giovedì 27 marzo 2014

Pirandello, l'arte e la democrazia

I giganti della montagna è l’ultima opera di Luigi Pirandello, che vi lavorò fino all’ultimo giorno della sua vita (morirà di polmonite il 10 dicembre 1936). Il dramma rimase incompiuto; il terzo atto, l'ultimo, non fu mai scritto, ma il figlio di Pirandello, Stefano, ne tentò una ricostruzione sulla base di quanto il padre gli aveva detto  riguardo alla conclusione dell’opera.
La storia è quella di una compagnia, o meglio dei resti di una compagnia, di Comici, che si porta a una misteriosa villa occupata dagli Scalognati, teatranti anch’essi, che cercano di respingere i nuovi arrivati spaventandoli con ogni mezzo (teatrale). Ma i Comici, guidati dalla “contessa” Ilse, la prima-attrice che a tutti i costi vuole rappresentare La favola del figlio cambiato, un’opera di Pirandello (ispirata a leggende e superstizioni siciliane sulle streghe che sostituiscono o deteriorano i bambini), ma che, nei Giganti, sarebbe stata scritta da un poeta respinto dalla contessa, poi suicidatosi: rappresentarla è per lei un testamento poetico da eseguire. Gli Scalognati, gente di teatro che vive in un mondo magico dove la fantasia e l’arte sono sovrane («Ci vogliono i poeti per dare coerenza ai sogni»), si coinvolgono e vorrebbero far rappresentare il dramma conducendo i Comici dai Giganti della montagna, gli uomini del fare, del produrre, presi solo da interessi materiali. I Giganti accettano e finanziano (hanno i soldi per farlo!), ma non hanno interesse, neppure assistono alla rappresentazione, alla quale tuttavia inviano i loro dipendenti, i quali non capiscono e non apprezzano. Ne segue una rissa, Ilse muore vittima del suo impegno per l’arte e con lei muore la poesia che si scontra col rifiuto degli uomini “materialisti”.
L’opera è enigmatica e si presta a molti livelli di analisi. Qui basterà soffermarsi sull’illusione democraticistica di portare la poesia a tutti, cedendo al sogno che così si possa illuminare e cambiare la vita. La nostra cultura si è preoccupata prevalentemente della costruzione di una democrazia universale e ha avuto troppo timore di parlare di aristocrazia, ma la democrazia didattica non dovrebbe andare disgiunta dall’aristocrazia del sapere, ricordando che l’esigenza dell’aristocrazia è stata ben presente anche nelle religioni (con i monaci) o nei partiti che avrebbero voluto essere i più egualitari (élite politica) e nelle varie forme d’arte (che richiedono talento e dura disciplina formativa). Cito una fonte non sospetta, A. Camus, che nei suoi Taccuini scriveva: «Ogni società si fonda sull’aristocrazia, perché essa, se è tale, è esigenza nei confronti di sé stessa, e senza questa esigenza ogni società muore».

Strehler si è cimentato più volte con I giganti della montagna e nell’edizione del 1994-95 (con Andrea Jonasson nel ruolo di Ilse) ha dato il massimo per rendere credibile, avvincente e “comprensibile” una tematica evanescente e misteriosa. Un sipario metallico chiude l’edizione del 1995 del Piccolo Teatro, schiacciando il simbolico carretto (che tanto a lungo ha accompagnato i teatranti girovaghi) dei Comici, raffigurazione del fallimento dell’offerta della poesia a chi non la vuole ricevere.

giovedì 13 marzo 2014

Sulla pazienza#11/La pazienza "summa virtus" cristiana


Come nel buddhismo le paramita sono qualcosa di più di semplici, ordinarie condotte buone perché illuminate dalla coscienza della Vacuità, così nel cristianesimo la pazienza diviene summa virtus, essenziale alla fede, alla speranza («La tribolazione produce pazienza, la pazienza esperienza e l’esperienza speranza», Rm 5, 3-5) e alla carità, quando è innestata nella fede in Cristo. Seguendo le osservazioni di Enzo Bianchi (in Le parole della spiritualità), innanzitutto vediamo che la Scrittura attesta che la pazienza è innanzitutto una prerogativa divina. In Es 34, 6 Dio è longanime, magnanimo, lento all’ira (cioè paziente); è un Dio che parla e, parlando, lascia tempo all’uomo per rispondere, attendendo che possa arrivare alla conversione: «Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2 Pt  3, 9). Nella passione del Figlio crocifisso si registra il massimo di distanza tra Dio che pazienta e umanità peccatrice, ma da allora la pazienza, come virtù cristiana, è un dono dello Spirito (Gal 5, 22), elargito dal Crocifisso-Risorto, «che si configura come partecipazione alle energie che provengono dall’evento pasquale» (Bianchi).
Saper pazientare significa, dunque, assumere nella propria esistenza il tempo di Dio e dell’altro, in un’opera di amore («La carità è paziente» 1 Cor 3, 4), la cui misura è nella pazienza di Cristo («Il Signore diriga i vostri cuori nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo», 2 Ts 3, 5).
Umile nella coscienza della incompiutezza, di sé e degli altri, la pazienza diviene speranza e attesa di salvezza, perseveranza della fede nel tempo, ancorata alla promessa che «chi persevera fino alla fine sarà salvato» (Mt 10, 22), capacità di sopportare e supportare gli altri nella fiduciosa convinzione «di essere a propria volta sostenuti dalle braccia del Cristo stese sulla croce» (Bianchi).

venerdì 7 marzo 2014

Modi di dire#21/La carica dei seicento

Per quelli della mia generazione “la carica dei seicento” evocava un’azione eroica al di là di ogni ragionevole prudenza e alludeva all’inarrestabile risultato raggiunto da una volontà audace e determinata. In questi giorni di crisi in Ucraina e Crimea l’espressione mi è tornata alla mente perché i “seicento” a cui ci si riferiva erano i componenti di una brigata di cavalleria inglese che, nell’assedio di Sebastopoli (durante la guerra di Crimea del 1854-55, nella quale Inghilterra, Francia e Impero ottomano erano alleati contro la Russia), diede l’assalto ad alcune postazioni di artiglieria russa (battaglia di Balaklava). Incomprensioni e rivalità tra comandanti, errori nella trasmissione degli ordini, posti di osservazione incongrui ebbero come conseguenza che  una carica allo scoperto contro i cannoni avesse delle pesantissime perdite per i cavalieri inglesi della “cavalleria leggera”. In venti minuti, circa 200 furono i morti e altrettanti i feriti, ma quel che sopravvisse della brigata riuscì a raggiungere le postazioni d’artiglieria del nemico e condurre a termine la sua azione di disturbo del nemico che cercava di ritirare i suoi preziosi cannoni.
In quella guerra non andrebbe dimenticato che ci fu anche il contributo di 18000 soldati “piemontesi”, a fianco degli alleati: se ne ricorda la battaglia sul fiume Cernaia (che sfocia nella baia di Sebastopoli). In Italia vie e piazze sono dedicate a quella battaglia, ma non si sa quanti passanti ne abbiano ormai corretta memoria.
Famosa fu la versione cinematografica della battaglia di Balaklava, firmata dal regista Michael Curtiz e interpretata da Errol Flynn e Olivia de Havilland, The Charge of the Light Brigade, nota da noi col titolo La carica dei seicento.  E anche il film ebbe le sue vittime, poiché, durante le riprese, morirono numerosi cavalli e una comparsa.

Questa la storia, ma forse oggi La carica dei 101 di Walt Disney ha oscurato, per i più giovani, quella dei “seicento”!

giovedì 6 marzo 2014

Schermaglie#35/Vous n’avez encore rien vu

Il titolo, nella sua enigmaticità, viene da lontano ed è una frase molto usata — con varianti — dal regista (scomparso giorni fa): egli la ripete ai produttori curioso di vedere il film quando questo non è ancora montato e finito; la diceva il protagonista «Non hai visto niente a Hiroshima» in Hiroshima, mon amour; è una forma di omaggio all’amato Al Jolson che  cantava nel primo film sonoro della storia del cinema la canzone Vous n’avez encore rien entendu; è infine un modo di stupirci, nel senso che ogni film vuole essere qualcosa di assolutamente nuovo...
Cosa c’è di “nuovo” in questo Vous n’avez encore rien vu? Resnais ci racconta che Antoine d’Anthac, uomo di teatro fa telefonare da un notaio agli attori (tutta la “famiglia” cara a Resnais: Sabine Azéma, Pierre Arditi, Lambert Wilson...) per dir loro che d’Anthac è morto e che sono invitati nella sua residenza di montagna a visionare una registrazione dell’Euridyce di Jean Anouilh, dramma che tutti, in diverse versioni, hanno recitato. In una pirandelliana contaminazione tra realtà e teatro, vita e “finzione” scenica si sovrappongono e si confondono.
Alla fine, colpo di teatro, Antoine d’Anthac comunica che si è trattato di uno scherzo: lui non è morto e tutti possono far festa, contenti di ritrovarsi insieme. Ma, poco dopo lui morirà davvero e questa volta la “famiglia” si ritroverà al cimitero.
Perché cimentarsi col mito di Orfeo? Come tutti i miti anche questo è polisemico e non è possibile addentrarsi qui nelle diverse versioni e interpretazioni. Tuttavia, è il tema del tempo, sottolineato dal movimento di un pendolo, della sua irreversibilità e della morte l’aspetto sul quale il regista si è più interrogato. Con un altro riferimento mitico, alla storia di Tristano e Isotta, viene sostenuto che l’amore assoluto, e tutti gli assoluti che non possiamo realizzare, si raggiunge solo nella morte. Orfeo voltandosi ribadisce che ciò che è accaduto non si può cancellare: dovrà morire anche lui se vorrà ritrovare Euridice, perché questo non è possibile rimanendo in vita. E, infatti, Orfeo troverà la morte per mano delle donne (Mènadi) irate con lui, per i suoi rifiuti del sesso feminile: con la morte Orfeo «ritrova Euridice e la stringe in un abbraccio appassionato. [...] e, ormai senza paura, si volge a guardare la sua Euridice» (Ovidio). Poesia? Illusione? La morte non risolve, ma dissolve, insieme al soggetto, i problemi e i conflitti, cioè la vita, in cui trovano posto amore e dolore. Il saggio padre di Orfeo (qui Michel Piccoli), cerca di convincere il figlio che la vita sta nell’onesto mangiare e nel fumarsi un buon sigaro (e si intitola Aimer, boire et chanter l’ultimo film di Resnais, del 2014, non ancora uscito), ma Orfeo non ascolta: inseguendo un mondo puro, luminoso e limpido si ostina a cercare ancora l’amata. Come gli dice Monsieur Henri, lui è di quelli che hanno sete di eternità e nostalgia del primo bacio, ma sono spaventati perché sanno che ciò non durerà, perché l’amore finirà, in ogni caso, per esaurimento. Come Euridice è morta e non si può “riconquistare”, così è morto il passato degli attori convocati per la proiezione, così deve morire d’Anthac, che ha convocato gli amici per verificare se gli volevano bene e per valutare se vale ancora cimentarsi con Euridice: e le risposte sono tutt’e due positive. La morte è morte ed è più forte dell’amore; solo per gioco si può risuscitare, ma poi prevale la inesorabilità degli eventi.

Alain Resnais ci dice Vous n’avez encore rien vu: a noi spettatori si richiede uno sforzo di attenzione e di riflessione per non uscire dalla proiezione dovendo confessare di “non aver ancora visto niente”.