venerdì 18 maggio 2012

La via italiana al Dharma


Nel numero di maggio del mensile Jesus (delle edizioni San Paolo) è stato pubblicato un dossier dal titolo La via italiana al Dharma (a cura di Giovanni Ferrò e Vittoria Prisciandaro). Tra i vari articoli, un’intervista fattami da Vittoria Prisciandaro, che qui riporto (con lievi modifiche).

Creare legami, cercare nessi, evidenziare rapporti tra il buddhismo e la cultura occidentale. È il lavoro che da anni porta avanti Riccardo Venturini, professore ordinario di Psicofisiologia clinica alla Sapienza di Roma e che viene sintetizzato nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Ri-legature buddhiste. Laureato in filosofia e medicina, da vari anni Venturini si occupa degli stati di coscienza e dei livelli di vigilanza nel contesto della psicologia occidentale e in quello delle psicologie tradizionali orientali, interessandosi in particolare dell’esperienza religiosa e delle tecniche di meditazione e di preghiera.
Il buddhismo è oggi presente come significativa minoranza religiosa in Occidente e anche in Italia, ma si tratta, secondo Venturini, di «un buddhismo d’importazione, con appartenenze e denominazioni proprie delle scuole di provenienza, con liturgie, manifestazioni, modi di rappresentarsi adeguati a contesti culturali altri; e non di un buddhismo occidentale capace di rispondere ai quesiti relativi alla possibilità di inculturazione e, finalmente non più emarginato come uno dei tanti gruppi esotici o new age, essere in grado di offrire risposte alle attuali esigenze di spiritualità presenti in Occidente». All’autore del volume chiediamo allora se è possibile, a suo parere, un’inculturazione nell’attuale contesto culturale occidentale. E con che cosa deve fare i conti una via occidentale al buddhismo.
La mia risposta è assolutamente positiva, anche se è ancora allo stato nascente un lavoro di inculturazione del buddhismo che possa essere paragonabile a quello svolto, in modo incredibilmente fecondo, in India, in Cina, in Giappone e che ha consentito che esso potesse svilupparsi e maturarsi, ricevendone, rispettivamente, filosofia, pratica, sensibilità. Trattandosi di una tradizione che, da un lato, si è sviluppata lontana da Eschilo e Platone, dal diritto romano e dal cristianesimo, da Pico della Mirandola e da Cartesio, dai “lumi” e dal romanticismo, da Nietzsche e da Freud, ossia dalle radici identitarie della nostra civiltà, e, dall’altro, si è proposta mete e obiettivi spesso antitetici a quelli della cultura occidentale, le difficoltà non sono trascurabili, per cui sta ormai emergendo (dall’impegno di studiosi, esponenti di altre religioni, laici e, anche se in misura minore, di gruppi e centri buddhisti) l’esigenza di una seria riflessione sulla possibilità di costruire una via occidentale al buddhismo. Di fronte a forme di militanza dottrinarie e unilaterali, per offrire un contributo a questa “occidentalizzazione” del buddhismo va tentata una riformulazione del Buddhadharma adeguata al nostro attuale contesto culturale occidentale sviluppato, complesso, postmoderno, facendo i conti con la spiritualità cristiana, con la scienza, lo spirito critico, la laicità delle istituzioni, la democrazia e, soprattutto, muovendo dall’assunto della centralità della persona ossia della promozione, difesa e rispetto del soggetto, dei suoi diritti-doveri inalienabili e non negoziabili, della sua autonomia illuminata.

Quali sono le domande spirituali a cui il buddhismo può rispondere?
Credo sia ben evidente che oggi siamo in presenza di una domanda di spiritualità che non trova più risposta, nel mondo occidentale sviluppato, nelle religioni monoteistiche. Mi riferisco alla posizione di chi non si sente né vicino né nostalgico della trascendenza monoteistica e avverte quello monoteistico come un racconto stanco, non più in grado di interpretare il nostro mondo, ma sente, d’altra parte, l’esigenza della costruzione di una nuova spiritualità. È proprio la difficoltà a parlare la lingua della modernità laica che isola infatti i monoteismi e rende spesso vani il dialogo e gli incontri. Si è, pertanto, risvegliato l’interesse a guardare alle grandi scuole di saggezza dell’antichità, come lo stoicismo e l’epicureismo, o a pensatori come Montaigne o Spinoza e, in un ampliamento degli orizzonti culturali, all’Oriente taoista e buddhista. In particolare, una cospicua parte dell’umanità (almeno dell’Occidente) è ormai matura per compiere, collettivamente, un grande passo avanti spirituale per affrontare il problema del male e del dolore in tutta la sua tragicità, abbandonando i venditori di illusioni e assumendosi la responsabilità di creare umilmente, con le proprie mani, quel tanto (o quel poco) di bene, di vero e di bello di cui saprà dimostrarsi capace. Il buddhismo, tradizione spirituale a-teistica, sembra oggi possa essere in grado di offrire delle indicazioni utili alla costruzione di orientamenti spirituali di tipo nuovo.
Rispetto ai temi della sofferenza, della paura, della morte quale contributo offre il buddhismo?
Il mondo fenomenico è caratterizzato da un processo di nascita, crescita, decadenza e morte. Con la comparsa degli esseri senzienti, tale processo è avvertito come faticoso e doloroso, per cui il Buddha ha sottolineato l’onnipresenza della sofferenza. Come tutte le grandi tradizioni, il buddhismo nasce col proposito di aiutare l’uomo di fronte al dolore, insegnargli a riconoscerlo, a capirne l’origine, a gestire al meglio le sofferenze causate dalla malattia, la solitudine, la morte. La via buddhista si definisce come una via di attenzione e consapevolezza che non vuole fornire illusioni, negazioni, oblii, consolazioni, ma invita a confrontarsi con la realtà, accettando il coraggio della verità che, come dice anche il Vangelo, è quella che ci può rendere liberi. La verità — bisogno ricordarlo — ha i suoi costi, come sanno tutti i martiri, ma è la sola che può dare risposta a un autentico bisogno di senso e di valore. Ora, se nelle tradizioni teistiche le missioni di aiuto e di salvezza vengono affidate a qualche essere superiore e, in particolare, a divinità misericordiose, gran parte del pensiero orientale (comprese varie scuole buddhiste) ha ritenuto che per fronteggiare la onnipervasività e insopprimibilità del dolore occorra operare sul soggetto, considerando che il male sia nel giudizio e nella coscienza (il sé come origine e/o parte del negativo da eliminare o a cui rinunciare): più che a risolvere, questo orientamento tende quindi a dissolvere il problema, attraverso una sorta di “riduzione” del soggetto. Per la dottrina buddhista Mahayana, che afferma invece essere il samsara in nulla differente dal Nirvana, le risposte non andranno cercate né soffocando il soggetto nell’amore di Dio né estinguendolo in un Nirvana separato. In una prospettiva di valorizzazione della realtà fenomenica, che non può escludere proprio la soggettività che ne è l’espressione più complessa ed elevata e luogo in cui si realizza la consapevolezza dell’Essere, si mira a una “intensificazione e “dilatazione” transpersonale del soggetto, costruttore di valore (di compassione, bellezza, conoscenza) pur nel suo restare ancorato alla coscienza tragica della finitezza della condizione umana. Nirvana viene così a significare le transitorie esperienze di pienezza, completezza, serenità, realizzate vivendo l’uno nel molteplice, l’eterno nel transeunte, l’assoluto nel relativo, l’essenza nell’apparenza…
Quando scrive che occorre liberare questa scuola di saggezza «da rappresentazioni folkloristiche, da contraffazioni orientalistiche, da divisioni basate su esigenze identitarie...» a cosa si riferisce?
La giusta esigenza di garantire serietà e autenticità dell’insegnamento (anche in vista di una definizione dei rapporti con lo Stato) non ha saputo trovare espressione diversa dal rinforzo dell’appartenenza alle storiche tradizioni di insegnamento esistenti fuori d’Italia, con la conseguenza di manifestazioni esteriori (abiti, liturgie, festività…) che hanno finito per rinforzare un’immagine di estraneità alla nostra cultura. La stessa organizzazione in centri, poco comunicativi sia tra loro (per le differenti tradizioni di appartenenza) sia con l’esterno, ha posto problemi di esclusione più che di inclusione, più di conservazione che di innovazione. Ci sono stati fenomeni di scissioni e problemi di armonizzazione di autorità e partecipazione; la formazione, poi, con la frequente enfasi di una “pratica” ristretta spesso a una sola modalità (ad es., meditazione, recitazione di mantra) ha fatto dimenticare la necessità di una pratica integrata delle paramita perché si possa avere una effettiva “conversione del cuore”. Tutto questo, per usare una espressione del prof. Elikia M’Bokolo, rischia purtroppo di configurare l’attuale movimento buddhista come «il  figlio handicappato di un grande amore».

Può il dialogo interreligioso aiutare il buddhismo a trovare una sua via occidentale?
Certamente, purché si tratti di un vero confronto, ad esempio con la tradizione cristiana, sui problemi della persona, dell’etica e della bioetica, e non di rappresentazioni diplomatico-folkloristiche. Il dialogo è importante si sviluppi non solo con le ben consolidate tradizioni monoteistiche, ma anche con quel “religioso implicito” presente nella cultura laica. D’altro lato, i buddhisti dovrebbero presentare con più vigore la visione di un umanesimo buddhista, per facilitare l’interruzione del gioco millenario che l’umanità ha fatto con le divinità, cercando la salvezza nell’alleanza con potenze sovrumane, per tentare, invece, di lavorare umilmente, contando sulle proprie limitate forze e non più sul Pastore «che su pascoli erbosi mi fa riposare» (Sal 23, 2). 

domenica 13 maggio 2012

Vivere di sacro?#3/La kippah

Sempre sulla religione come separazione e difesa dall’eccesso di contatto col sacro. La kippah, plurale kippot, il copricapo ebraico, indossata non solo nei luoghi di culto, ma anche nella vita quotidiana è, come scrive il rav. Benedetto Carucci-Viterbi, «simbolo di limite. Ciascuno deve sapere fin dove arriva e non tentare - nel delirio di onnipotenza - di andare oltre. In questa prospettiva sarebbe bene ordinare kippot per tutta l'umanità». Simbolo di devozione e di separazione, è un pro-memoria che ricorda all’uomo il suo stare sulla Terra, al di sotto del Cielo, rammentandogli il comportamento adeguato, senza confusione tra sacro e profano.

martedì 1 maggio 2012

Vivere di sacro?#2

Ancora una visione dell’eccesso. Siamo nel mondo ebraico e Sedecia (in ebr., il Signore è la mia integrità/il mio diritto) fu l’ultimo re (597-586 a. C.) di Giuda (il regno del sud, nato dalla scissione del regno unitario: Israele, a nord; Giuda a sud), nel periodo del dominio babilonese. Ribellatosi a Nabucodonosor al quale aveva giurato fedeltà, il suo comportamento determinò la rovina definitiva della nazione ed egli stesso fu catturato e portato dal re con i figli e le mogli. Scrive Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, X, 140): Nabucodonosor «ordinò che figli e amici fossero uccisi sul posto sotto gli occhi dello stesso S. e degli altri prigionieri, poi cavò gli occhi a S., lo mise in catene e lo portò in Babilonia». Punizione venuta dall’“alto” (più in alto di una mano umana), l’ultima visione di Sedecia fu dunque quella dei suoi figli che venivano sgozzati: atroce, inumana, pienezza abissale del male e, pertanto, visione “sacra” (aspetto tremendum del sacro), qualcosa vista la quale non è più possibile vedere oltre e vivere una vita ordinaria. Come Edipo dopo la rivelazione della natura del suo comportamento, Sedecia si trascinò nella sua rovina per alcuni mesi (morì poco dopo, nel 585), vivendo — anche se ne ignoriamo gli aspetti soggettivi — quella che possiamo considerare la sua espiazione, nella miseria che resta a chi sia stato “fulminato” dalla sovrabbondanza di sacro.