venerdì 30 marzo 2012

Mathilda e la Namibia

Nell’Africa meridionale si trova un repubblica di recente costituzione, la Namibia, che fu colonia o più esattamente “protettorato” tedesco negli anni 1860-1920. Nell’Ottocento un Paese europeo che volesse essere degno di rispetto nel consesso internazionale “doveva” avere dei possedimenti coloniali e la Germania non si sottrasse a questo “imperativo”, conquistò il protettorato di questa regione che perse poi con la sconfitta subita nella I guerra mondiale. Dopo essere passata sotto il dominio sud-africano e ricevuto dalle Nazioni Unite il nome di Namibia (dal deserto di Namib, nome asseganto per evitare controversie tra i vari gruppi etnici), l’indipendenza dell'Africa del Sud-Ovest verrà  proclamata ufficialmente nel marzo 1990.
Valéry Giscard D’Estaing, già Presidente della Repubblica francese e che ora siede tra gli “immortali” dell’Académie française, appassionato di letteratura (in particolare di Maupassant) e scrittore lui stesso, abbiamo appreso essere innamorato della natura di questa singolare regione del continente africano, una delle nazioni più giovani del mondo e l’unico Paese africano in cui la lingua tedesca è presente come lingua ufficiale. Valéry Giscard D’Estaing in Mathilda narra di essere stato incuriosito, trovandosi in Namibia, da una tomba su un altopiano, costituita da un rettangolo di terra rossa con una lapide recante l’iscrizione in carattere gotico e in lingua tedesca: “Mathilda Schloss della famiglia Dürtingen, nata il 15 aprile 1918, deceduta il 12 febbraio 1946. Riposi in pace”. Messosi in cerca di notizie su questa giovane, l’A. condensa nella sua narrazione (di documento romanzato) tutta la breve vita di questa donna di pura bellezza germanica che ci fa conoscere e amare. La famiglia Dürtingen, di “coloni” tedeschi insediatisi in quella pezzo di territorio tedesco dell’Africa Sud-occidentale, possedeva lì una fattoria con allevamento e godeva di un certo benessere. Allo scoppiare della II guerra mondiale i giovani maschi sono attratti dalla madrepatria hitleriana e partono per partecipare alla guerra. Rimasta sola a guidare la fattoria (partiti il marito e il fratello, e i genitori anziani ritiratisi), Mathilda rivela tutte le sue doti e tutta la sua forza: attende, viene a sapere della morte del fratello e di quella probabile del marito a Stalingrado, attende ancora dopo la fine della guerra, quando le condizioni politiche dell’Africa Sud-occidentale cominciavano a cambiare e si veniva a determinare una sorta di apartheid per i coloni tedeschi.
L’A. dedica il suo libro all’“Africa, il continente materno”, una madre che sotto lo splendore del “cielo scintillante di blu” ha un suo lato oscuro e inquietante che Mathilda, cresciuta nell’innocenza di una simbiosi con la natura, dovrà scoprire e che trasformerà la sua serenità in tragedia. Attraverso la storia della protagonista, il libro ci offre due prospettive di riflessione psico-sociale sul colonialismo (di cui si è recentemente celebrato il cinquantesimo anniversario della fine ufficiale): quella legata alla particolare, surreale, condizione dei “dominatori” e quella dei negri “dominati”. Particolarmente acuta la descrizione analitica del desiderio del giovane Ouseb (lavorante nella fattoria) che violenterà Mathilda: perché era bella, perché era bianca, perché prendendola la riportava a un livello inferiore al suo. Mathilda ne morirà e l’A. ci accompagna con finezza nell’intimità del suo itinerario distruttivo che sarà, tuttavia, anche un percorso di consapevolezza e di amore. E anche gli altri personaggi al contorno non avranno un destino felice.
La tomba sull’altopiano, come in attesa delle cure che periodicamente le vengono prestate in occasione delle visite del narratore, resta a testimoniare, sotto il sole di quella terra straniera, la tragedia di una giovane, martire di progetti e di condotte funestamente sbagliati.

venerdì 23 marzo 2012

Finis vitae#2/A che ti serve?


Come posso rispondere, senza lasciarmi irritare, a quegli “utilitaristi” (in)culturali che, esplicitamente o, peggio, implicitamente, mi chiedono: «Ma, alla tua età, a che ti serve tutto questo studio…?» Ebbene, mi aiuta una nota del filosofo Emil Cioran (1911-95) che (nei Quaderni, 1966) scriveva: «Socrate, prima di morire, era intento a imparare un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire”».

martedì 20 marzo 2012

Equinozio di primavera

Passaggio di stagione, occasione di riflessione sul ritorno ciclico. Facciamolo ancora con un riferimento (l’ultimo) alle stagioni di Poussin. Anche nel quadro dedicato alla primavera vediamo i risultati della lunga ricerca del pittore sul paesaggio: nuvole che riempiono i vuoti del cielo (in secondo piano) che si contrappongono alle forme terresti (in primo piano) di prati, alberi, rocce, presenza di esseri umani in varie situazioni nel paesaggio.
Qui il verde delle piante passa attraverso il giallo delle parti più assolate per esitare nell’azzurro tenero del cielo, come si conviene alla primavera. Appoggiato a una nuvola Dio con la sua mano indica la via e impone la legge, ma dalla terra, ove sono un uomo e una donna nudi in una scena da paradiso terrestre, la donna (Eva?) risponde alzando il dito, quasi in una orgogliosa affermazione del diritto alla disubbidienza.
Storia naturale, storia della salvezza della tradizione giudaico-cristiana, ma anche una possibile lettura nei termini della tradizione classica, per cui al posto di Dio possiamo collocare Apollo, la coppia nel giardino è l’umanità degli inizi, il dito, ad es. di Pandora, può più dolcemente indicare una divinità legata alla natura e all’uomo.  


domenica 18 marzo 2012

Glimpses of Unfamiliar Japan#1/500 discepoli del Buddha a Kawagoe

Kawagoe è una località situata nella parte nord-occidentale della grande  banilieu di Tokyo, da cui dista circa 45 km. Città natale del grande autore di stampe Utamaro (1753-1896), Kawagoe è nota per le caratteristiche costruzioni in argilla, a due piani, dai tetti riccamente decorati, realizzate nei secoli scorsi per i ricchi mercanti del luogo, utilizzate  come magazzini (Kura) e abitazioni, fortunatamente conservatesi fino a oggi preservando l'atmosfera di Edo (Tokyo) del XIX secolo (tanto che la città viene chiamata "piccola Edo").


A est delle strade-kura si trova un’altra delle curiosità del luogo: il tempio Tendai Kita-in, fondato nell’anno 830 dal Maestro Ennin (http://www.culturabuddhista.it/joomla/index.php/storia/maestri/61-ennin.html), nella cui area sono collocate otre 500 statue (gohyaku rakan=500 arhat) che rappresentano gli allievi/discepoli del Buddha. Nel  1782 un contadino diventato monaco, che prese il nome di Shijo, decise di scolpire le statue per rendere omaggio ai suoi antenati e familiari. Iniziò quindi a realizzare le prime 48 e il lavoro fu poi portato a termine nel corso degli anni da altri monaci. Il gruppo fu completato in 50 anni e, poiché vi misero mano vari monaci, le statue risentono dei sentimenti di chi le ha scolpite. Alcune raffigurano vari Buddha (Shaka, Amida, Jiso, etc.), altre hanno espressioni diverse, a volte poco chiare o molto intense e caricaturali: come pratica psico-spirituale ci si può proporrre di individuare quella che rappresenta meglio la nostra personalità o i nostri antenati.





domenica 11 marzo 2012

One year ago…

Un anno fa terremoto e tsunami colpivano il Giappone con inusitata violenza e Fukushima (dal nome paradossale di “isola della buona fortuna”) è stata il simbolo e la sintesi del disastro, richiamandoci tutti alla consapevolezza della umana fragilità e dei pericoli nucleari.
Si è parlato e scritto molto in Occidente, dopo la catastrofe, sul comportamento della popolazione giapponese, in termini di stupore, poi di ammirazione e, infine, di incomprensione. Per questo ho letto con interesse il libro Ce n'est pas un hasard—Chronique japonaise (Paris, P.O.L. éditeur, 2011) che ci permette di ascoltare, attraverso questo diario di Ryoko Sekiguchi, scrittrice e giornalista, che vive tra Parigi e Tokyo, una voce che ci comunica un vissuto della catastrofe “dall’interno” della cosiddetta mentalità giapponese.  
Lungi dall’assumere l’atteggiamento “accomodante” (come molti nostrani propagandisti di una mentalità pseudo-orientale) del “tutto va bene”, “tutto si armonizza nell’unità del reale”, Ryoko esprime con molta chiarezza la differenza tra eventi naturali che accadono senza sofferenza ed eventi che coinvolgono esseri umani: «l’esplosione di un vulcano, delle onde gigantesche, questi movimenti della natura se si realizzano da soli possono rappresentare delle belle immagini. Questo genere di fenomeni si ammira in fotografia. È perché tra le onde si vedono case e corpi che questo diviene spaventoso». Come osserva il regista Takeshi Kitano, di fronte a un avvenimento che ha causato ventimila morti, bisogna ricordare che si tratta «di ventimila avvenimenti che hanno causato ogni volta una morte, poiché la tristezza  è sempre individuale». E l’Autrice aggiunge: «Mi sento violentata. Come occorre un tempo infinito alla vittima di uno stupro per non continuare a riproiettarsi lo stesso film [dell’evento], per poter pensare ad altro, io sento questo paese violentato — o piuttosto no, poiché non è stato aggredito da un individuo o da un paese nemico; si è aggredito da solo e gli abitanti del Paese sono stati violentati con lui».
Il carattere ineluttabile delle catastrofi comporta conseguenze implacabili sulla realtà del Paese, il che fa riflettere sulla durezza della vita in certe regioni e sulla indifferenza della Natura verso la sofferenza delle proprie creature. In queste condizioni «ci si abitua agli incidenti, alle urgenze, alle reazioni tardive dei responsabili», perché, come osserva il poeta Kiryû Minashita, «l’abitudine, è la cosa più forte». Le catastrofi naturali o umane si producono innumerevoli nel mondo e quando ci si interroga su come si vive dopo una catastrofe in realtà «si deve ricordare che si è alla vigilia di un’altra catastrofe futura, dunque [per uno scrittore] che bisogna egualmente interrogarsi su ciò che si può scrivere prima o tra due catastrofi, che è lo stato permanente nel quale noi viviamo», con la presenza, dunque, di qualcosa che ancora non esiste ma ci sarà: e non sarà “per caso” (ecco la giustificazione del titolo del libro).
Per la popolazione giapponese non si tratta tanto di una differenza di mentalità (come spesso diciamo in Occidente) quanto, secondo l'Autrice, di un’«abitudine acquisita, un apprendimento molto pratico che tutti i giapponesi hanno fatto. Perché sappiamo bene che le catastrofi naturali si producono. Questo non ha niente di fatalistico: è un fatto acquisito. Lo si sa bene, lo si impara a scuola. Si è addestrati a reagire in caso di terremoto». E «questo fa parte del quotidiano, nessuno ne è risparmiato. Ed è il perché si è presi dal sentimento che “quel che doveva accadere è accaduto”, che “avrebbe potuto essere per me”, che “è il mio turno”. Da qui quell’impressione non di rassegnazione, ma di essere sempre coinvolti. Da qui anche, senza dubbio, la solidarietà che prevale in ogni catastrofe».
Ma non è tutto: di fronte all’ossimoro dell’ordinarietà del catastrofico, i giapponesi mostrano, infatti, di sapere «che si potrà ricominciare a vivere, anche se si parte da zero, che non è la fine di tutto. Tranne che per coloro la cui esistenza si è interrotta, è stata spezzata bruscamente».