giovedì 27 novembre 2008

Come eravamo

Qualche anno fa, alla Villette, assistevo a una proiezione di un film sulla vita delle propolazioni “primitive”. La proiezione avveniva nella sala della Géode, su uno schemo gigantesco, emisferico e avvolgente, capace di suscitare la sensazione di essere quasi dentro la scena proiettata. Ne risultava, almeno per me, un’impressione fortemente opprimente e destabilizzante sul tema: “da dove siamo venuti; avrei potuto essere lì e allora anch’io” e, insieme, di gratitudine verso i nostri progenitori “eroici” che hanno aperto la strada alla civiltà di cui godiamo le ricchezze e le raffinatezze.

In questo spirito di “risarcimento” verso culture che sono ancora quello che siamo stati, nel giugno 2006, inaugurando il Musée du quai Branly di antropologia, l’allora Presidente della Repubblica Jacques Chirac diceva che “Il s'agissait pour la France de rendre l'hommage qui leur est dû à des peuples auxquels, au fil des âges, l'histoire a trop souvent fait violence. Peuples brutalisés, exterminés par des conquérants avides et brutaux. Peuples humiliés et méprisés, auxquels on allait jusqu'à dénier qu'ils eussent une histoire. Peuples aujourd'hui encore souvent marginalisés, fragilisés, menacés par l'avancée inexorable de la modernité. Peuples qui veulent néanmoins voir leur dignité restaurée et reconnue”.

In queste settimane il Museo ospita una mostra dedicata a una di queste culture dimenticate o trascurate, quella che “consentirà di scoprire, per la prima volta in Europa, l’insieme delle arti eschimesi, privilegiando un percorso tutt’intorno alla calotta glaciale, dalla Siberia all’Alaska” .

Questa mostra può essere anche l’occasione per ricordare e vedere/rivedere il film Nanuk l’eschimese, che nel 1922 Robert Flaherty girò per conto di una compagnia francese che commerciava in pellicce. Flaherty, che aveva lasciato la scuola mineraria del Michigan e stava compiendo delle spedizioni nel Grande Nord, sentì il bisogno di documentare attraverso la vita della famiglia del cacciatore Nanuk, quella degli abitanti della baia di Hudson (Canada). Con questo capolavoro di antropologia e insieme di poesia (film di culto per tutti i frequentatori di cineclub degli anni passati, ora disponibile in DVD) nasceva il genere documentaristico, il cinema-verità, con la realistica celebrazione di un modo di vita spontaneo, semplice e in armonia con uno degli ambienti naturali più avversi. Nanuk, che qualche anno dopo sarebbe morto di fame in una spedizione di caccia sfortunata, ci ha lasciato, insieme ai suoi familiari, sorrisi penetranti e indifesi, e molte occasioni di riflessione sulla vita: impossibile dimenticarli.

domenica 23 novembre 2008

Cariatidi#4



Fontana delle Cariatidi, opera dello scultore Attilio Selva (1928), in piazza dei Quiriti, nel quartiere Prati a Roma. Foto RV

Pagare il debito


報恩
Un concetto importante per comprendere lo spirito giapponese e l’unità culturale del popolo del Sol Levante è quello della Lealtà-pietà filiale-riconoscenza verso l’imperatore, i genitori, gli esseri senzienti e verso i tre gioielli buddhisti (Buddha, Dhatma e Sangha): avendo ricevuto inestimabili doni si è contratto un debito di riconoscenza che andrà ripagato nel corso della vita. Il termine hoon, impiegato appunto per esprimere la restituzione della gentilezza o il pagamento del debito è scritto con un carattere composto, in cui sono presenti, a sn, la buona fortuna (sfortuna rovescita = felicità) e una persona colpevole, a cui dare la giusta “ricompensa”; a dx, la misericordia che si prova verso una persona costretta, quindi, gentilezza: dunque ricambiare la gentilezza, pagare il debito.

Hoon mi ricorda il dovere del pagamento del debito che tutti abbiamo contratto nel ricevere i doni di cultura, lingua, arte, che hanno formato la nostra personalità, attraverso la “restituzione” da effettuare con l’impegno/dovere/piacere dello studio. Ci sono, infatti: il debito contratto con la “scuola” (colmando le lacune determinatesi nei percosi formativi, quello che ignoriamo o abbiamo dimenticato e dovremmo sapere in forza dei “titoli” conseguiti: “Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola”, diceva Longanesi) e il debito più sottile, elevato, spirituale, contratto con gli autori, le persone e le istituzioni che quei beni hanno creato, offerto, trasmesso, e che ci hanno nutrito, sostenuto, raddrizzato. Con lo studio possiamo contribuire alla vita dello spirito, lavorando contro la dispersione dei tesori immateriali e ridando voce ai morti,  nella perenne attualità della libera vita dello spirito, l’unica forma di immortalità o almeno di persitenza che ci è concessa: studio come preghiera, liturgia, celebrazione, riparazione per i peccati dei rumori e degli orrori dell’oblio e dell’ignoranza.

mercoledì 19 novembre 2008

Il mito dell’atemporalità

M. Eliade nelle sue indagini di fenomenologia della religione ha affermato che l’uomo religioso è dominato da un particolare terrore, il “terrore della storia”. È questo il vissuto che origina dal confronto col dolore, le calamità, la morte, che si dispiegano nel tempo e di fronte al quale nascono le domande religiose. Nell’homo religiosus è presente, infatti, una ribellione contro le iniquità e l’incompletezza dell’esistenza, che spinge a operare per controllare, circoscrivere e superare il negativo mediante un continuo riferimento a una realtà assoluta, radicalmente diversa da “questo” mondo, “totalmente altra” proprio perché è un Tutto non-duale e quindi diverso da ogni aspetto del mondo ordinario, diviso in frammenti e dominato dal dualismo. La storia è sventura e occorre fuggire e trascendere il “mondo”: poiché nel tempo avviene l’incontro dell’uomo con il dolore, nasce la volontà di abolire il tempo e la storia per riscoprire il territorio del totalmente altro, il mondo della “realtà” di fronte al mondo irreale ed effimero (quello che in Oriente viene chiamato il samsara), pieno di contraddizioni e di sofferenze. I miti delle origini, dell’età dell’oro, del peccato intendono narrarci la caduta nel tempo e le sofferenze di questo essere “che porta in sé e su di sé qualcosa di irreale e di non terrestre, che si svela nelle pause della sua febbrilità” (Cioran): ecco la nostalgia del Paradiso, il desiderio di Assoluto, l’esigenza del ritorno.

Ma abbastanza inedita e singolare, perché fatta da un filosofo tacciato di pessimismo, E. M. Cioran (come Eliade anch’egli romeno in esislio), è la riflessione su un’altra “caduta”. Dice Cioran: “Dopo aver sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dove è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta e di questo adattamento si chiama Storia. Ma ecco che lo minaccia un’altra caduta, di cui è ancora difficile valutare l’entità. Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla Storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione […]. Imminente o no, questa caduta è possibile, anzi inevitabile […]. Allora, avendo perduto finanche il ricordo della vera eternità, della sua prima felicità, egli volgerà lo sguardo altrove, verso l’universo temporale, verso quel secondo paradiso da cui sarà stato bandito”: sarà la costrizione, il decadimento del corpo, la vecchiaia e la previsione della morte, vera uscita dal tempo, con la sue nostalgie non più dell’Assoluto ma del relativo, di quelle (forse poche) “rose della vita” che tuttavia a noi è dato incontrare solo nel tempo e nella Storia.

Dobbiamo essere grati a Jung che, in occasione di un viaggio in India, di fronte all'idea del dissolvimento dell'io e della natura, ci ha lasciato una nota di grande sincerità e dalla quale possiamo ricavare un orientamento verso un’altra possibilità di significato: “La meta dell’indiano non è lo stato di perfezione morale, ma il nirvana. Desidera liberarsi dalla natura, e perseguendo questo scopo cerca nella meditazione l’assenza di immagini e il vuoto. Io, invece, desidero permanere in uno stato di viva contemplazione della natura e delle immagini psichiche, non voglio essere liberato dagli uomini né da me stesso né dalla natura: perché tutte queste cose mi sembrano indescrivibili meraviglie. La natura, l’anima, la vita, mi appaiono come la divinità dispiegata: e cosa potrei desiderare di più? Secondo me il significato supremo dell’Essere può consistere solo nel fatto che esso è e non che non è o non è più”. 

sabato 15 novembre 2008

epitaffio

André Scarron (1610-60), poeta libertino, colto e divertente, paralizzato e afflitto fin da giovane da dolori  artritici, lasciò un epitaffio degno della sua ironia:

Celui qui cy maintenant dort

Fit plus de pitié que d'envie,

Et souffrit mille fois la mort

Avant que de perdre la vie.

Passant, ne fais ici de bruit

Garde bien que tu ne l'éveilles :

Car voici la première nuit

Que le pauvre Scarron sommeille

[… passante, non fare rumore, attento a non svegliarlo: perché è la prima notte che al povero Scarron sia dato sonnecchiare].

venerdì 14 novembre 2008

Sulla pazienza#2

Nella omelia pronunciata (in occasione dell’inizio del ministero petrino del vescono di Roma) il 24 04 05 Benedetto XVI ha parlato della pazienza di Dio: “Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini”.

Si parva licet componere magnis queste parole mi fanno riflettere sulla pazienza del (buon) terapeuta che, incoraggiando, fiduciosamente attende il cambiamento come esito del suo intervento.

giovedì 13 novembre 2008

Westner-yana?

Il buddhismo, come noto, una delle grandi religioni universali dell’umanità, nato in India e largamente diffuso in Asia, è oggi presente come significativa minoranza religiosa in Occidente e nel nostro Paese. Si tratta, tuttavia, ancora quelle di un buddhismo d’importazione (con appartenenze e denominazioni che sono proprie delle scuole di provenienza, con liturgie, manifestazioni, modi di rappresentarsi adeguati a contesti culturali altri) e non di un buddhismo occidentale che possa rispondere ai quesiti relativi alla possibilità di inculturazione e — non più emarginato come uno dei tanti gruppi esotici o new age — essere in grado di offrire risposte alle attuali esigenze di spiritualità presenti in Occidente. È ancora allo stato nascente un lavoro di inculturazione che possa essere paragonabile a quello svolto, in modo incredibilmente fecondo, in India, in Cina, in Giappone e che ha consentito — come è stato detto — che esso potesse svilupparsi e maturarsi, ricevendone, rispettivamente, filosofia, pratica, sensibilità. “Non c’è un unico buddhismo”, scrive il maestro vietnamita Thich Nath Hanh, “gli insegnamenti del buddhismo sono molteplici. Quando il buddhismo viene introdotto in una nuova cultura, questa ne produce invariabilmente una forma nuova […]. Sono convinto che l’incontro tra il buddhismo e l’Occidente sarà davvero interessante, produrrà qualcosa di molto importante”. Tuttavia, trattandosi di una tradizione che, da un lato, si è sviluppata lontana da Eschilo e Platone, dal diritto romano e dal cristianesimo, da Pico della Mirandola (De hominis dignitate) e da Cartesio (Cogito), dai “lumi” e dal romanticismo, da Nietzsche e da Freud, ossia dalle radici identitarie della nostra civiltà, dall’altro, si è proposta mete e obiettivi spesso antitetici a quelli della cultura occidentale, le difficoltà non sono trascurabili. Ciò nonostante, da più parti l’esigenza di costruire una via occidentale al buddhismo viene avanzata: da studiosi, da esponenti di altre religioni, da laici (assai meno da scuole e centri buddhisti). Due esempi: il volume di Frédéric Lénoir (studioso, giornalista, direttore della rivista Le Monde des religions), La rencontre du bouddhisme et de l’Occidente, Paris, Albin Michel, 1999), che esamina questo incontro secondo il suo svolgimento storico e nelle sue dimensioni sociali attuali, e l’articolo di p. Michael Fuss (gesuita, docente all’Università gregoriana, autore dell’importante volume Buddhavacana and Dei Verbum, Leiden, Brill, 1991 sul Sutra del Loto), The Emerging Euroyana, in Dharma World, may-june 2005, sulla presenza del buddhismo in Occidente e il dialogo con la Chiesa cattolica.
Le religioni sono interpretabili come dei paradigmi linguistici, dotati di un lessico (un sistema di simboli condivisi, attinti da una determinata cultura), di una grammatica (l’insieme dei concetti, delle pratiche e dei valori), di una sintassi (l’articolazione tra questi concetti e le modalità di dialogo con altri linguaggi) e di una retorica (i modi del comunicare e del persuadere). Il buddhismo è uno di questi paradigmi e, per effettuarne un valido confronto coi princìpi e le strutture sociali proprie della cultura occidentale, si rende necessario un approfondimento dei fondamenti della dottrina e della pedagogia spirituale buddhiste, al fine di svincolarli da interpretazioni legate a tradizioni culturali arcaiche o da volgarizzazioni banalizzanti. Il peggiore dei tradimenti che possa essere operato dell’insegnamento dell’Illuminato riteniamo sia, infatti, quello rappresentato dalla tendenza, oggi assai manifesta e diffusa, della sua trasformazione in ideologia. Di fronte a forme di militanza dottrinaristiche e unilaterali, mistificanti e manipolatorie, per tentare di offrire un contributo a questa “europeizzazione” del buddhismo va riscoperto tutto il valore di una riflessione rispettosa e lucida, collocandosi in una posizione “di soglia”, nella convinzione che, come si espresse Sainte-Beuve, spesso “dobbiamo rimanere sulla soglia. Essere lì significa già tanto”, evitando di fare come gli stolti di cui il poeta A. Pope diceva che “si affollano là dove gli angeli esitano a entrare”: la domanda sarà, pertanto, da privilegiare rispetto alla risposta, il metodo al sistema, il processo all’ente. Una riformulazione del Buddhadharma adeguata al nostro attuale contesto culturale occidentale, sviluppato, complesso, postmoderno… riteniamo non possa realizzarsi senza fare i conti con la spiritualità cristiana, con la scienza, lo spirito critico e comparativo, la democrazia e, soprattutto, senza riconoscere l’assunto etico generale del valore della centralità della persona ossia della promozione, difesa e rispetto del soggetto, dei sui diritti-doveri inviolabili e non negoziabili (diritti dell’uomo), della sua automia illuminata.

Cariatidi#3

Domanda: – Perché le Cariatidi?
– Per parlare con quella costruzione; perché cerco qualcosa che mi ricordi...; perché sono lì in attesa di essere fotografate...

p.za S. Bernardo (fotoRV)

domenica 9 novembre 2008

pratica della pazienza#1/La rivolta degli oggetti

Guy de Maupassant nella novella Chissà!? descrive la incredibile avventura del protagonista, “un solitario, un sognatore”, che viveva nella sua casa, circondato da cose, ninnoli, mobili, ai quali era affezionato tanto da sentirli importanti come persone e che una sera mettono in atto una inspiegabile rivolta e “decidono” di andarsene dalla casa in cui erano “ospiti”. Vi torneranno poi, altrettanto misteriosamente, ma il protagonista essendo rimasto sconvolto per l’accaduto, dopo un viaggio, decide di farsi ricoverare in una casa di cura, pensando di poter essere “lo zimbello d’una bizzarra visione. In fin dei conti, chissa!?”. La letteratura e la musica annoverano altre situazioni simili (basti pensare a Pinocchio, a L’enfant et les sortilèges…), a testimonianza di un rapporto a volte inquietante col mondo degli oggetti, che talora appaiono come animati da una loro vita segreta e indipendente. Ma anche senza arrivare a tanto, è esperienza quotidiana che gli oggetti “resistano” ai nostri voleri, “disubbidiscano” e suscitino per questo reazioni rabbiose: nodi che non si sciolgono, tazze che cadono e vanno in frantumi, schizzi che rovinano i vestiti, computer che cancellano i nostri dati, abiti che si impigliano e si lacerano… e allora quante volte abbiamo visto qualcuno, in preda alla rabbia, “completare” l’opera predendo a calci l’automobile che lo ha lasciato a terra, finendo di strappare un vestito o calpestando quanto resta di un paio di occhiali rotti...: reazioni d’ira e d’impazienza. L’ira è il contrario della pazienza, una virtù considerata minore, non essendo annoverata tra le fondamentali (Platone, Aristotele) o “cardinali” (Sant’Ambrogio), quelle che costituiscono i cardini del comportamento morale: la prudenza e la giustizia (virtù dell’intelligenza), la temperanza e la fortezza o coraggio (virtù della volontà). Anche l’iconografia della pazienza è scarsa, a fronte di quella delle virtù cardinali. Oggi parlare di virtù non è molto di moda (si preferisce parlare di vizi, più suscettibili di analisi psicologiche e sociali), ricorda superate (?) etiche normative e obsoleti catechismi, anche se non mancano coraggiose eccezioni, come le analisi di V. Jankélévitch o di S. Natoli e, quasi incredibile, la Séance publique annuelle che l’Académie française dedica a un “Discorso sulla virtù”, tenuto da uno degli accademici, sempre con profondità, finezza e, a volte, francese ironia.
Tornando agli oggetti, dovremmo realizzare che essi, quando sembrano “resistere” alla nostra volontà, in realtà osservano con umile intelligenza le leggi della fisica che ben “conoscono”: la gravità, l’adesione, le resistenze, gli attriti, la termologia… mentre noi, affrettati, ignoranti e superbi protestiamo scioccamente al minimo intoppo. Allora, una semplice modalità per praticare la pazienza e prevenire una sterile rabbia potrebbe essere proprio questa: controllare i gesti, osservare la situazione con calma, accettare una diversa scansione del tempo, imparare ad aspettare, cercare di capire meglio il problema, adoperare gli strumenti adatti e, soprattutto, sforzarsi per mettersi in accordo e non in antagonismo con gli eventi: se non altro, se ne guadagnerà in eleganza!
Sul complesso rapporto col mondo degli oggetti, chi volesse riflettere e “saperne di più” potrebbe leggere il classico Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, tr. it., Milano, Bompiani, 1972 (che esamina gli oggetti per  collocarli in un sistema di segni) nonché il saggio di Edward Tenner, Perché le cose si ribellano: le conseguenze inattese (e spiacevoli) della tecnologia, tr. it., Milano, Rizzoli, 2001. Consigli pratici sono quelli che offre Mary Lambert, Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa: come fare ordine in casa e nella vita, tr. it., Milano, Corbaccio, 2002, mentre Carla Pasquinelli ci offre un saggio di antropologia del quotidiano in La vertigine dell’ordine: il rapporto tra Sé e la casa, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004. Infine, vari saggi sono compresi nel volume a cura di Franca Franchi, L’immaginario degli oggetti, Milano, Bruno Mondadori, 2007.