martedì 30 settembre 2014

Libro: tra elettronica e carta

Giornalista e professionista nell’ambito dell’editoria libraria, Gian Arturo Ferrari col volume Il libro (Torino, Bollati Boringhieri, 2014) si cimenta in una carrellata storico-sociologica sulle tre età del libro: manoscritto, stampato, elettronico. Venendo al terzo e ultimo, l’ebook, ci accorgiamo sùbito che la stessa definizione (prendiamola dal Dizionario Treccani: «Complesso di fogli della stessa misura, stampati o manoscritti, e cuciti insieme così da formare un volume, fornito di copertina o rilegato») risulta incongrua. Questo perché — come osserva Ferrari — «un primo e fondamentale aspetto che differenzia l’avvento della stampa da quello dell’ebook è che la stampa era una tecnologia specifica del libro, mentre l’ebook è l’applicazione al libro di una tecnologia di dimensioni e ambizioni molto più vaste» e i libri sono, infatti, solo una piccola parte della molto più ampia rivoluzione digitale globale come tecnologia della comunicazione.
La rete sta rivoluzionando il commercio con la seduttiva promessa, già in parte divenuta realtà, riassunta nel triplice any: anything anytime anywhere, cioè ogni cosa, in ogni momento, in ogni luogo, che ha coinvolto e sta trasformando le librerie:  creazione delle grandi librerie on-line che offrono, almeno potenzialmente, il catalogo di tutta la produzione libraria internazionale e sono in grado (servizi postali permettendo) di recapitare il prodotto in ogni parte del mondo. Ma, per quanto riguarda questo settore, la rivoluzione sarà completa quando, a monte delle librerie elettroniche, ci saranno i libri non più da trasportare fisicamente, ma “da scaricare” nel giro di pochi secondi o minuti. E questa sarà la vera trasformazione libro che, attualmente, è ancora in bilico tra due mondi, poiché i libri che nascono come ebook sono ancora pochi e prevale la replica informatica del cartaceo, ma le repliche non sono destinate a lunga vita. Pensiamo, per analogia, ai giornali, altro mondo di repliche digitali del cartaceo, quando è ormai palese la necessità (e il vantaggio) di differenziare l’informazione immediata e l’archivio, passando dal giornale “tradizionale” al sito web, con la possibilità di una collocazione storica e tematica di informazioni sempre disponibili e aggiornabili, evitando, da un lato, inutili ripetizioni e, dall’altra, la perdita di notizie.
Per il libro la questione è più complessa, ma possiamo intravedere che, anche in questo campo, bisognerà operare una distinzione tra il libro come veicolo di conoscenze e il libro di riflessione, godimento, oggetto esso stesso di soddisfazione (non sostituirei mai un volume della Pléiade con un ebook!). L’enorme riduzione dei costi di produzione e diffusione, la libertà assoluta da divieti e condizionamenti, la fine del corpo-a-corpo tra autore ed editore (a volte “un commerciante che ha fatto un patto con lo spirito” a volte un “carnefice” per la sua vittima scrivente) trasformeranno manuali, saggi e trattati in depositi, archivi, biblioteche, realizzando una democrazia della conoscenza, in cui gli strumenti del sapere siano disponibili a tutti e ovunque. È l’inatteso risorgere, trasformato, dello spirito dell’enciclopedia che, da una, diventerà plurale e antiautoritaria. Anni fa scrivevo sulle difficoltà di pensare oggi una enciclopedia, intesa come concatenamento di conoscenze, insegnamento circolare, cerchio perfetto del sapere, circolo della scienza. Secondo le parole stesse di Diderot, la grande enciclopedia degli illuministi aveva il fine di «riunire le conoscenze sparse sulla superficie della terra, esporne il sistema generale agli uomini con cui viviamo, e trasmetterlo agli uomini che verranno dopo di noi, affinché le fatiche dei secoli passati non siano state inutili per i futuri, affinché i nostri nipoti, diventando più istruiti divengano nello stesso tempo più virtuosi e più felici, e affinché non moriamo senza avere ben meritato dal genere umano». Una enciclopedia, dunque, sembrava possibile solo se avesse trovato le sue basi nell’unità di una cultura, a sua volta incarnata in un’umanità sicura dei suoi valori e del suo destino. Nella seconda metà del secolo scorso, pensando di essere vicini all’obiettivo del concatenamento delle conoscenze era stata tentata la realizzazione della più vasta sintesi scientifica del nostro tempo: la International Encyclopedia of Unified Science, impresa fallita poco dopo l’inizio. Oggi, in una cultura che ama definirsi postmoderna, globalizzata, pluriversa, abbandonata l’utopia di una enciclopedia unificata del sapere, siamo propensi ad assumere le classificazioni come provvisori punti di vista, consapevoli della parzialità e senza più la pretesa di rispecchiare, con un solo schema, l’ordinamento del mondo. Il caso di Wikipedia, fenomeno sul quale non si è riflettuto abbastanza, ha creato una enciclopedia di tipo nuovo, che ha di fatto spazzato via le voluminose enciclopedie cartacee, lasciando in campo, tra le generali, giusto la Britannica e la francese Universalis, accanto alle varie specializzate, e digitalizzate, Judaica, Catholic, E. of Religion (Eliade), of Science, Sociology, etc.
Per il libro di poesia e letteratura, quello da mettere sotto il cuscino, il discorso è certamente un altro e lì oggetto e contenuto viaggeranno ancora a lungo insieme. Il futuro? «Invece di aspirare a una sintesi generale e fulminante — scrive Ferrari — bisognerà rassegnarsi, armati di pazienza, a cercare di discernere i molti futuri dei molti libri». Costi, maneggevolezza, sicurezza, utilizzabilità dei supporti, selezione e visibilità delle diverse produzioni, traduzioni (elettroniche?) etc. saranno fattori decisivi e, ancor più il cambiamento di abitudini e mentalità del lettore. Di fronte a questa complessità e a una realtà in movimento a grande velocità risultano invece patetici certi propositi (per altro velleitari) delle istituzioni che intendono “salvare” vecchie librerie o vecchi cinema: se questi sono da considerare ormai dei piccoli musei, luoghi da visitare per capire “come eravamo” o boutiques in cui si possano vedere e acquistare oggetti eleganti e preziosi, OK, ma se si tratta dei soliti sperperi di denaro pubblico e di difesa di interessi e privilegi, ci risiamo con la tutela di corporazioni, clientele, etc. etc. Perché non promuovere, invece, la digitalizzazione del patrimonio librario e lo sviluppo della banda larga? Si pensa che i bambini di oggi, da adulti andranno ancora dal giornalaio, in libreria o al cinema? Si dice: il timore è che le librerie o i cinema vengano sostituiti con negozi di pizze e patatine o jeanserie. È paradossale che chi, in nome di una democrazia “popolare”, ha contribuito alla distruzione della scuola e di ogni forma di aristocrazia (additata come sinonimo di privilegio), ha fatto crescere a dismisura la chiacchiera e coltivato l’effimero, oggi voglia presentarsi come difensore della cultura con sospette operazioni di retroguardia, fallimentari e ingannevoli.
  

lunedì 22 settembre 2014

Paradossi tibetani

Di recente, il XIV Dalai Lama ha dichiarato, a quanto riportano gli organi di stampa, che egli potrebbe essere l’ultimo capo spirituale tibetano, mettendo così fine a una tradizione religiosa vecchia di molti secoli. Quella della reincarnazione/rinascita è sempre stata una questione “spinosa” all’interno della dottrina buddhista, difficile da conciliare con le nozioni di assenza di esistenza inerente e di impermanenza, ma ben radicata nella tradizione tibetana, almeno per quanto riguarda i capi spirituali. Leggiamo, invece, su Le figaro del 12 settembre scorso:

Tenzin Gyatso, de son nom de réincarnation, 79 ans, a affirmé dimanche dans un entretien au journal Welt am Sonntag quil entendait être le dernier chef spirituel tibétain et mettre un terme à une tradition religieuse vieille de plusieurs siècles. Interrogé sur le fait de savoir si les Tibétains ont toujours besoin dun dalaï-lama, il a répondu au journal : « Linstitution du dalaï-lama existe depuis près de cinq siècles. Cette tradition peut maintenant sarrêter avec le 14e dalaï-lama qui est très aimé ». « Si un 15e dalaï-lama venait et faisait honte à la fonction, linstitution du dalaï-lama serait ridiculisée », a-t-il ajouté en riant.

Paradossalmente, ma per motivi ben comprensibili, la Cina, che aveva sostenuto di aver "liberato" (nel 1950) il Tibet da una teocrazia brutale e arcaica, si erge ora a difendere questa tradizione, accusando il Dalai Lama di voler pervertire la storia e negandogli il diritto di

décider de mettre fin à la tradition pluriséculaire de réincarnation des chefs spirituels tibétains.
« Le titre de dalaï-lama est conféré par le gouvernement central, selon une histoire séculaire », a déclaré Hua Chunying, porte-parole de la diplomatie chinoise, en affirmant que ce n’était pas à lactuel 14e dalaï-lama de choisir sil aurait un successeur ou non. « La Chine suit une politique de liberté de croyance et de culte, dans laquelle sinscrivent le respect et la protection de la transmission du boud­dhisme », juge Hua, accusant le Prix ­Nobel de la paix de « desseins cachés » portant atteinte à cette religion. « Le dalaï-lama a coupé lherbe sous le pied de Pékin, parce quil a les cartes en main en raison de sa grande légitimité auprès des Tibétains, commente Françoise Robin, directrice de lInstitut d’études tibétaines au Collège de ­France. Les grands lamas ont le pouvoir de décréter quils ne se réincarneront pas. »

Molto indicativo del conflitto che potrà venire a determinarsi al momento della scomparsa dell'attuale Dalai Lama, è quanto già accaduto con la successione del Panchen-lama. Leggiamo ancora in Le figaro:

La désignation du panchen-lama, deuxième plus haut chef spirituel du bouddhisme tibétain, a offert un avant-goût du choc qui sannonce pour la succession du dalaï-lama. En mai 1994, le dalaï-lama avait choisi Gedhun Choekyi Nyima comme panchen-lama. Il sagissait du 11e de cette lignée. Mais, dès lannonce, en mai 1995, Pékin contesta cette décision comme « illégale et invalide ». En août 1995, le petit garçon de 6 ans fut enlevé et il est toujours porté disparu à ce jour. En novembre 1995, Pékin désigna un autre panchen-lama du même âge, obéissant à ses ordres. Il nest reconnu ni par le dalaï-lama, ni par les Tibétains.
Lenjeu du panchen-lama est de taille, car celui-ci joue un rôle crucial dans la reconnaissance de la réincarnation. Au fil de son existence terrestre, le dalaï-lama donne des indications et certains signes concernant sa succession. Elle peut sorganiser de différentes façons.
Soit le dalaï-lama choisit sa réincarnation de son vivant : consignée secrètement, elle ne serait rendue publique qu’à sa mort. Sans attendre sa disparition, il accomplit ainsi une « incarnation avant la mort » (madé toul-kou), transférant ainsi lessence de sa réalisation spirituelle, sa sagesse, sous forme dune « émanation », à son successeur, un jeune lama. Soit sa réincarnation est accomplie après sa mort réelle. Un enfant est repéré selon un rituel de recherche, avant un processus de reconnaissance et de vérification très complexe, mystique et collectif. Toutefois, le dalaï-lama ne peut choisir son successeur sans lavis du panchen-lama.
Lexistence dune « urne dor » complique le jeu à lavantage de ­Pékin. Le Bureau des affaires religieuses sen est déjà servi pour désigner son panchen-lama. Elle fut instituée, au XVIIIe siècle, par les Mandchous pour départager deux candidats dalaï-lamas par tirage au sort dans le précieux récipient maissous lautorité de lempereur de Chine. Le pouvoir communiste veut utiliser cette méthode pour choisir le futur dalaï-lama. « Les Mandchous sen sont servis pour affirmer leur mainmise sur le ­Tibet, explique Françoise Robin, directrice de lInstitut d’études tibétaines au Collège de France. Elle na été utilisée que trois fois dans lHistoire, pour désigner les 10e, 11e et 12e dalaï-lamas. Et Pékin ne peut espérer légitimer avec son concours son propre candidat à la succession du dalaï-lama. Celui-ci sera désormais dautant plus discrédité que le dalaï-lama a dit quil ne se réincarnera pas. »

Continueremo a seguire la vicenda.

venerdì 19 settembre 2014

Éclair Week

Quest'anno la pasticceria Fauchon (Parigi, Place de la Madeleine) per la "Settimana dell'éclair" (v. post del 2 settembre 2013 in questo Blog), imperdibile appuntamento della rentrée, ha presentato insieme alla novità di una declinazione in forma di éclair della torta al limone verde, una riedizione dei suoi "trionfi" degli anni passati: decine di paste originali, colorate, creative, audaci, nei sapori dolci e salati. Noi che non siamo lì ci dobbiamo accontentare (?) delle immagini: eccone alcune, tra cui: foie gras e tartufo, 14 luglio, rete di cioccolato al latte, la Gioconda, la religiosa, crema di caffè al cardamomo, crema al pistacchio, le Onde del pittore giapponese Hokusai...











martedì 16 settembre 2014

SE MUORE IL CRISTIANESIMO


Molti di noi  hanno l’impressione di  assistere a una quotidiana e metodica opera di  demolizione della tradizione cristiana. Potremmo dire: «non è  affar nostro». Ritengo, invece,  che ogni pezzo di spiritualità che viene perduto impoverisca e offenda ciascuno di noi. L’articolo di Guido Ceronetti che segue può offrire spunti per una riflessione sul tema.

SE MUORE IL CRISTIANESIMO
GUIDO CERONETTI

Ma nella mente ora avverrà dei popoli Che mai più torni fertile La parola ispirata (Ungaretti, Il Dolore, 1946)
LASCIO il mio lapsus (Ungaretti dice non più e io, memoria errante, mai più) perché forse, oggi, il nostro poeta quel mai sarebbe incline a mettercelo. Quel che posso dire è che mi duole, il cristianesimo che muore. Si tratta di un’amputazione enorme, in anestesia totale, in modo che nessuno se ne accorga. Non ho idea però di quel che sarà quando ce ne accorgeremo, qui, nelle nazioni cristiane dell’emisfero. Quando ne scriveva o me ne parlava Sergio Quinzio, la cosa mi era del tutto indifferente. Non mi pare di essere cambiato, né mi sono riconvertito in vecchiaia ai miei lontani anni di devozioni: tuttavia adesso la cosa è talmente evidente dovunque, e così tanti i segni di morte, da poterla risentire come una personale ferita.
«ORA accadrà che cenere prevalga?», concludeva Ungaretti quella sua poesia. Cenere, cenere... Cenere è uguale a Nulla... È questo nulla a farmi paura? Se il cristianesimo è irresistibilmente attirato da un Buco Nero il vuoto che lascerà non sarà colmabile.
Un aforisma di Cioran, il filosofo romeno, è spesso infallibile. Uno di questi dice: «Il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso». Il quando è una data da andarne in cerca: ma non è molto lontana, le mostruosità hanno lunga vita e lunghissime agonie mortali; a volte sono immortali, come l’antisemitismo. Succederà anche all’Islam, da qui lo sforzo per sopravvivere all’onda che spazza la tolda aggrappandosi al controllo, all’oppressione e al terrore puro: la fase attuale si può vederla come struggle for life darwiniana. Tutte le fedi monoteiste sono risucchiate dal Buco Nero. Non ne scompare una senza che l’altra la segua.
Forse, la mostruosità cristiana specifica è in declino da quando sono cessati gli autodafé e i processi delle streghe? Nei tempi nostri, da quando il Papa è sceso dalla sedia gestatoria e si è messo a fare viaggi trionfali? Il Vaticano II andrà visto come una cessazione del carattere mostruoso della Chiesa che avrà impresso un’accelerazione al processo mortale del cristianesimo in ambito cattolico? Nell’ortodossia scismatica — la russa in specie — cessati il terrore e le persecuzioni comuniste, ha prevalso, mi pare, una continuità pacifica da zombi; non ci vedo più niente di vivo, ma fino a ieri non furono pochi i martiri. Memorabile resta la parabola del Grande Inquisitore dei Karamazov: Cristo ritorna, si rimette a predicare, fa seguaci, guarisce l’Aids, la Sla, Ebola, moltiplica pane e pesci per miliardi, squilibra la realtà a un tale punto che il Grande Inquisitore per il bene di tutti lo fa arrestare. Per non essere arrestato Cristo dovrebbe circondarsi di milizie fanatiche, risuscitare per risuscitarsi un cristianesimo mostruoso.
Léon Bloy — cristiano cattolico dei più grandi e dei più mostruosi — spettatore da un sobborgo di Parigi delle frenesie di distruzione della Grande Guerra, (al loro culmine nel 1916), profetizzava l’avvento dei Paracleto, lo Spirito Santo, previsto per la fine dei tempi storici. Come estrema speranza di credente invocava e aspettava che un misterioso Qualcuno venisse: ma dopo la sua morte nel 1917 e la ridicola pace del 1919, quale mai Consolatore-Redentore assoluto è venuto? Agnellini divini che abbiano portato i mali del mondo, tanti, per lo più anonimi, come adesso come domani, ma di Paracleti nessun segno.
L’Europa credente, inevitabilmente allora tutta cristiana (con minoranze teosofiche o di passati per Monte Verità, come Max Weber, Rilke), secondo Paul Fussell era in ripresa nelle trincee, ma non credo che in quelle condizioni la fede tradizionale andasse oltre le invocazioni mentali prima degli assalti, e ai gemiti dei rantolanti abbandonati nelle buche. Forse, nel corpo britannico, la Bibbia di Re Giacomo, nei versetti memorizzati nell’infanzia, confortava maggiormente, ma come voce vetero-testamentaria esclusivamente non cristiana. Preghiere per la pace e Natali di speranza non mancavano, nelle nazioni combattenti, sempre meno invogliate a farsi fare a pezzi; però di che vive una religione mistico-trascendente, se non di speranze che oltrepassano infinitamente qualsiasi tregua d’armi e ritorno a casa? E dopo la guerra, gli sterminati campi di croci segnano, nonostante il simbolo cristiano, l’apparizione di un culto nuovissimo, estraneo alla confessione cristiana: quello dei caduti. I caduti ignorano la vita futura.
Con più struggimento che nei libri, il tragico della Morte di Dio (del Dio cristiano) lo trovi nel cinema firmato da Carl Dreyer, Luis Buñuel, Ingmar Bergman, dove senti il fragore delle ondate tra cui il Titanic-Cristianesimo, protestante o cattolico, sta colando a picco. La stupefacente rinuncia del Papa Ratzinger è un dramma bergmaniano. Il Papa teologo vede lucidamente non poter più reggere o essere predicata la sua teologia da patrologia latina o greca, rigetta un cristianesimo che non ha la forza di rianimare, e si ritira in un monastero che gli sarà come un piccolo surrogato dello scoglio di Sant’Elena. Ma rivediamo un capolavoro di Bergman come Luci d’inverno, dove alla pieve di un piccolo paese il pastore Ericsson dice messa nella chiesa perfettamente vuota di fedeli. Lo scenario, il rito luterano, l’officiante ci sono: le anime, no. Immaginiamo la magnificenza di San Pietro come l’orrida bruttezza di una piazza di Seul, gremite di folla, e un giorno il Papa che si affaccia per benedire piazze deserte. Avrà visto questo, il Papa invece delle piazze dei trionfi puntuali? Il deserto della chiesa di Frostnäs? La stessa visione non afferra anche il Papa Francesco? Da certi affioramenti in lui di dubbiosità e inquietudine in pause di stanchezza, direi di sì. Un mondo decristianizzato è un mondo vuoto, che non ha ubi consistam, orfano anche di nordiche Luci d’Inverno. Beati i perplessi.

La Repubblica 10 09 14
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giovedì 4 settembre 2014

Spiritualità del finito#8/Sul soggetto nel buddhismo e nel cristianesimo

Per approfondire il tema del valore che il soggetto ha nella tradizione buddhista può essere interessante tornare a quando papa Giovanni Paolo II, parlando della salvezza nel buddhismo, rilevava (in Varcare la soglia della speranza (con Vittorio Messori, Milano, Mondadori, 1994, cap. 14) che «sia la tradizione sia i metodi da essa derivati conoscono quasi esclusivamente una soteriologia negativa. L’“illuminazione” sperimentata da Budda si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per l’uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna: dunque, i legami esistenti nella nostra costituzione umana, nella nostra psiche e nel nostro corpo. Più ci liberiamo da tali legami, più ci rendiamo indifferenti a quanto è nel mondo, e più ci liberiamo dalla sofferenza, cioè dal male che proviene dal mondo». Richiamandosi poi alla Gaudium et spes (costituzione conciliare nella quale, premesso che «la persona umana, che di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale, è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali», § 25, si constata che «cresce la coscienza dell’eminente dignità della persona umana, superiore a tutte le cose e i cui diritti e doveri sono universali e inviolabili. Occorre perciò che sia reso accessibile all'uomo tutto ciò di cui ha bisogno per condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, il diritto all’educazione, al lavoro, alla reputazione, al rispetto, alla necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto dettato della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso», § 26), concludeva che «tra le religioni dell’Estremo Oriente, in particolare il buddismo, e il cristianesimo ci sia un’essenziale differenza nel modo di intendere il mondo», per cui, facendo infine riferimento al documento della Congregazione per la dottrina della fede Su alcuni aspetti della meditazione cristiana, si ricordavano ai fedeli i “pericoli” insiti nelle pratiche buddhiste.
Per comprendere appieno le affermazioni di Karol Wojtyla dopo il suo viaggio in Oriente bisogna ricordare che, ai tempi del Concilio, egli aveva rivolto a Paolo VI un accorato appello affinché fosse emanata una speciale dichiarazione sulla libertà religiosa, che sarebbe stata, come giustamente prevedeva, un grido di battaglia nei confronti dei regimi totalitari, in quanto la rivendicazione della libertà religiosa avrebbe finito per veicolare la richiesta del rispetto di tutti gli altri diritti di libertà. Quella dichiarazione fu, com’è noto, approvata e in essa è detto che «nell'età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone  e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive. Parimenti, gli stessi esseri umani postulano una giuridica delimitazione del potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i confini alla onesta libertà, tanto delle singole persone, quanto delle associazioni, [poiché] il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione» (Dignitatis humanae).
E alla Gaudium et spes esplicitamente Giovanni Paolo II si rifaceva nella sua prima enciclica Redemptor Hominis (1979) per fondare sulla base dell’Incarnazione e della Redenzione la dignità dell’uomo, «perché l’uomo — ogni uomo senza eccezione alcuna — è stato redento da Cristo, perché con l’uomo — ciascun uomo senza eccezione alcuna — Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole» (14). Ma ancor più rilevante, al fine di rimarcare le differenze tra la soteriologia buddhista e quella cristiana, si rivela il discorso — forse non sufficientemente valorizzato — che il papa tenne all’Università di Lublino (9 giu. 1987), nel quale, senza riferirsi al buddhismo o ad altre tradizioni in particolare, egli pronunciava un forte appello in difesa proprio della soggettività. Disse allora il papa: «La soggettività nasce dalla natura stessa dell’essere personale: corrisponde prima di tutto alla dignità della persona umana. È la conferma, la verifica e insieme l’esigenza di questa dignità, sia nella vita personale che in quella collettiva. Gli atenei, fucine di lavoro culturale, operanti secondo una molteplice metodologia, sono chiamati a questo in modo particolare. [...] La società attende dalle sue università il consolidamento della propria soggettività, attende la dimostrazione delle ragioni che la fondano, e dei motivi e delle iniziative, che la servono. [...] Permettete che, a questo punto, io riporti un testo biblico. Certamente esso non ha valore dal punto di vista dei princìpi e dei metodi della scienza empirica. Possiede invece un’importanza simbolica. Sappiamo che “simbolo” vuol dire segno di convergenza, di incontro e di reciproca adesione di dati elementi. Penso che il testo del Libro della Genesi, che riferirò — senza pretese di esattezza dal punto di vista delle scienze empiriche — possieda anche un proprio, specifico significato per l’intelletto stesso che ricerca la verità sull’uomo. Ecco il passo: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile” (Gen 2, 19-20). Ecco, indipendentemente da ciò che cogliamo con il metodo empirico (o piuttosto con molti metodi) sul tema dell’“inizio”, il testo sopracitato sembra possedere una formidabile importanza “simbolica”. Anzi, in un certo senso raggiunge le radici stesse del problema: “il posto dell’uomo nel cosmo”. Si potrebbe anche dire che costituisce una certa espressione della convergenza di tutto ciò che contengono in sé le ricerche condotte coi metodi delle scienze empiriche. Tutte infatti, nella ricerca delle tracce originarie dell’uomo, si lasciano nel contempo guidare da un certo fondamentale concetto dell’uomo. Possiedono una risposta elementare almeno all’interrogativo: in che cosa l’uomo si distingue dagli altri esseri nel cosmo visibile. L’uomo, “sin dall’inizio”, distingue se stesso da tutto il cosmo visibile, in particolare dal mondo degli esseri in certo senso a sé più vicini. Essi tutti sono per lui un oggetto. Lui solo rimane il soggetto in mezzo a loro. Lo stesso Libro della Genesi parla dell’uomo come di un essere creato ad immagine di Dio e a sua somiglianza. Anzi, alla luce del passo sopracitato è al tempo stesso chiaro che quella soggettività dell’uomo si collega in modo essenziale alla conoscenza. L’uomo è soggetto in mezzo al mondo degli oggetti, perché egli è in grado di obiettivare in modo conoscitivo tutto ciò che lo circonda. Infatti, mediante il proprio intelletto egli è “per natura” orientato verso la verità. Nella verità è contenuta la sorgente della trascendenza dell’uomo nei riguardi del cosmo in cui vive».
Le valutazioni sul buddhismo espresse da Giovanni Paolo II suscitarono disappunto e proteste da parte dei buddhisti della tradizione Hinayana ma, di fronte alla “riduzione” del soggetto auspicata da questa scuola in ragione della visione di esso come pura illusorietà e della stretta connessione tra liberazione dalla sofferenza e “mortificazione” dell’ego,  l’assunto etico “occidentale” del valore della centralità della persona, con le conseguenti promozione e difesa del soggetto, della sua autonomia, dei suoi diritti-doveri inviolabili e non negoziabili, dobbiamo osservare che trova proprio nella concezione cristiana della persona una delle sue insopprimibili radici. Le  differenze  e opposizioni tra queste due visioni sono state, di recente, in nome di un discutibile concordismo interreligioso, fin troppo sottaciute, ma non va ignorato che il giudizio espresso da papa Wojtyla non è dissimile da quello formulato da buddhisti della tradizione Mahayana nei confronti della visione della scuola Theravada o Hinayana. «Poiché il Buddhismo Hinayana insegna», leggiamo ad es. nel Dizionario del Buddismo della SGK (Milano, Esperia, 2002, p. 512), «che lo scopo ultimo della pratica può essere raggiunto soltanto al momento della morte, è stato descritto come l’insegnamento del “ridurre in corpo in cenere e annientare la coscienza”». Inoltre, vorrei ricordare che non sono mancate prese di posizione come quella, ad es., autorevolmente espressa (nel seminario promosso nel 1983, dal Pontificio istituto missioni estere e dall’Abbazia di Praglia, atti pubblicati col tit. Liberaci dal male, Bologna, EMI, 1983) dallo studioso Mario Piantelli che affermava: «Mentre la spiritualità ascetica del Cristianesimo, in Oriente e in Occidente, durante i due millenni trascorsi ha proceduto in sostanza (pur sullo sfondo di una metafisica diversa) per lo stesso sentiero di quella buddhistica, la crescente importanza assunta dal concetto di “persona” come centro di valori nei tempi più recenti e la correlativa “mondanizzazione” della visione cristiana — con i suoi agganci biblici — ha indubbiamente allontanato le due spiritualità, che oggi sono sotto più di un aspetto agli antipodi».

La distanza tra queste due millenarie tradizioni è, dunque, incolmabile? Vorrei non crederlo e, come da tempo vado sostenendo, ritengo che nel buddhismo della tradizione Mahayana (e in particolare nell’insegnamento della scuola Tiantai/Tendai), sia possibile trovare, a fronte della “mortificazione” Hinayana, tutti i presupposti per sostenere una “intensificazione” e valorizzazione del soggetto che, pur se non ancora sviluppata in modo paragonabile alla forte affermazione presente nella tradizione cristiana, possa costituire proprio uno dei caratteri maggiormente caratterizzanti la espressione europea del messaggio dell’Illuminato e fornire, al tempo stesso, diverse e forse più valide basi al dialogo cristiano-buddhista.