mercoledì 25 febbraio 2015

Il Capo dello Stato prende il tram...


Il Capo dello Stato prende il tram, il papa esibisce scarpacce, il sindaco Marino va in bicicletta: tutti all’insegna del “sono uno di voi”. Bene, si cerca di eliminare ogni “segno” di diversità, di superiorità, di aristocrazia. Se riflettiamo, il discorso implicito è che non abbiamo più nessuna fiducia che le “autorità” meritino ammirazione e siano degne di quelli che vengono chiamati “privilegi”: già è molto che non si taglino teste a sovrani o altri personaggi altolocati. Ma questo non è indolore: tutti sanno che i Re di Francia, gli imperatori del Giappone, i papi del passato erano uomini con le loro debolezze, i bisogni fisiologici, le malattie, e proprio per questo quello che è/era importante è il riuscire ad andare al di là di questo livello, con una costruzione sociale capace di rendere nascite, morti, matrimoni, funerali, abitazioni, abbigliamento, quotidianità, “sacre rappresentazioni”, cioè modelli di raggiunta perfezione, in grado di soddisfare un bisogno di completezza ed eccellenza che i “comuni” mortali non possono individualmente raggiungere, ma possono insieme contribuire a costruire. Il bisogno di pienezza è un bisogno autentico come quello di eguaglianza e giustizia e il suo occultamento non andrebbe presentato come una conquista (nella finta ammirazione di una ipotetica catto-sobrietà da parte di lieti gazzettieri), ma come una grave perdita, ancorché motivata dalla crisi della rappresentanza e del valore delle élite che caratterizza il nostro tempo. Vorrei ricordare, a questo proposito, le parole insospettabili di A. Camus che diceva «Ogni società si fonda sull’aristocrazia, perché essa, se è tale, è esigenza nei confronti di sé stessa, e senza questa esigenza ogni società muore».

venerdì 20 febbraio 2015

Che brutta caduta, cara Emma...

Giorni or sono, Emma Bonino ha “concesso” una intervista a la Repubblica, dopo l’annuncio della sua malattia fatta in diretta su Radio Radicale. Le sue dichiarazioni sono state approvate e condivise da molti, ma — al di là dell’apprezzamento per l’impegno della Bonino in tante battaglie “liberali” condotte negli anni passati — debbo dire che non mi sento nel coro osannate. E non perché, come qualcuno ha osservato, si tratta di uno dei tanti episodi di quel presenzialismo esibizionistico che trasforma in evento qualunque accadimento riguardi qualcuno dei Vip o della “casta”, ma per il modo in cui Lei ha parlato del suo rapporto con la malattia che l’ha colpita. La “bestiola” la chiama lei, oppure lo “stronzo”. Rispondendo  all’intervistatore dice: «Mi è costato pensarle [le parole], metterle in fila una dopo l’altra, mostrare una mia fragilità intima. Io sono una piemontese riservata anche sulle disgrazie, da sempre provo a vivere sostenendo che il personale è politico ma credo anche che il privato non sia pubblico. Può sembrare uno scioglilingua ma spero si capisca. Ero emozionata ... Alla fine avere fatto quella confessione mi ha aiutata. Molti malati mi hanno scritto: grazie, ha aiutato anche me. Avere la consapevolezza che noi non siamo il nostro male, che siamo altro, che dobbiamo sforzarci di continuare a essere le stesse identiche persone di prima costituisce la nostra speranza e la nostra fede laica. So che mi devo occupare di questo stronzo e basta. Io o lui, vedremo chi la spunta».

Quanta volgarità, rabbia, arroganza in queste parole! «La speranza e la nostra fede laica» consisterebbe in una rimozione, un allontanamento dalla malattia, mettendo in atto un dualismo tra noi e le vicissitudini del corpo, dualismo che potrebbe giustificarsi se si accompagnasse a una visione platonica di un corpo prigione e di un’anima prigioniera che risplenderà proprio uscendo dalla reclusione corporea: non in una visione “laica” della vita. Purtroppo, si deve ancora una volta verificare come l’avidya (l’ignoranza della natura profonda della realtà) ci faccia dimenticare che siamo essenziati di impermanenza, di insoddisfacenza dolorosa, di attaccamenti e avversioni. La vita è perennemente in un equilibrio dinamico, sostenibile per un certo tempo e poi non più. A quel punto i processi di disgregazioni prevalgono e la nostra stessa personalità viene attaccata: le nostre funzioni fondamentali (nutrizione, motricità, sessualità) declinano e, a seconda dei casi e delle “terapie” messe in atto, dolore, vomito, cefalea, vertigini, deficit cognitivi avviano a una fine più o meno sofferta. La natura, che pur produce il miracolo della coscienza, sembra avere bisogno di rinnovare continuamente i singoli portatori di consapevolezza per “rimediare” così alla loro intrinseca debolezza: altro che allontanamento dualistico e «riempirsi di futuro» con un calendario sempre più fitto di appuntamenti! La narrazione della nostra sofferenza è la nostra ultima meravigliosa difesa (ricordiamo M. Duras: «Andiamo a vedere l’orrore, la morte» e «sono sola… ho paura», e: «Va bene, ho trovato le parole, bisogna chiudere la pagina»). Poi, da soggetti narranti saremo, con un tragico anacoluto, soggetti narrati. «Io o lui, vedremo chi la spunta», dice E. B. Un “laico” un po’ più consapevole, meno arrogante e più ironico, W. Churcill, aveva dato una sua “risposta”: «La vita è una meravigliosa avventura. Peccato che non sia mai a lieto fine!» Alla “spiritualità laica” alla Bonino, posso solo dire: “No, grazie!”

martedì 10 febbraio 2015

Cascami baumaniani

Da quando Zygmunt Bauman ha impiegato con successo la metafora della “liquidità” utilizzandola nelle sue analisi di vari aspetti della cultura in cui viviamo (da cui espressioni come modernità liquida, vita liquida, relazioni liquide...), gli editori (non diamo la “colpa” all’autore...) non esitano a pubblicare tutto quanto porti la sua firma, incuranti del valore del testo.
È il caso di Conversazioni  su Dio e l’uomo, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 2014, in cui il sociologo dialoga con Stanislaw Obirex, teologo ed ex-gesuita. Tenendosi in una postura ambigua nei confronti del sacro e della Totalità («oggi me ne sto all’esterno, ma osservo con enorme curiosità quello che accade nel mondo della religione, specialmente come essa agisce nella sfera pubblica») i due discutono dei danni prodotti dal monoteismo, con una certa nostalgia di un più tollerante (ipotetico) politeismo. Non sarebbe stato il caso di esaminare anche una “religione” come il buddhismo, lontano sia dal mono- che dal poli-teismo? Non viene sollevato nessun lembo del mistero dell’esistenza (l’uomo ha guastato il mondo o ha il compito di riparare il mondo guasto? È socio o antagonista del creatore?), si criticano fondamentalismi e appartenenze rimanendo sul generico, si auspica un ripensamento della storia e, in particolare, della storia delle religioni: prego, fate pure, signori, aspetteremo i risultati.
Le cose non vanno meglio con Le sorgenti del male, tr. it. Trento, Edizioni Erikson, 2013 (il titolo originale era nientemeno A natural Histoty of Evil, 2011), in cui per indagare sull’unde malum, dopo aver criticato alcune delle più note teorizzazioni del Novecento, vengono usate un po’ di banalità psicologiche. Nessun pregio? Viene almeno ricordato il libro di Anatole France, Gli dèi hanno sete, opera ingiustamente dimenticata.

In conclusione, soldi e tempo buttati.

martedì 3 febbraio 2015

Zweig e la Menorah perduta

Stefan Zweig (1881-1942), scrittore di romanzi, saggi, biografie, è autore dell’indimenticabile Il mondo di ieri; le sue opere hanno ricevuto numerosi adattamenti cinematografici, teatrali e televisivi, l’ultimo dei quali (2013) è il pregevole Una promessa, di Patrice Leconte,  tratto dal romanzo Viaggio nel passato. Ebreo, antinazista, Zweigh è stato un intellettuale europeo ante litteram, ma che l’Europa non ha saputo proteggere: libri al rogo, leggi razziali, fughe, esilio in Brasile, dove, nostalgico testimone di un mondo inghiottito, morì suicida nel 1942.
Il romanzo breve Il candelabro sepolto è del 1937 ed ha per soggetto una leggenda riguardante la Menorah, il candelabro d’oro a sette bracci, che era collocato nel Tempio di Gerusalemme ed è il più antico simbolo ebraico, oggi presente nello stemma dello Stato di Israele. Con la distruzione del Tempio nel 70 d. C. operata dall’imperatore Tito, la Menorah fu portata a Roma  come trofeo per poi scomparire: da qui le numerose leggende, su cui ci intrattiene la dotta postfazione di Fabio Isman contenuta nella attuale edizione Skira.
Il racconto è ricco di profonde riflessioni spirituali e pieno di amore per il popolo ebraico, amore che viene trasmesso anche a noi lettori che viviamo in un’altra epoca e spesso sottovalutiamo o dimentichiamo cosa significhi l’esistenza dello Stato di Israele per il popolo ebraico (il quale oggi si prepara ad accogliere, ed è una vergogna per l’Europa, 120.000 ebrei che, in cerca di sicurezza, forse lasceranno la Francia!).

In questi giorni di dolorose ferite, in cui «cadono fiori su fiori dall’albero della tristezza» (Hesse), Il candelabro sepolto è una confortante lettura che insegna cosa può essere un’attesa umile, paziente e illuminata. Ricordiamo le parole di W. Benjamin: «per gli ebrei, il futuro non era un tempo omogeneo e vuoto. In esso, ogni secondo era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia».