domenica 29 maggio 2011

Sefora

Uno dei passi della Recherche in cui Proust mostra al meglio la sua capacità di analisi psicologica è quello in cui Swann, seduttore-di e sedotto-da Odette, appare non persuaso fino in fondo della bellezza di questa: «la necessità in cui versava, per trovare bello il suo viso, di circoscrivere ai soli pomelli freschi e rosei le guance che erano così spesso gialle, languide, cosparse a volte di puntini rossi, lo rattristava come una prova che l’ideale è inaccessibile e la felicità mediocre». Così fino a quando non rimane colpito «dalla sua somiglianza con la figura di Sefora, la figlia di Ietro, che si vede in un affresco della Cappella Sistina», opera di Botticelli. Quella somiglianza gli consentiva di trascendere la realtà particolare, reale, provvisoria della donna Odette, consentendogli di far penetrare la sua immagine «in un mondo di sogni cui prima non aveva avuto accesso e nel quale si impregnò di nobiltà». Il piacere che provava nel guardarla aveva ora una giustificazione nella sua cultura estetica, tanto da rimproverarsi «d’aver misconosciuto i pregi di una creatura che sarebbe parsa adorabile al grande Sandro», per cui «i baci e il possesso, che sembravano naturali e mediocri se concessi da una carne sciupata, gli parve invece che dovessero essere — venendo a coronare l’adorazione di un pezzo da museo — sovrannaturali e deliziosi». 
Proust afferma dunque che ciò che più conta nel nostro incontro con la realtà (di persone, cose, situazioni) non risiede nella immediatezza del dato ma nel suo valore simbolico, nella sua capacità di mettere in moto emozioni, ricordi, fantasie, di appagare esigenze “altre” rispetto a quelle che lui chiama «naturali e mediocri», offrendo, in questa analisi, una preziosa e penetrante anticipazione degli studi sul desiderio mimetico.
Chi era Sefora e perché il dipinto di Botticelli poté avevere tanto peso nell’amore di Swann?
Sefora o Zippora (cioè la Radiosa, la Splendente) è un personaggio biblico ricordato nel libro dell’Esodo. Sefora era una delle figlie di Ietro, un sacerdote della tribù di Madian, terra nella quale Mosè, fuggito dall’Egitto per aver commesso un omicidio (uccisione di un egiziano che aveva maltrattato un israelita), si era rifugiato e ove trascorse 40 anni.
Botticelli tra il 1481 e il 1482 aveva realizzato su questo e altri episodi della vita di Mosè un affresco (Prove di Mosè, Cappella sistina). “Responsabile” di una rinnovata attenzione a questo dipinto fu John Ruskin (1818-1900), scrittore, filosofo, pittore e critico d’arte inglese, che considerò Botticelli «il più universale di tutti pittori e il più grande tra tutti gli artisti fiorentini». Tra le opere di Botticelli Ruskin prediligeva le Prove di Mosè e, in paricolare era entusiasta proprio della raffigurazione di Sefora. Proust, a sua volta ammiratore di Ruskin (di cui tradusse alcune opere, come La Bibbia di Amiens e di cui, in occasione della morte, pubblicò un necrologio nel quale scrisse: «On craignait l’autre jour pour la vie de Tolstoi; ce malheur ne s’est pas réalisé; mais le monde n’a pas fait une perte moins grande: Ruskin est mort. Nietzsche est fou, Tolstoi et Ibsen semblent au terme de leur carrière; l’Europe perd l’un après l’autre ses grands “directeurs de coscience”. Directeur de coscience de son temps, certes Ruskin le fut, mais il fut aussi son professeur de goût, son initiateur à cette beauté que Tolstoi réprouve au nom de la morale et dont Ruskin avait tout poétisé, jusqu’à la morale elle-même»), fece suo il culto della Sefora botticelliana e non fu il solo: in quegli anni si ebbe una vera infatuazione per quel dipinto; bisognava averne una riprodizione nella propria stanza e scrittori come Zola e D’Annunzio mostrano nei loro scritti di essere stati anche loro “contagiati” dalla seforite” (tutti pazzi per Sefora!).
Ruskin pittore (fu il teorico dei movimento detto dei Preraffaelliti) amava copiare i quadri che avevano suscitato la sua ammirazione e dipinse quindi anche la Sefora botticelliana, copia della cui riuscita era particolarmente soddisfatto.
In questi giorni, c’è a Roma l’occasione di potersi “avvicinare” a questa opera di Ruskin nel quadro della mostra Il mito dell’italia nell’Inghilterra vittoriana alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea: affrettarsi!

Botticelli, Prove di Mosè

Ruskin, Sefora da Botticelli

mercoledì 25 maggio 2011

Eccomi! (ebraico "Hinneni")

«Eccomi!»: è parola che pronunciamo spesso, parola usata per asserire la nostra presenza, ma che è, non dimentichiamolo, parola antica, sacra, carica di storia, la parola con cui l’uomo ha risposto alle Chiamate (divine, transpersonali, fondamentali). Per cominciare, è la parola con la quale Abramo risponde al Signore che lo chiama a sacrificare Isacco («Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose “Eccomi!”, Gen 22, 1), ed è la parola di Mosè («il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè”. Rispose “Eccomi!”», Es 3, 4). Ed è ancora la risposta di Samuele, la cui storia ci richiama anche alla opportuna distinzione tra le chiamate («Il giovane Samuele continuava a servire il Signore sotto la guida di Eli. La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti. In quel tempo Eli stava riposando in casa, perché i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere. La lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l'arca di Dio. Allora il Signore chiamò: “Samuele!” e quegli rispose: “Eccomi”, poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!” e Samuele, alzatosi, corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Ma quegli rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!”. In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta; questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto», 1 Sam 3, 1-8).
E io vorrei che alla fine, perché tutto possa dirsi compiuto, in timorosa pacatezza e in serenità senza speranze, divenisse per me la parola; la parola ultima; la parola estrema da offrire al silenzio…: “Eccomi!”.

martedì 24 maggio 2011

Radio-intervista

Sul sito della rubrica Oggi2000 di Radio Rai1, puntata del 22/05/11, potete trovare (al minuto 10:50, indicato nella barra a scorrimento del tempo) una breve intervista fattami da Raffaele Luise, giornalista dell'informazione religiosa.
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-16026c6c-d14c-4b16-9f54-a1c77448fa3f-radio1.html#p=0

domenica 1 maggio 2011

Zen e Odissea?



L’esigenza di costruire una via occidentale al buddhismo e quella di saggiare quanto questa tradizione sia in grado di rispondere alle attuali esigenze di spiritualità presenti in Occidente si stanno facendo, da qualche tempo, sempre più sentite e palesi. Non si può, pertanto, non accogliere, con grande interesse ogni contributo che si muova in questa direzione. Il volume Tornare a casa–Un commento zen all’Odissea (tr. it., Roma, Edizioni La Parola, 2010) di Norman Fisher (scrittore, prete o, se si preferisce, monaco zen, abate del San Francisco Zen Center dal 1995 al 2000, fondatore e insegnante dell’Everyday Zen Foundation) allo scopo di adattare il linguaggio zen alla cultura occidentale tenta il confronto con l’archetipo del viaggio e con uno dei classici fondanti della nostra cultura, l’Odissea. Il viaggio è una metafora molto comune sia del pellegrinaggio dell’uomo alla ricerca del senso e dell’eternità sia della vita stessa. La funzione motrice ambulatoria permette all’uomo di uscire da un determinato luogo e di raggiungere nuovi spazi, ed è alla base del simbolismo di tutti i tipi di cammino, caratterizzanti l’uomo come essere itinerante o homo viator (G. Marcel). E parliamo, infatti, di cammino di perfezione, sentiero di purificazione, via di liberazione, percorso spirituale, itinerario mistico…. Esorta Fisher: «Considerare la vostra vita come una “odissea spirituale” è una verità metaforica. Vedere la vostra vita come un’odissea può aiutarvi a penetrare nei lati nascosti di tale vita» e i racconti di chi è tornato sono infatti preziose guide nel procedere verso quella che consideriamo la nostra meta autorealizzativa. Se le esperienze sono condivise non c’è niente da raccontare e solo chi si è allontanato da una comunità può portare oggetti e fare racconti di ciò che ha visto in terre lontane e agli altri è rimasto sconosciuto; attraverso il racconto si realizzano nuove e più ampie integrazioni e si forniscono strumenti di autoconoscenza: ecco il valore delle narrazioni, dei racconti dei cacciatori, dei miti, di tutte le storie da quelle di Odisseo fino al Ho visto…! di Zavattini. Con l’Odissea, si può ben dire, nasce l’arte del narrare e dell’autobiografia.
La cultura occidentale ha molto lavorato sull’archetipo del viaggio e sulla figura di Odisseo, il prisma ha scomposto la luce e non ci è più consentito un contatto sine glossa. L’Odissea è un libro misterioso, dalle mille letture, ha nutrito tutta la letturatura occidentale e Odisseo è un uomo complesso, dalla mente dai mille colori (P. Citati, La mente colorata). Fisher, buon (o mal) per lui, tenta di far “reagire” a freddo questi archetipi con la tradizione buddhista. Ma, tanto per cominciare, tra le diverse persone in movimento, si era fatto lo sforzo di distinguere l’esule, il fuggiasco, il vagabondo, l’avventuriero, il nomade, il pellegrino, il viandante, l’ errante, il turista e il viaggiatore… ognuno con una sua tipologia, un suo linguaggio, un suo procedere, ciascuno avendo ricevuto specifiche analisi, letteratura, musica. Non basta dire che Odisseo è un viaggiatore perché dobbiamo anche domandarci che tipo di viator sia. Se per J. Giono (Nascita dell’Odissea) Odisseo è solo un abile “mentitore”, un cantastorie che non ha vissuto nulla di ciò che racconta e ci fa interrogare sul sottile confine che nella letteratura separa verità da invenzione, per Fisher il viaggio dell’Odissea è «un viaggio di ritorno» e Odisseo «non è un brillante eroe alla ricerca di qualcosa, che persegue la vittoria, la gloria»; pur se lo ha fatto in passato, ora «sta combattendo per tornare da sua moglie Penelope a Itaca, la casa che aveva lasciato venti anni prima» («siamo già arrivati ad Itaca e non abbiamo bisogno di andare in nessun altro luogo»). Questo Odisseo, però, non è l’Odisseo che abbiamo amato e col quale riteniamo utile confrontarci; direi che non è il molto più problematico Odisseo dell’Occidente. A cominciare dallo stesso Omero che, sul finire del Poema ci racconta di come, con timidezza e timore, informa la moglie Penelope che «non siamo al termine ancora di tutte le prove, ma vi sarà in futuro una prova senza misura, lunga e difficile, che occore io compia tutta» (Od., XXIII, 248 ss.): dovrà rimettersi in viaggio avendogli Tiresia detto che dovrà «andare in molte città/di mortali» (267).
«Il richiamo emotivo di casa è irresistibile […], dobbiamo tornare a casa. Sembra che non ci siano altre possibilità», dice Fisher, mentre sappiamo che gli affetti familiari non «vincer potero dentro a me l’ardore/ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,/e delli vizi umani e del valore;/ma misi me per l’alto mare aperto» (Inf. XXVI, 97 ss.). Ed eccolo, «bello di fama e di sventura» (Foscolo), esortare i compagni, alla suprema impresa, dicendo: «Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza» (118 ss.). Dante uomo ammira dunque Odisseo, anche se Dante teologo deve punirne l’ardimento.
Per restare nella letteratura di casa nostra, non si può non ricordare A. Graf, che, nel suo L’ultimo viaggio di Ulisse (1901), mostra come, al passar degli anni a Itaca «a poco a poco/d’Ulisse il labbro ammutolì, l’arguto/riso, onde gli atrii già sonar, fu muto,/e una torbida nube il guardo acceso, l’ampia fronte oscurò. […] Sottil come tossico un disdegno/di sé stesso e d’altrui lento serpeva/nelle vene d'Ulisse; e qual si leva/da ree paludi accidiosa e tetra/nebbia che infosca il sole, occupa l’etra,/tale in Ulisse si levava il tedio/e al cor poneagli ed alla mente assedio». E, infatti (G. Pascoli, L’ultimo viaggio, 1904), «Sonno è la vita quando è già vissuta:/sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla». Come la nave «non vuole il rosichìo del tarlo,/ma l’ondata, ma il vento e l'uragano» anch’egli dice: «la nube voglio, e non il fumo;/il vento, e non il sibilo del fuso,/non l'odïoso fuoco che sornacchia,/ma il cielo e il mare che risplende e canta». Quindi, Odisseo partirà perché, in effetti, è proprio al di fuori del viaggio che «sembra che non ci siano altre possibilità». Secondo Dante, nel «folle volo» c’è tracotanza, una dose di hybris che merita l’Inferno. Ma, osserva A. Savinio (Capitano Ulisse), «che figura farebbe Ulisse tra le Vergini e i Padri della Chiesa? Quaggiù Ulisse ha soffero di noia. Perché aggiungere alla sua noia terrena una noia celeste senza rimedio? Perché costringerlo a una musica che non gli va, a una società che lo avrebbe trattato come un cane in chiesa?» Via dalla casa, dunque, verso la conoscenza e l’Infinito: altro che ritorno! Dice il poeta greco K. Kavafis: «Se per Itaca volgi il tuo viaggio,/fa voti che ti sia lunga la via,/e colma di vicende e conoscenze».
Il viaggio non è qualcosa che ha un inizio e una fine, è un modo di esistere, di  vivere in un continuo, inesorabile andare e tornare. Se volessimo dirla con lo zen, la porta è senza porta, la casa è senza casa, il ritorno è un non-ritorno. C’è la stasi e c’è il movimento, c’è l’adrenalina e c’è l’acetilcolina, c’è il mangiare e c’è il digerire. Intendiamoci bene: se Pascal («quando talvolta mi sono accinto a considerare le diverse agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene cui si espongono a corte, in guerra, e che sono causa di tante liti, di tante passioni, di tante ardite imprese e di tante azioni spesso cattive ecc., ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera») o Schnitzler («Crederemo sempre di essere in cammino, anche se siamo già alla meta. L’ultimo errore dell’umanità) elogiavano la stasi non si riferivano a pigri, fannulloni e accidiosi, né l’agire dantesco va confuso con l’inoperoso affaccendarsi di un insufficiente mentale o con l’insano agitarsi consumistico. Ulisse è sempre in viaggio perché la consapevolezza è in movimento, è il movimento, in esso si attua la realizzazione dinamica della Vacuità. Come la bicicletta non sta in piedi se non cammina, Ulisse deve andare se vuol essere sé stesso.
Bronislaw Malinowski, che aveva studiato i costumi degli isolani delle Trobiand, riferisce che lì, in occasione di una spedizione, il capitano della flotta si rivolge alla folla sul lido dicendo: «Donne, noialtri partiamo, voi rimanete nel villaggio a badare ai giardini e alle case; dovete rimanere caste. Quando andate a far legna nella boscaglia nessuna di voi rimanga indietro. Quando andate nei giardini a lavorare, mantenetevi unite. Ritornate insieme alle vostre giovani sorelle». Casta rimane Penelope e l’amore è nell’incontro col ritrovato Odisseo («Quei due si saziarono con l’amore desiderato», XXIII,  300). Dunque, partire è maschio, stare è femmina, tornare è erotico: questo il viaggio e su questi punti avremmo gradito un confronto da parte di chi, appartenente al buddhismo mahayana, certamente ne condivide la verità fondamentale della coincidenza di nirvana e samsara.  
Dopo alcune (facili) osservazioni su noti episodi della storia di Odisseo (le Sirene, il Ciclope, i lotofagi, Circe…), il tema del dolore e della morte è trattato sorvolando. Se pur bisogna riconoscere all’Autore (quando afferma: «il dolore è una condizione che fa parte dell’essere vivi») il merito di non schierarsi tra coloro che interpretano la verità dell’origine della sofferenza come un’affermazione circa la sua natura come conseguenza del desiderio, scaricando così sulle deboli spalle dell’uomo la responsabilità del male nel mondo (in analogia col mito giudaico-cristiano del peccato originale), il rimedio è visto da Fisher in una apertura che faccia «sentire tutto il mondo pienamente, in maniera spontanea, armoniosa e amorevole». Di fronte alle catastrofi naturali, alle malattie, alle crudeltà, alle guerre, ai tradimenti, proporre ancora una volta lo sguardo armonizzante appare non solo gratuito, ma pericolosamente giustificazionista del mondo e poco compassionevole dei sofferenti («i disastri sono qualcosa di naturale e di utile, anche se non ci piacciono. […] Per essere felici abbiamo bisogno di riconoscere e apprezzare i disastri»). Con la ricorrente parola “accettazione” (contrabbandata come sinonimo di constatazione) si insinua quell’anti-intellettualismo, presente in tanta parte del buddhismo, per cui spegnendo la domanda, togliendo il giudizio, estinguendo il soggetto si eliminano male e dolore. Quanto dà fastidio questo povero, impermanente, ma prezioso soggetto cosciente! E se di una qualche conciliazione abbiamo pur bisogno riconosciamo che quella che possiamo realizzare è una tragica conciliazione con l’inconciliabile!
Interessante è la pagina sul perdono, ove l’A. parla non solo di perdonare noi stessi e gli altri, ma addirittura di perdonare Dio (non osando dire Realtà ultima o Dharma, come sarebbe più proprio per un buddhista). Ma si può perdonare chi viene considerato perfetto? Di fronte alle iniquità di cui è pieno il mondo, se le pensiamo come risultato di un disegno intelligente dovremmo riconoscere che solo un ente irresponsabile o maligno potrebbe esserne l’autore e meritare, proprio per la sue insufficienze, il nostro perdono, ma non ciò che riteniamo principio di perfezione. Dunque, attenzione a questi tranelli retorici “collaborazionistici” e risvegliamo piuttosto di fronte a essi la nostra coscienza (buddhista) di martiri attivi.
L’insistenza sul motivo del ritorno a casa («la pratica spirituale, in tutte le sue manifestazioni, è la pratica del tornare a casa»), «alla nostra vita reale perché sappiamo che è a essa che apparteniamo» ci desta un sospetto: che cosa l’A. identifica con casa? Diffidiamo ormai dei consolatori dell’armonia e del “tutto si aggiusta” (come si esprimeva anche un immarcescibile esponente della nostrana DC). Che tipo di “pace” viene prospettata? Quella, secondo le parole di un altro “consolatore”, di «essere ciò che siamo da sempre: ciò che precede la nascita e sopravvive alla morte», cioè il non-pensiero del prima e del poi? È questa la “casa” che dovremmo desiderare? A una analoga domanda, rispondeva W. Allen, col suo noto caustico umorismo: «Non mi interessa vivere nel cuore degli americani; preferisco vivere nel mio appartamento».
In conclusione, sembra si debba dire, per restare nella metafora, che il confronto ha ancora molta strada da fare.