sabato 21 febbraio 2009

Cariatidi#7



Telamoni in v.le Regina Margherita, ang. via Nomentana Roma (foto RV)

Il malato immaginario

Percepire il tragico in opere che solitamente sono denominate commedie è sicuramente più difficile che in quelle che già esplicitamente qualificate tragedie. C’è del tragico, infatti, in Il malato immaginario di Molière, ben oltre la farsa dell’ipocondriaco e la satira della medicina. La tragedia è nella malattia mortale del vivere, da cui l’ipocondriaco Argan ha relizzato che ci si può difendere solo entrando in “piccole” malattie, da curare con le barriere artificiose dei farmaci e degli interventi medici: “bisogna che la malattia ci sia, ma non prenda piede. Perché, dietro la malattia, come in fondo ad un corridoio lungo, buio, sempre più stretto, sempre più buio, c’è un’immagine orribile: la morte. Non è la religione che possa cancellare quell’immaine, perché la religione non fa altro che ricordarci che essa esiste anche quando noi non la vediamo, e finiremo col batterci il naso contro, ma è la scienza. La scienza cerca di ritardare la sua vittoria, ci dà l’illusione dell’immortalità. E la malattia diventa allora un male necessario, perché soltanto quando si è malati, la scienza può intervenire e allontanare il punto estremo di ogni male, la fine della strada della vita, interrotta bruscamente su un precipizio che è la morte”. La medicina, anche nella sua forma più fatua e “teatrale”, diviene l’unico scudo dietro cui proteggersi, per non dichiararsi vinti. Nella stanza di Argan (nelle stanze di tutti gli ammalati) si “assiste, tra vittorie e disfatte, allo svolgersi di una campagna costante e interminabile, […] combattuta con i clisteri detersivi, il giulebbe epatico soporifero e medicine purgative e corroborative”. Alla fine, divenendo egli stesso medico, Argan celebra la sua apoteosi difensiva. E Molière? All’opposto, egli non si difende, conosce con spietata lucidità la sua condizione di ammalato vero e solo, ha la certezza di essere condannato e disprezza l’inconsapevole Argan.

Il malato immaginario è l’ultima opera di Molière. Durante la quarta rappresentazione (1673) Molière è colto da un accesso di tosse, sputa sangue, morirà poco dopo. È come se Argan e Molière si fossero scontrati sul palcoscenico, “in un duello mortale [in cui] un autore veniva tolto di mezzo, sulla scena, dal proprio personaggio”. La ragione di Molière non vince e la follia di Argan non perde: e noi continuiamo lo scontro ogni giorno.

Per saperne di più: G. Macchia, Il silenzio di Molière; film: A. Minouchkine, Molière, Gérard Corbiau, Le Roi danse. In DVD: in it. Il malato immaginario, regìa di S. Blasi, interpretazione di Tino Buazzelli; in fr.: Le malade imaginaire, realizzazione e interpreti della Comédie-Française. 

martedì 10 febbraio 2009

Silenzi e grida

Già vari anni fa con le riflessioni che Foucault aveva avviato sul biopotere e la biopolitica si faceva evidente la consapevolezza che mentre nel passato, fenomeni come la salute, la morte, la sessualità, la riproduzione o l’alimentazione erano considerati esclusivamente privati e sembravano, così, estranei al controllo e all’intervento dello Stato, oggi in maniera sempre più esplosiva, questi temi sono diventati oggetto di dibattito e scontro politico.

Gli eventi di questi giorni ne offrono una riprova acuta e per molti versi dolorosa, esacerbando gli interrogativi, inasprendo le contrapposizioni, ostacolando anche la possibilità di riflettere sulla tragicità della malattia e della morte. Si avverte un forte bisogno di raccoglimento e di fuga dalle polemiche: ricordo come, in un periodo difficile della recente storia francese (questione algerina), nelle riunioni di psichiatria all’Asile Sainte-Anne, quando qualcuno faceva scivolare le considerazioni di psicopatologia in discussioni “politiche”, Lacan si sottraesse ripetendo “Pas d’actualité”. Inattuali, lontani dal clamore mediatico, ma difficile rimanere muti o “spensierati”... E su cosa, come, con chi riflettere? Qui vorrei limitarmi a sottolineare solo alcuni dei punti a mio, ma non solo, avviso più basilari e sui quali si impongono delle opzioni generali con cui ciascuno può/deve confrontarsi:

1. Distinzione tra sacralità e qualità della vita. Una concezione “naturalistica” della vita, benché sostenuta dalle forme più tradizionalistiche di spiritualità, afferma il valore “sacro” della vita biologica, ma sottostima il valore dei vissuti, dell’esigenza di vivere secondo obiettivi, aspirazioni e standard corrispondenti ai propri orientamenti e credenze personali, in breve tutto ciò che oggi, riconosciuto anche dall’Organizzazione mondiale della sanità come fondamentale componente del benessere, viene indicato con l’espressione “qualità della vita”. Da una “sacralità” così intesa finiscono per determinarsi gli accanimenti terapeutici e le imposizioni arroganti di una “difesa” a oltranza della vita biologica, mentre tutti dovrebbero ricordare che i martiri e gli eroi hanno sempre anteposto gli ideali alla mera sopravvivenza. Certo, la vita biologica va tutelata, ma perché dovremmo arrestarci a questo livello elementare pur se basilare? Anche la tesi di chi invita a “lasciar fare la natura” (sia per quanto riguarda gli inizi che la fine della vita) sembra dimenticare che nulla è più culturale del concetto di natura e che se c’è una natura dell’uomo essa ha di proprio il fatto di interrogarsi, sfidare i limiti, costruire un’esistenza libera e autodeterminata.

2. Conseguenza dell’introduzione delle nuove tecnologie nei vari campi della nostra condotta individuale e collettiva è stato l'enorme ampliamento di spazi di libertà, con la conseguenza che molto di ciò che in precedenza era considerato “naturale” (sia nel senso di “fatale” e a cui ci si riteneva quindi ineluttabilmente condannati, sia nel senso di “casuale” o non-dominabile, come per molte malattie) oggi è entrato nel campo di nuove e più ampie possibilità di scelta e di responsabilità. La possibilità di scegliere in ogni momento della propria esistenza i modi di realizzare i propri piani di vita è sentita come valore prioritario e si esprime nella richiesta di libertà nel percorso formativo, nel tipo e nel tempo di lavoro, dell'ambiente in cui vivere, di come strutturare i propri legami sessuoaffettivi, di decidere se e quando avere un figlio, dei modi di curarsi o non curarsi, di morire in autonomia e dignità, e via enumerando: tutte esigenze di vedere riconosciuto il diritto (fondato sulla fiducia nella capacità dell’uomo) di cercare autonomamente e responsabilmente il proprio benesse, contro poteri che pretendano di indicare quali siano i bisogni e come debbano essere soddisfatti. Paradossalmente, anche in questo caso, le espressioni tradizionalistiche della spiritualità cristiana, che pure hanno dato un contributo di portata incancellabile al riconoscimento della dignità della persona, si fermano al riconoscimento di essa nella sua “materialità” naturalistica o nella pretesa (quindi non universalmente condivisibile) esistenza di un’anima immateriale, ostacolando il riconoscimento della dignità della persona nella sua espressione più elevata: la capacità di una consapevole autodeterminazione. Per quanto riguarda poi le forme di spiritualità orientale, buddhismo compreso, dobbiamo constatare che esse non hanno ancora fatto i conti con la soggettività come è stata elaborata dalla nostra cultura. Benché presenti in Occidente, va rilevato che si tratta di tradizioni le quali, da un lato, si sono sviluppate lontane da Eschilo e Platone, dal diritto romano e dal cristianesimo, da Pico della Mirandola, da Cartesio, dai “lumi” e dal romanticismo, da Nietzsche e da Freud, cioè dalle fondamentali radici identitarie della nostra civiltà; dall’altro, si sono tradizionalmente poste mete e obiettivi spesso antitetici a quelli della cultura occidentale. Pertanto, le difficoltà sul piano del riconoscimento della soggettività e degli spazi della sua autonomia non sono state non solo superate ma nemmeno significativamente affrontate, per cui, al fine di una possibile autentica inculturazione della spiritualità orientale in Occidente lo stimolo offerto dalla problematica bioetica non dovrebbe essere più a lungo disatteso, in un silenzio che non sembra proprio potersi qualificare come “nobile silenzio”.

3. Laicità. Per uscire dalla logica maggioritaria, improponibile su questioni riguardanti le libertà individuali, occorrerà ricercare quei punti di un possibile unanime consenso, che oggi non sembra poter essere individuato altro che nel concetto di laicità del potere statale, come la forma più rispettosa e comprensiva delle differenze, più “forte”, anche, perché in grado di “contenerle” e comprenderle nella maggior misura possibile. Certo ogni cultura declina l'universalismo secondo i suoi riferimenti (e ogni universalismo rischia di venir considerato un particolarismo), ma nell'incontro (se lo si vuole incruento) di etiche differenti, se ciascuna posizione riuscirà a fare lo sforzo di immaginarsi come minoranza che, in quanto tale, potrebbe venire oppressa dal prevaricare di una maggioranza ostile, tutti si potranno ritrovare interessati a costruire, sostenere e sviluppare una cornice legislativa “liberale” che assicuri la convivenza dei diversi convincimenti nel riconoscimento unanime e integrale della dignità della persona.

venerdì 6 febbraio 2009

Gioco ermeneutico#1/Hemingway

Tra i Quarantanove racconti di E. Hemingway è compreso quello intitolato Gatto sotto la pioggia: un racconto che qualcuno ha detto “il miglior racconto del mondo” e che lo scrittore catalano Enrique Villa-Matas usa come pretesto per costruire gran parte della storia del libro Parigi non finisce mai. Villa-Matas gioca e fruga tra le allusioni e i sottintesi di Hemingway per cercare di capire quale possa essere il senso segreto del racconto, senza trovarlo, e su cui interroga i lettori. 
In breve, il racconto narra di una  coppia di giovani americani in viaggio per l’Italia. Fermi in albergo in una giornata piovosa, lei vede dalla finestra un gatto che cerca di schivare la pioggia. Decide di andarlo a prendere mentre il marito continua a leggere sdraiato sul letto. Ma il gatto non si trova più; di ritorno, la sposina tenta di avviare una conversazione frivola e capricciosa col marito, che continua a leggere. Poi bussano alla porta ed è la cameriera che regge in braccio un grosso gatto di maiolica. “Scusate — disse — il padrone mi ha detto di portar questo alla signora”.
Leggete e provate a interpretare: è gioco in cui nessuno perde.

giovedì 5 febbraio 2009

Sulla pazienza#4/Fromm e L’arte di amare

Nell’ultimo capitolo di L’arte di amare Fromm cerca di offrire alcune indicazioni sulla “pratica” ovvero su quali possano essere considerate le precondizioni di questa pratica, la condizione essenziale rimanendo che per imparare un’arte occorre la pratica stessa. “La pratica di qualsiasi arte”, egli osserva, “ha certe particolari esigenze, sia che si riferisca all’arte del carpentiere, della medicina o dell’arte di amare” e trova che qualsiasi arte richiede disciplina, concentrazione e pazienza. Su quest'ultima, in particolare, scrive: "Chiunque abbia mai provato a imparare un’arte sa che la pazienza è necessaria se si vuole arrivare. Se si vogliono raggiungere risultati rapidi non s’imparerà mai un’arte. Eppure, per l’uomo moderno, la pazienza è altrettanto difficile da praticare quanto la disciplina e la concentrazione […] L’uomo moderno crede di perdere qualcosa — il tempo — quando non fa le cose in fretta; eppure non sa che cosa fare del tempo che guadagna, tranne che ammazzarlo”. Dunque, anche l’amore richiede che si sappia attendere, si sappia aspettare il momento giusto. Vorrei commentare dicendo che il Tempo è Dio, la velocità è l’efficienza, l’impazienza Satana.