giovedì 30 giugno 2011

Sulla pazienza#7/Tertulliano

Con Patristica si intende il periodo in cui il pensiero cristiano è stato prima difeso poi esposto in maniera sistematica dai cosiddetti Patres della Chiesa, periodo che va dal II sec. d. C. a Gregorio Magno (540-604). Gli scritti dei Padri sono raccolti nella monumentale, imponente, severa, quasi minacciosa (varie centinaia di volumi!) opera realizzata dal prete, bibliografo, editore francese Jacques Paul Migne (1800-75), universalmente nota come “il Migne”, divisa nelle due sezioni dedicate alla patrologia greca e a quella latina. Ora, miracoli dell’era digitale, quest’opera è disponibile in Internet, in libera consultazione chez soi e in ogni parte del mondo!
Andando a questa raccolta, possiamo trovare un breve scritto di Tertulliano (Quintus Septimus Florens Tertullianus, 150-220 d. C.) dedicato alla pazienza (De Patientia), della quale egli indica proprietà e pregi, «tanto inseparabile dalle cose di Dio [Dei rebus] che senza la pazienza non è possibile compiere alcun precetto né fare alcuna opera che sia gradita al Signore». Dio è, anzi, Lui stesso, il più perfetto modello di pazienza, cosa che ci deve impegnare a divenire pazienti come Lui (Tema ripreso da Benedetto XVI in una omelia del 2005, su cui v. post  del 14 novembre 2008 in questo Blog). La pazienza è madre della misericordia e Tertulliano mostra come tante iniquità e tanti peccati vengano proprio dalla fretta, ossia dall’impazienza, e ricordo come il mio professore di Filosofia del Liceo appricava questo criterio anche alla verità, dicendoci: «L’errore viene dalla fretta di concludere».
In una prospettiva di ottica retributiva e utilitaristica, Tertulliano cerca di persuaderci dei vantaggi della pratica di questa virtù, gradita a Dio, e della convenienza di rinunciare ai beni terreni in vista di ben più ricchi beni celesti, considerando che sarà Dio a vendicare al posto nostro le offese, le cattiverie, le insolenze che ci vengono inferte. Parimenti, di fronte a disgrazie, malattie, morte delle persone care bisognerà, come Giobbe, pazientare per lasciar operare il Signore: Lui guarirà, ristabilirà, resusciterà… E di fronte alla amarezze della vita c’è, invece, la dolcezza dell’essere pazienti: gli insulti lanciati «contro un’anima paziente non produrranno altri effetti che quelli di una freccia lanciata contro una roccia impenetrabile; sarà un colpo perso: la freccia cadrà a terra o sarà qualche volta rinviata contro chi l’ha lanciata». Non solo non ne saremo toccati, ma potremo anche avere il sottile piacere di vedere frustrata la speranza di chi offende, osservando tornare a lui il dolore che pretendeva causarci. Tertulliano parla anche di una pazienza del corpo, perché se lo spirito è pronto e la carne è debole, è proprio la pazienza che può rinforzarlo, e distingue poi, polemicamente, «haec patientia ratio, haec disciplina, haec opera celestis et vera, scilicet Christiana» dalla pazienza falsa e terrena dei gentili, parente di viltà o maschera di bassi interessi.
Vengono poi forniti quasi dei suggerimenti per una iconografia di questa virtù: la pazienza ha un volto dolce e pacifico, la fronte è serena, nessuna collera che la contragga, nessuna nube che la veli; sopraccigli sempre ridenti, occhi sempre abbassati non per vergogna ma per modestia; il sigillo del silenzio riposa sulla sua bocca; il colore del viso è quello dell’innocenza e della sicurezza; agita sovente la testa per scacciare il diavolo e se ride è per insultare questo tentatore. Il vestito che le copre il petto è candido e di così giusta misura che né rigonfia né ha macchie. Siede sul trono dello spirito di dolcezza e mansuetudine, nessun turbamento l’agita né alcuna nube oscura, ma al contrario si mostra nella sua tenera serenità, sempre luminosa e semplice. «Nam ubi Deus, ibidem et alumna ejus, patientia scilicet: cum ergo spiritus Dei descendit, individua patientia comitatur eum».
Due considerazioni, mi sembra possiamo trarne: la prima, psicologica, sugli effetti negativi dell’impaziena e della fretta («ogni peccato ha la sua origine nell’impazienza; il male non è che l’impazienza del bene», una febbre che spinge anzitempo all’azione); la seconda, filosofica, sulle differenze tra etica autonoma ed etiche eterodirette, basate cioè su comandamenti esterni come quelli divini.

venerdì 24 giugno 2011

Roma barocca#10/p.za dell'Orologio

(foto RV)
Edicola in p.za dell’Orologio (Palazzo dei pp. Filippini):
Sotto un baldacchino ligneo con nappe e pendagli, due angeli librati sulle nuvole sorreggono la cornice (di T. Righi) dalla quale, in alto, fuoriescono raggi (di luce) con attorno testine di cherubini. Al centro, l’immagine della Madonna con Bambino (di A. Bicchierai) su un fondo di un caldo colore dorato; in basso un ricco cartiglio.

martedì 21 giugno 2011

Solstizio d'estate (con Poussin)



Soffermiamoci sul cambiamento di stagione osservando il quadro di Nicolas Poussin dedicato a L’été. Nicolas Poussin (1594-1665, pittore francese molto influenzato dagli ideali classici dell’arte italiana, passò più della metà della sua vita a Roma ove produsse la maggior parte delle sue opere e dove si spense e fu sepolto) non è da considerare un paessaggista, ma «un pittore della natura, senza dubbio il più grande pitture della natura, il suo poeta e filosofo e poeta, […], l’interprete del susseguirsi dei suoi cicli, della sua violenza e della sua grande potenza» (P. Rosenberg). Il quadro fa parte di un insieme di quattro dedicati alle stagioni, composti negli anni 1660-64 per il nipote del card. Richelieu, ora al Louvre. Quadri che sono occasione di contemplazione e di riflessione, in cui  osserviamo l’uomo nell’ambiente naturale e in cui la storia individuale fa parte di una più ampia storia del mondo.
Nell’Été predomina il giallo caldo del campo di grano durante la mietitura, su cui si stagliano i colori vivi delle vesti e il verde scuro del grande albero in primo piano. Sulla destra osserviamo una grande pietra miliare mentre le montagne nello sfondo servono come di appoggio alle linee di fuga prospettiche per dare profondità al paesaggio, nel quale sono collocate anche delle città fortificate.
Su questo sfondo gli uomini. Uno guida i cavalli, altri mietono, compongono i covoni, si dissetano, mentre alcune donne preparano il pranzo. Al centro, un donna con alle spalle un testimone pensieroso che si inchina è inginocchiata di fronte a un uomo col turbante. E le loro storie. Possimo leggervi l’incontro di Rut e di Booz (un episodio biblico, parte della storia della redenzione perché dalla loro unione verranno la stirpe di David e quindi Gesù) o — in una visione panteistica — l’estate come età della maturità dell’uomo o, in un quadro virgiliano ricco di risonanze classiche, un’allusione al culto di Cerere, ma sempre ricordando quel che ebbe a dire Cézanne: «Je voudrais, comme Poussin, mettre de la raison dans l’herbe et des pleurs dans le ciel».

domenica 19 giugno 2011

Senza...

Anni fa gli insoddisfatti, gli esclusi, quelli che si sentivano privi di ricchezza e di opportunità reclamavano e agivano perché fosse loro dato «tutto e subito!». L’“esproprio proletario” si presentava come l’espressione più rappresentativa di un atteggiamento che consentiva di possedere e di consumare, anche non lavorando e non pagando. In generale, “senza” era considerato l’avverbio della povertà, della mancanza, degli insuccessi, come negli adagi del tipo «Non c’è rosa senza spine, non c’è amore senza pena, non c’è vecchio senza dolore», mentre il positivo risiedeva nel poter consumare sempre di più, con poca fatica e molte pretese, e chi poteva cercava di spingersi sempre più avanti,  portandosi alla frontiera dei consumi.
Ora sembra che le cose siano cambiate. Nota Luca Goldoni (giornalista, scrittore, osservatore del costume) che «stiamo abbandonando l’età del “più”, del “super”, dell’“extra” e ripiegando nell’èra del “senza” e del “meno”. “Senza”, insomma, è bello e soprattutto politicamente corretto».
Introdottasi con apparente innocenza attraverso il caffè decaffeinato e il latte scremato, la sottrazione si è rapidamente diffusa «in una galassia di caramelle senza zucchero, formaggi senza additivi, cioccolata senza calorie, tè senza teina, acqua minerale senza sodio, persino il sale senza sale. Dal “doppio brodo” e dalla “colazione più”, insomma, siamo approdati ai sughi senza ossidanti, alle torte senza pectina, ai cracker senza colesterolo, alla frutta senza fertilizzanti. Generalizzando, si può parlare del passaggio graduale dalla bulimia del consumismo alla quasi anoressia dell’igiene, dell’ecologia e dell’estetica. […] Il senza si estende poi anche alla famiglia. Nelle coppie senza figli i casi sono tre: o c' è un pauroso calo di libido o il timore di procreare pargoli senza futuro oppure un calcolo: prima le Maldive, prima le otto ore di sonno filate, poi (si vedrà) la culla. Sul “di tutto, di più” cala come una nemesi il “di meno, di niente”», per non dire dei politici che disgustosamente ripropongono, appena possibile, la formula «Senza se e senza ma».
Dunque, si prospetta un futuro “pulito” fatto di fiumi senza ponti, automobili senza ruote, parlamenti senza deputati…?
Bene: pur cercando di continuare a osservare il "Chi è senza peccato scagli la prima pietra", mi sia permesso sperare che non si facciano troppe scelte senza… testa!

venerdì 10 giugno 2011

Cariatidi e dintorni#32/...leonine



Roma, via Nizza/via Velletri
(foto RV)



venerdì 3 giugno 2011

Cariatidi e dintorni#31/Roma, via del Gesù

nel largo all'inizio di via del Gesù, portale in travertino (XVI sec.) con cariatidi e stemma del palazzo della famiglia dei Frangipane
(foto RV)

Consolazione#4/Requiem tedesco


A differenza dai tradizionali Requiem legati alla liturgia cattolica, il Requiem tedesco di Brahms illustra alcuni versetti della Bibbia tedesca con l’intento di superare sensi di colpa e minacce di punizione, e con un fine consolatorio: la vita e la morte, il dolore e la rassegnazione sono uniti in questa meditazione sulla morte. L’essenza della consolazione risiede nella negazione della morte come annientamento («Suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati», la morte ha perso il suo «pungiglione» ed è stata «ingoiata per la vittoria», 1 Cor, 15, 52-55) e nella rassicurazione che la pace sarà finalmente raggiunta da tutti “gli uomini di buona volontà”, come ci dice l’ultimo episodio, in una conclusione di dolcezza serena e sommessa, certa nella fede di un riposo felice, secondo le parole dettate a Giovanni : «Beati d’ora in poi i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14, 13).
Questa grandiosa elegia è costruita, secondo un’architettura perfetta, in 7 parti, con coppie corrispondenti, dai caratteri musicali ed espressivi comuni: 3 e 5 (per voce solista e coro, rispettivamente: 3, baritono e coro; 5, soprano e coro), 2 e 6, 1 e 7. Nei primi tre episodi si esprime la tristezza per la caducità di tutte le cose, ma a essi fa riscontro la speranza nella beatitudine della vita futura degli ultimi tre, mentre il 4 (inno di lode del Salmo 83) è considerato una sorta di baricentro di tutta l’opera.
Nelle consolazioni ordinarie è, a mio avviso, presente una più o meno grande, più o meno intenzionale, contraffazione della realtà, senza la quale il meccanismo non sta in piedi, mentre a chi rifugge dalla bugia (e dal triste corteo di figure che l’accompagna) non resta che la consapevolezza tragica della contingenza e della finitezza, forse ancora una consolazione, anche se di una diversa e più sottile natura. Questo Requiem può così raggiungere anche noi, che vediamo improbabile il “risorgere incorrotti”, ma sentiamo la gioia e la gratitudine delle rivelazioni che ci sono date, qui e ora, nelle intermittenze del cuore e nella fragilità della vita: come quelle che ci vengono offerte dalla «lunga e intima confessione di un genio dal cuore ferito» (P. Isotta).