martedì 29 ottobre 2013

Pensieri di malattia#8


Torna la febbre: sensibilità ovattata, attutita, si direbbe anche protetta. Il tempo passa per suo conto, ma non è la noia (ricordo adolescenziale) che presuppone, invece, una coscienza vigile del vuoto di contenuti.

L’inappetenza rende i due pasti principali una sorta di sfida, punizione, obbligo. E il disgusto si estende anche alle immagini di cibi, cucine, cuochi, ormai sempre più invadenti e numerose che vengono dalla TV: insopportabili!

La vita si riduce, si allontana, si impoverisce: ci si ritrova a mendicare alla finestra (Pirandello) qualcosa della vita degli altri. E il minimo gesto mi costa uno sforzo immenso, e di questi sforzi si compone ormai la mia esistenza (Memorie di Adriano).

La casa si restringe sempre più al limitato spazio circostante i movimenti di chi è ammalato: il piccolo intorno di un letto, di una poltrona... Il resto diviene sempre più estraneo e, a volte, perfino ostile.

mercoledì 23 ottobre 2013

Cibo tra vita e morte

Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure

Il cibo rassicura i bambini, distrae i passeggeri in aereo, consola le persone che soffrono. “Consolo” era detto sia il vino drogato che si dava al condannato a morte per attutirne la vigilanza sia, in particolare nell’Italia centro-meridionale, il banchetto offerto o il cibo inviato da parenti e amici alla famiglia del defunto nei primi giorni di lutto. Concludere il funerale con un banchetto aveva il significato di gestire il lutto non più nel recinto familiare, ma di condividerlo con la comunità e contrapporre alla morte il cibo come simbolo e realtà di vita. A Gradoli (cittadina del viterbese) si organizzava, durante la quaresima, un ricco banchetto (vegetariano) per commemorare le anime del Purgatorio (banchetto della penitenza): accentuando il contrasto tra vita e morte si offriva vita ai defunti e la vita tutta avrebbe dovuto uscirne più prospera e felice.  
Il legame tra cibo e vita (e quindi anche tra cibo e morte) è dunque dei più profondi, arcani, originari, e la scrittrice giapponese Ito Ogawa ha il merito di evidenziare con grande immediatezza come tale legame sia sempre attuale e ci fa conoscere come venga vissuto nell’odierno Giappone post-tradizionale. I racconti che compongono La cena degli addii (tr. it., Vicenza, Neri Pozza, 2012) illustrano questo rapporto tra cibo (un’occasione per descrivere ed esaltare la cucina giapponese, così poco e mal conosciuta da noi) e situazioni problematiche, di perdita o di distacco. Una, quella che dà il titolo al libro, riguarda due coniugi che si separano dopo una ricca cena; un’altra si riferisce a due giovani omosessuali che decidono di suicidarsi, ma dopo aver gustato il meglio della cucina di Parigi (e per questo forse rinunceranno al loro progetto!). In due altri racconti, gli scomparsi sono sentiti così presenti da poter “guidare” a prepare o gustare alcuni piatti; ma due delle storie mi sono sembrate particolarmente toccanti: una, Il misoshiro di Kochan, in cui una giovane madre, condannata dal cancro, prima di morire insegna a preparare questa zuppa alla sua bambina, la quale continuerà a farlo (per sempre?) con devozione quasi religiosa; l’altra, Il mio caro cuore colorato, dedicata a una cena molto “particolare” (non aggiungo altro per non guastare l’incanto della lettura) di due anziani coniugi: racconti commoventi fino alle lacrime, due piccoli capolavori!

lunedì 14 ottobre 2013

A volte ritornano...


Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure


Sotto l’ombrello (reale, immaginario, sperato?) di papa Francesco sta tornando in questi giorni a farsi sentire la teologia della liberazione, duramente condannata negli anni passati. Leonardo Boff, che ne è stato uno dei più noti esponenti, ha scritto una sorta di piccolo catechismo per cristiani e non-cristiani (Al cuore del cristianesimo, Emi), in cui espone la sua personale visione del cristianesimo. Lo ringraziamo, ma leggendo queste pagine di anticipazione non si può dire che ci troviamo di fronte a un miracolo di chiarezza e la sua filosofia della storia fa addirittura rimpiangere le analisi del più ortodosso e stagionato marxismo.

Che cos'è il cristianesimo?
Non è il Cristo continuato. È un'altra realtà, che però non può essere compresa senza il Cristo. Il primo, Cristo, è il Mistero del Figlio incarnato. Il secondo, il cristianesimo, è un avvenimento storico aperto e ancora in costruzione, fondato sul regno di Dio che non è ancora giunto in pienezza, reso possibile dal fallimento della croce e dalla vittoria che ne fu una realizzazione parziale, la risurrezione di Gesù. Che ne sarà del cristianesimo? Sarà quello che gli è concesso di realizzare nella storia, ispirandosi all'opera di Gesù e congiungendosi con la storia dei popoli.
Entrambi, Gesù e la storia, hanno in comune il fatto di essere affermazioni progressive del processo dell'evoluzione. Cristo come autocomunicazione del Figlio del Padre a un uomo concreto, Gesù di Nazaret; e nello stesso tempo totale apertura di quell'uomo concreto, Gesù, al Figlio del Padre.
Egli è il sacramento dell'incontro. In lui i due movimenti si intrecciarono: l'interiorizzazione e l'esteriorizzazione, il movimento ascendente e quello discendente. In questo senso, Gesù è l'anticipo seminale del quadro ultimo dell'umanità e dell'universo, assunti e interiorizzati dallo Spirito Santo, dal Figlio e dal Padre, e introdotti nel Regno della Trinità; ma questo è stato possibile solo perché prima il Figlio è entrato e si è esteriorizzato nel mondo per azione dello Spirito sotto l'egida del Padre, facendo sua la Nostra umanità. Concentriamoci per un attimo su Gesù: egli rappresenta una gloria per Dio e un onore per noi e per tutto l'universo, ma è anche portatore di una tragedia che è la crux theologorum. Venne respinto e inchiodato su una croce. Tale destino fu la conseguenza di ciò che egli disse e fece, e che risultava inaccettabile per gli schemi politici e religiosi del tempo. Gesù non cercò la morte, né essa fu desiderata dal Padre.
Gesù voleva vivere e si aspettava la realizzazione del suo sogno, il Regno. Ciò che il Padre voleva non era la morte del Figlio, perché Dio non è crudele, ma la sua fedeltà, che poteva comportare la morte violenta. Tra lacrime, angosce e grida di disperazione, Gesù mantenne fino alla fine la fedeltà a sé stesso, al sogno, agli uomini e donne umiliati e offesi e al Padre.
Pur amando la vita, dovette consegnarla e accettare la morte, caratterizzata come un'esecuzione giudiziale. In questo Gesù non fallì perché in nessun momento venne meno la sua fedeltà. La sua proposta fallì storicamente, perché venne rifiutata. La risposta alla sua fedeltà fu la resurrezione, da intendere come realizzazione seminale, incoativa e inaugurale del suo sogno: il regno di Dio.
È un sogno che continua ad essere sogno, ma con un segno anticipatore che è la risurrezione personale di Gesù. Poiché Gesù non è solo, ma è sempre legato alla sua comunità e all'intero universo, la sua risurrezione non è ancora completa. Gesù risorto ha ancora un futuro in cui tutti e l'intero cosmo parteciperanno alla sua risurrezione e saranno anch'essi risuscitati. I Vangeli accennano a un simile sviluppo dicendo che stiamo in cammino verso la Galilea, dove il risorto si mostrerà nuovamente. […] L'azione delle energie cristiche di interiorizzazione ed esteriorizzazione continua a svolgersi nella storia. Tutto ciò, sicuramente, è sfuggito alla coscienza possibile del Gesù storico, artigiano e contadino. Non importa. È stato Dio che, attraverso di lui, ha suscitato questa affermazione progressiva nella nostra storia cosmica, terrena e umana. Il cristianesimo ha senso solo se mantiene viva la coscienza di essere una realtà emergente che si basa sulla presenza del Figlio del Padre in mezzo a noi, nella forza dello Spirito e nell'azione permanente operata dal Padre. Acquista rilevanza nella misura in cui non lascia svanire il sogno di Gesù, conserva la memoria delle sue verba et facta, delle sue gesta gloriose e tragiche, cerca di concretizzare il suo sogno nei beni chiamati “del Regno” […]
(dal Sole 24 ore, 8 sett. 2013)

mercoledì 9 ottobre 2013

Schermaglie#31/Passannante


Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure

Giovanni Passannante (1849-1910), che nel 1878 attentò alla vita dl re Umberto I, era un mazziniano e anarchico, di umili origini, nato a Salvia in Lucania. Già noto alle forze dell’ordine per essere stato arrestato a causa delle sue attività politiche, aveva svolto lavoro come cuoco e altre attività saltuarie, sempre meditando di compiere gesti rivoluzionari, tra cui anche quello di uccidere Napoleone III. Uscito di prigione, si era trasferito a Napoli, città dove il nuovo sovrano Umberto I e sua moglie, la regina Margherita, il 17 novembre 1878, assieme al primo ministro Benedetto Cairoli, era in visita. Lì Passannante, che si era procurato un coltello, pensò fosse il momento opportuno per un attentato. Riuscì, infatti, a salire sul predellino della carrozza reale e a ferire il re, urlando: «Viva la Repubblica Universale!». Cairoli afferrò l'attentatore e venne a sua volta ferito. L'anarchico fu colpito poi da un ufficiale dei corazzieri con una sciabolata alla testa e quindi arrestato. L’attentato suscitò un’ondata di sdegno e l’abito bianco della regina macchiato di sangue fece il giro del Paese, simbolo dell’offesa alla sacralità del re. Condannato all’ergastolo, Passannante fu rinchiuso prima a Portoferraio e poi nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Alla sua morte il cranio e il cervello furono conservati nel Museo criminale di Roma.  
Negli ambienti radicali e socialisti le durissime condizioni di detenzione alle quali fu sottoposto il Passannante (e le mai sopite idee mazziniane) suscitarono proteste e iniziative politiche: perfino Giovanni Pascoli scrisse un’Ode a Passannante, che poi (opportunamente!) lui stesso distrusse, e della quale si ricorda solo il verso «Colla berretta d'un cuoco, faremo una bandiera».
Un’eco di quelle proteste è giunta fino ai nostri giorni, con la richiesta di far uscire i resti di Passannante dal Museo criminale, per provvederne la tumulazione nel suo paese (a cui fu dato il nome di Savoia di Lucania per punizione/espiazione), cancellando così anche quella che era ritenuta l’infamia dell’attribuzione della follia criminale al personaggio. L’iniziativa fu sostenuta da ambienti di estrema sinistra, tra i quali non potevano mancare i nomi di Francesco Guccini, Dario Fo, Marco Travaglio, Oliviero Diliberto, Peter Gomez, Erri De Luca, etc. Ottenuto nel 1999 il nulla osta dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto i resti furono finalmenti sepolti a Savoia di Lucania anni dopo.
E qui veniamo al film del 2011, diretto da Sergio Colabona, centrato sulla vicenda della sepoltura dell’anarchico. Benché estremamente polemico e ideologico, il film riesce ad essere in qualche modo leggero e scorrevole nella sua fattura, ben recitato da Fabio Troiano, Luca Lionello, Maria Letizia Gorga, con un’apparizione anche di Citto Maselli. Passannante ne risulta figura eroica ed esemplare, e il film — nonostante alcune proteste — è stato giudicato di “alto valore educativo” e inserito dall’Agiscuola nella sua programmazione con l’intento di farlo vedere nelle scuole italiane proprio per il suo valore pedagogico. Speriamo che ciò non si realizzi, ma — come si dice — segni dei tempi!
Per chi “non ricorda” la storia d’Italia vorrei aggiungere che il re Umberto I fu poi ucciso da un altro anarchico, Gaetano Bresci, il 29 luglio 1900. Inoltre, ora c’è un’altra iniziativa per restituire il nome originario di Salvia al comune di Savoia di Lucania.