domenica 7 giugno 2009

Mezzi abili/manipolazione

Nel n. 30 di Dharma (ott. 2008) è stato pubblicato, col titolo Non nascita, non morte, il testo di un discorso del noto Maestro Thich Nhat Hanh. Come facilmente si comprende, il discorso si riferisce al tema della morte ed è svolto con un intento consolatorio (al pari di quanto fatto in analoghi scritti, quali, ad es., il vol. Il n’y a ni mort ni peur, Parigi, La Table Ronde, 2003, dello stesso autore). Diretti all’“uomo moderno” questi insegnamenti suscitano, in realtà, molti interrogativi sul tipo di didattica impiegata (con argomentazioni, metafore, cambiamenti di piano...) e sul confine tra i cosiddetti “mezzi abili”, la divulgazione e la manipolazione.

Accenno soltanto a qualche aspetto. Il Maestro entra subito con molta semplicità (o spregiudicatezza?) in una problematica molto controversa, come quella del divenire, del possibile e del necessario, che ha una storia millenaria e che viene, invece, data per risolta usando la magica parola “manifestazione”. Quando accendiamo un fiammifero non siamo noi che accendiamo la fiamma, egli dice, ma piuttosto la aiutiamo a manifestarsi. Ci sarebbe da domandarsi anche qualcosa sul manifestarsi della nostra mano che accende il fiammifero (e via all’infinito!), ma la tesi è che la fiamma si manifesta o non si manifesta; prima che apparisse non si può dire che non esistesse e dopo la scomparsa non si può dire che non esista più. Tutto è, dunque, già lì (dove?) in una sorta di presepio con tutte le figurine, che attendono solo che si accenda la luce per comparire. Poi, se tutto è preformato e predeterminato, che ne è di libertà e responabilità? Maestro, che ne facciamo degli Eleati, di Diodoro Crono, di Aristotele e di Leibniz... che tanto si sono affaticati per distinguere tra potenza e atto? Legittimo lasciarli da parte, ma non usiamo allora certi argomenti per convincerci che siamo immortali, nientemeno al pari di Gesù Cristo (i cattolici tremino per queste incursioni nella teologia dell’incarnazione!), tutti, come Lui, dotati della natura di non nascita e non morte (su questa identità con Cristo potremmo, tuttavia, scomodare Avicenna per distinguere tra l’essere necessario e l’essere possibile, tra ciò che deriva il suo essere da sé — Dio — e ciò che lo deriva da altro — le cose).

Passiamo oltre, perché tutto dovrebbe servire a consolarci delle perdite, che perdite non sarebbero poiché nulla si perde, ma tutto si trasforma (e qui si passa da Parmenide ad Eraclito!), come diceva, viene ricordato, anche Lavoisier: ma, per favore, non scherziamo con la termodinamica, che si riferisce all’energia e non alla persistenza degli oggetti. Perché qui si presenta un’altra trappola nella quale vorremmo evitare si “manifestasse” un “aiuto” a farci cadere: quella che viene dall’ignorare o confondere i diversi livelli di descrizione della realtà. Un foglio di carta brucia; si annulla? «No, questo non è niente, si è trasformato in qualcosa di diverso, prima in fumo che è salito in cielo e ha raggiunto una nuvoletta […], ma si è anche traformato in calore», etc. Di fronte alla tragicità dell’esistenza si afferma, dunque, che tutto è a posto e niente è perduto. Ma quel foglio era tante cose diverse! Innanzitutto, il testo o il disegno che poteva contenere, poi la sua struttura chimica e le proprietà fisiche, per cui quando si parla di “vera natura” a cosa ci ci si vuole riferire? Alle proprietà più “basse”, trascurando quelle più “elevate”? Ecco che il riduzionismo spunta anche dove meno uno se lo aspetterebbe! Benché gli atomi di carbonio o di idrogeno, etc. si trasferiscano da qualche altra parte quando il foglio brucia, ciò che va perso sono le dimensioni estetiche o funzionali, proprio quelle che più ci stavano a cuore. Così per le nostre vite: di fronte alla prospettiva della perdita della personalità e della coscienza, non proverei nessuna consolazione se qualcuno mi dicesse che l’acqua, il carbonio e l’azoto del mio corpo, dopo la morte, contribuiranno alla nascita (pardon: alla manifestazione!) di una bella signora olandese! Anzi, avvertirei una profonda mancanza di comprensione e di compassione in chi mi facesse un simile discorso!

Infine, non dobbiamo “identificarci”: «Questi occhi non sono me […], questo corpo non sono io […]»: certo, sono un’altra cosa, una cosa che è più di queste altre... Mai sentito parlare del principio di emergenza, introdotto all’inizio del secolo scorso, per cui affermiamo che un insieme ha proprietà che non possono ricondursi a quelle delle parti? Un organismo ha proprietà che non sono la somma delle proprietà delle cellule, queste hanno proprietà che non sono quelle delle molecole componenti e via di seguito: proprio perché non identifichiamo il tutto con le parti, non siamo contenti o indifferenti se crolla una cattedrale o brucia un dipinto, e piangiamo quando qualcuno muore.

Ormai ci sono molti studi su “maghi” e illusionisti che sanno ben usare i limiti di funzionamento del nostro sistema nervoso e delle nostre capacità di processare le informazioni. Spostare l’attenzione parlando d’altro può essere uno dei più semplici ed efficaci strumenti di manipolazione. Dunque, riflettiamo: sono questi gli insegnamenti che ci meritiamo? Nel Kalama sutta è il Buddha stesso a suggerirci una costante vigilanza.

venerdì 5 giugno 2009

Schermaglie#8/Der Letzte Mann

Der Letzte Mann (L’ultimo uomo/L’ultima risata), di F. W. Murnau, 1924, è la storia del portiere di un grande albergo, che — per ragioni di età — viene “degradato” a sorvegliante dei bagni. La perdita di ruolo e della divisa che gli assicuravano una condizione di rispettabilità nell’ambiente di lavoro e nel misero vicinato rendono il protagonista l’“ultimo degli uomini” e la sua vicenda simbolo del naufragio esistenziale. Una certa critica, “di sinistra”, col suo riduzionismo sociale ha voluto vedere nella livrea del portiere una metafora del militarismo e nel microcosmo della vita dell’hôtel la rappresentazione della spietatezza della società capitalistica. Ma la denuncia è molto più dura e diviene amara rappresentazione del dramma dell’esistenza, in cui il riconoscimento e la considerazione sono segni di affermazione, e l’affermazione condizione necessaria per il soddisfacimento dei bisogni. Tuttavia, il successo di uno porta all’insuccesso dell’altro, i poveri sono meschini come i “potenti” e anche invidiosi, non c’è posto per nessuna speranza di eliminazione della condizione esistenziale di disuguaglianza (come d’altra parte hanno mostrato tragicamente i movimenti egualitari finiti in realizzazioni storiche repressive esasperate e violente). Tutto questo è dato con una maestria delle possibilità espressive del cinema muto come raramente si è manifestata: gli atteggiamenti e le emozioni sono raccontate con immagini deformate, giochi di luce, movimenti di macchina, che hanno fatto di questo film uno dei capolavori del cinema espressionista tedesco. Di notevole valore la colonna sonora musicale originale, di G. Becce, che accompagna il film muto.
Un DVD dell’edizione restaurata, didascalie in italiano, è in edicola a un prezzo contenuto.

lunedì 1 giugno 2009

Reincarnati

Dal Corriere della sera 31 05 09: Non ha retto alla dura disciplina monacale e, una volta diventato adulto, anziché diventare maestro spirituale dei buddisti tibetani ha scelto di tornare nel suo Paese di origine, la Spagna, dove ora studia cinema, e si dichiara perfino agnostico. Osel, il bambino spagnolo che a soli 14 mesi, nel maggio del 1986, venne riconosciuto dal Lama Zopa come la reincarnazione del venerabile Lama Yeshe, dopo 12 anni trascorsi in monastero è andato a vivere a Madrid e al quotidiano El Mundo descrive la sua infanzia come «piena di sofferenze». Quando è diventato un ragazzo ha detto basta, si è tolto la tunica granata e lo scialle giallo ed ha deciso di vivere la sua vita nel mondo facendo perdere le sue tracce. Fino ad oggi, quando ha deciso di raccontare la sua storia al quotidiano spagnolo. «A 14 mesi già mi avevano riconosciuto e portato in India. Mi misero una tunica gialla e mi fecero sedere su un trono. La gente mi venerava... Mi tolsero alla mia famiglia e mi portarono in una situazione medievale nella quale ho sofferto moltissimo. Era come vivere in una bugia», racconta Osel Hita Torres che, a 24 anni, ha deciso di «riprendere il controllo» della sua vita.

Questo “fatto di cronaca” mi offre l’occasione di ribadire quanto, già anni fa (1996), espressi alla rivista dell’Unicef Il mondo domani su questa pratica che rappresenta «una violazione o addirittura una vera e propria espropriazione della personalità infantile»: in questa sorta di “trapianto” di identità non esiterei, infatti, a riconocere un abuso e una violazione dei diritti umani. Ancora una volta, si evidenzia come, alla base di pratiche come questa, risieda una concezione della soggettività assolutamente lontana dalla nostra cultura, con la quale molti buddhisti ancora esitano a confrontarsi.