostenere la volta celeste o il mondo sulle sue spalle) o Telamoni  (dal nome di un eroe greco; forse i due nomi sono accostati avendo la radice tl il significato di portare/sopportare). I Telamoni, solitamente dalla muscolatura possente, svolgono  con energia, e a volte con malumore, il loro lavoro.

Cariatidi-erme del Ninfeo di Villa Giulia, Roma (foto RV)


martedì 9 settembre 2008

sogno


Sogno: mentre parlo in un convegno, vedo accanto a me, vicino alla cattedra, un casellario postale condominiale, di quelli con le cassette disposte verticalmente. C’è sopra anche un foglio appoggiato come per distrazione. La cosa angosciosa è che ho notizia e consapevolezza che dentro le cassette sono “costrette”, per non so quale vicenda repressiva, delle persone che io conosco: la cosa non mi riguarda, ma mi coinvolge profondamente. Cosa fare, come continuare…? Da sveglio, rifletto su quanto il dolore sia legato alle costrizioni: malattie, ricoveri in ospedale, paralisi, afasie, prigioni e via enumerando fino alle… bare. Il grande Sherrington (Nobel per la medicina e fisiologia, 1932, unitamente a Lord Adrian che incontrai tanti anni fa) non a caso diceva che l’uomo non fa che muovere cose: anche quando “semplicemente” pensiamo, gli impulsi nervosi si propagano per movimenti ionici e i mediatori chimici attraversano le sinapsi… Forse per questo ci incanta il miracolo della danza

lunedì 8 settembre 2008

coppie

Nei rapporti di coppia, distinguere solitudine (da rispettare, come diceva Rilke, facendosi ciascuno custode della solitudine dell'altro) da estraneità (in presenza della quale occorrerebbe separare subito i diversi destini/le differenti destinazioni).

domenica 7 settembre 2008

Conoscere

Conoscere: accesso all'incomunicabile, salvezza, super-vivere, pensare i pensieri di Dio… Dolore anche: quando la lucida lama dell’intelligenza sembra spezzarsi nell’impatto con l’ottusa invalicabilità dell'ignoranza.

Muji

Evviva! Muji (= oggetti di qualità senza marchio) ha un punto vendita a Roma (via del Tritone, 199): finalmente una sintesi Tokyo-Parigi-Roma!

sabato 6 settembre 2008

Duras#1

Chi ama la Duras ama almeno tre cose di lei: la profonda cognizione del dolore, l’amore per la vita al di là del patimento, la sua convinzione che la scrittura potesse costituire il mezzo più adeguato per ridare ordine al caos dell’esistenza e fornire una via di accesso all'incomunicabile.

Non può, per questo, che essere benvenuto il libro di Alain Vircondelet (arricchito dalle deliziose illustrazioni di Anne Steinlein), Sur les pas de Marguerite Duras, Paris, Presse de la Renaissance, 2006, che, con affettuosa delicatezza, ripercorre il cammino della D., centrando l’attenzione sul suo mito di fondazione (la perduta unità della famiglia, le terre dell’Indocina francese con la natura esuberante e crudele) e la sua determinazione di diventare scrittrice per capire e poter continuare a vivere. Ella disfa e ricostruisce, in una inesorabile ripetizione, il suo racconto, per attraversare la notte della solitudine, dell’esilio, del disamore e tornare a vedere la luce, la bellezza del mondo e dell’arte. Dice Vircondelet che M. D. era una “donna che ‘andava verso’. Verso dove? Lei non poteva dirlo, ma andava”. E andando, forse, era già là dove voleva arrivare, essendoci con la sua ricerca, coi suoi libri. Scrivendo, metteva i lettori sui suoi propri passi e “li portava molto lontano, nella notte del mondo e del tempo, in quel luogo degli scrittori che sfiora verità e cammini segreti per comprendere”: per questo essi non la dimenticano e continuano a raccogliersi sulla sua tomba, nel cimitero di Montparnasse. L’ho fatto anch’io.   (foto RV)

venerdì 5 settembre 2008

Bellezza

La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza (Albert Camus)

giovedì 4 settembre 2008

Figure della speranza#1/Sulla teologia della Croce

Il card. Walter Kasper, teologo, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, nello scritto La Croce come rivelazione dell’amore di Dio (testo di una lezione tenuta presso la Pontificia università  lateranense il 24 10 06, Lateranum, 2006, 72, n. 3) mette a reagire diverse espressioni della teologia della Croce con la sofferenza del mondo, si allontana dalla visione di un universo sacrificale (che vede “la croce come rivelazione di un Dio crudele, collerico, violento che ha bisogno di un capro espiatorio e che sacrifica il suo stesso figlio come prezzo da pagare per la riconciliazione”) per indicare nella croce il luogo non solo dove Dio definisce sé stesso, ma come il luogo in cui si ha la rivelazione dell’amore divino. Questo amore porta Gesù a una sostituzione e a una morte vicaria, al posto di altri (“per noi, per molti”), di noi uomini che in quanto peccatori siamo assoggettati alla morte e non possiamo aiutarci da soli. Assumendo su di sé la maledizione del peccato, della morte, dell’abbandono di Dio, Gesù muore al nostro posto affinché noi viviamo e siamo divinizzati. Egli segue la legge dell’amore, del darsi all’altro, dell’abbandonare per guadagnare: “la kenosi è la forma esistenziale dell’amore nella condizione del peccato”. Poiché l’auto-alienazione è la via dell’innalzamento, quella per cui Gesù diviene Kyrios, Signore del mondo, la sua morte è la morte della morte e la liberazione. Con la kenosi Gesù non ha rinunciato a essere Dio, ma proprio come Dio ci soccorre e ci salva. Il Dio che soffre e che si fa vicino a chi soffre risponde agli interrogativi della teodicea, non eliminando la sofferenza, ma trasformandola in speranza, secondo quanto San Paolo dice: “Spe enim salvi facti sumus [Nella speranza noi siamo stati salvati]” (Rm 8, 24). Il dolore e la morte non hanno l’ultima parola per chi sente dentro di sé che il Signore stesso del mondo si oppone alla sofferenza, in una kenosi che suggella la vittoria della vita sulla morte, della libertà sulla necessità, dell’amore sull’odio. E ognuno che assuma su di sé il peso dell’eclissi di Dio dal mondo, ossia in ogni azione solidale compiuta contro la sofferenza, offrirà un contributo affinché la luce di Dio risplenda “anche nel buio più opprimente”.

La tesi (non cessa la sofferenza, ma ne viene cambiato il significato, per cui non si soffre di soffrire essendo salvi nella speranza: non nella speranza di salvezza, ma salvi nella speranza, nella tensione-verso), se non se ne è forzata l’interpretazione, è più che suggestiva, ma risponde a tutti i problemi della teodicea? Gesù, è vero, non si pronuncia sul male e il dolore, si pone di fronte a essi e offre la sua solidarietà e il suo martirio di “servo sofferente”, ma in quanto Signore le sue “responsabilità” non sono diverse da quelle del Padre. Nel gioco trinitario, è più facile distinguere i ruoli, mettendo il Figlio a riparo da ogni coinvolgimento sul perché le cose siano andate come sono andate (il peccato di Adamo) e vadano come vanno (la massa di dolore innocente e non redento che è nel mondo). Tuttavia, o Gesù è Dio ed è anch’egli “responsabile” o è soltanto “servo sofferente” e allora il suo sacrificio non basta per redimere o, infine, non c’è la grande redenzione e tutti possiamo essere redentori nell’amore.  Siamo di fronte a una neo-teodicea in versione soft? La tesi esposta da Kasper sembra, comunque, il massimo che si possa tentare all’interno della visione monoteistica giudaico-cristiana. Come lo stesso Kasper auspica, la tesi potrà poi essere di grande importanza nel dialogo interculturale e interreligioso, in particolare per l’incontro con la spiritualità buddhista che, com’è noto, si pone l’obiettivo primario della liberazione della sofferenza, ovviamente anch’essa senza la pretesa di eliminarla, ma di trasformarla offrendo degli strumenti per il suo controllo, secondo la dottrina della Via di mezzo. 

Punto di vista del narratore

Nella narrazione, l’autore può adottare tre punti di vista diversi:

quello dall’alto o dell'onnisciente, in cui con piena libertà si muove nel tempo e nello spazio, offrendo al lettore elementi per una visione globale,  mostrando di conoscere situazioni e psicologia dei personaggi più approfonditamente di quanto essi stessi non abbiano;

quello esterno o del testimone, che narra ciò che vede e sente, come farebbe una telecamera che registri senza interpretare;

quello interno, limitato a ciò che vive un personaggio, offrendo quindi una visione limitata e soggettiva, anche se intensamente partecipata.

Il narratore raramente adotta uno solo di questi punti di vista, ma anzi passando da uno all’altro sfrutta le diverse possibilità che questi gli offrono.

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Leonardo Ancona

Anche Leonardo Ancona ci ha lasciati. Non dimenticheremo il suo modo distaccato ma presente, riservato ma gentile. L’incontrai l’ultima volta in occasione del seminario tenuto da Gianfranco Tedeschi (che sarebbe scomparso di lì a poco) nella sua abitazione per alcuni colleghi e amici su Spiritualità e psicoterapia. Ancona ci disse che sentiva ormai il desiderio di “ritirarsi” da impegni e visibilità pubblici, ma ci lasciava il libro La mia vita e le psicoanalisi, in cui aveva raccolto molti suoi saggi sul tormentato rapporto tra antropologia freudiana e antropologia cristiana, tematica che caratterizzò e individuò il suo lungo lavoro di analista. Parlando direttamente, mi disse come nella vita avesse dovuto in tante circostanze soffrire di sentirsi “limato”: un’espressione originale ed efficace che voglio ricordare, perché si addice non alle violente fratture, ma agli usuranti e costosi attriti (specie nei rapporti interpersonali) che ci accompagnano nel corso dell’esistenza. Io gli domandai se gli sembrava accettabile il neologismo che proponevo di “dis-tyche-fobia” per indicare le fobie di sventure e avversità: non gli dispiacque.
Pubblicato da Riccardo a 18.50 0 commenti 

Barocco romano#1: due chiese

Barocco romano#1: due chiese
Barocco (dal portoghese = figura irregolare?), la “rivoluzione culturale” fatta in nome della ideologia della Controriforma (Argan), si lascia alle spalle pauperismi medioevali e cupezze spirituali nordiche: in una visione festosa, tutto ora può essere recuperato (perché riscattato) e non è più tanto lontano dalla perfezione (la Provvidenza è operante), tutto va volto ad maiorem Dei gloriam: quel che resta fuori, che non si deve fare o dire è peccato, ma per il peccato ci sono il pentimento e il perdono. La cultura come via di salvezza; perché lo sia per tutti, l’arte offre il suo contributo di immaginazione che trasporta al di là del contingente, supera i limiti, mostra ciò che è oltre, conquista l’attenzione e guida verso il bene attraverso lo stupore, la meraviglia, la rivelazione. Roma è il primo grande centro del barocco, carrefour di artisti e di arti diverse, forse per l’ultima volta un centro culturale europeo.

I gesuiti riescono a tradurre la propaganda del progetto ideologico controriformista in macchine pittoriche di incredibile efficacia: vedi i due soffitti delle chiese del Gesù e di S. Ignazio.

Giovan Battista Gaulli detto il Baciccia (1639-1709, è troppo dire un Bernini pittore?) dipinge il primo, Andrea Pozzo (1642-1709), lui stesso fratello coadiutore della Compagnia, maestro dell’illusionismo pittorico e della prospettiva, il secondo.

Il nastro con la scritta In nomine Iesu omne genu flectatur cælestium et terrestrium et infernorum ricorda il soggetto illustrato da tutto l’affresco della volta del Gesù, in cui nella cornice di stucchi una folla di santi e di angeli si affolla intorno al monogramma del nome di Gesù (IHS), punto di massima luce, mentre i dannati precipitano al di qua e al di là della cornice, ove la luce si estenua.

Sulla volta della chiesa di Sant’Ignazio Andrea Pozzo dipinge l’ingresso di Sant’Ignazio in Paradiso. La figure del santo e di Cristo sono nel punto di massimo splendore. Dal costato di Cristo un raggio di luce discende sul santo e da lui sui continenti; è evidente uno specchio ustorio, col monogramma di Cristo, che raccoglie la luce per accendere sulla terra il fuoco della fede: Ignem veni mittere in terram. Lo sfondamento verso il cielo, presente anche nella volta del Gesù, qui è ottenuto con la costruzione pittorica di un secondo tempio, le cui colonne guidano lo sguardo verso l’alto, mostrando come le due realtà siano unite in un graduale continuum, come vuole l’ideologia controriformistica.

Non andrebbero poi dimenticati: la macchina barocca nella cappella di sant’Ignazio della chiesa del Gesù, dovuta alla inventiva di Pozzo, il trompe-l’œil della finta cupola da lui stesso dipinta nella chiesa di sant’Ignazio e, infine, la piazza rococò dovuta a Filippo Raguzzini (1680- 1771).
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