lunedì 27 dicembre 2010

Consolazione#2

Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.) è collocato, dal punto di vista filosofico, tra gli eclettici. Egli anzi offre, come scive G. Reale, «il più bel paradigma di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle speculazioni». Tuttavia, egli ebbe il grandissimo merito di avere svolto un lavoro di divulgazione e di diffusione della filosofia greca nell’area della cultura romana.
Il tema della consolazione sembra particolarmente adatto per essere affrontato da un eclettico-divulgatore come lui. Cicerone, infatti, dedicò all’argomento il De consolatione, del 45, in occasione della morte di sua figlia Tullia (opera di cui restano soltanto dei frammenti), e molte pagine delle Tusculanae disputationes. Nel libro III di queste, Cicerone elenca, sinteticamente, i metodi offerti dalle varie scuole, optando per un approccio integrato o eclettico, di tipo — si direbbe oggi  cognitivo-comportamentale. Nei §§ 75-79 leggiamo:

(75) Questo è dunque il dovere dei consolatori, togliere dalle radici la tristezza, o calmarla, o diminuirla il più possibile, o fermarla impedendole di espandersi ulteriormente, o deviarla su altri obiettivi. (76) Alcuni pensano che il solo compito del consolatore sia quello di far capire che il male non esiste, come sostiene Cleante. Altri, che il male non è grave, come dicono i peripatetici. Altri spostano l’attenzione dal male al bene, come Epicuro. Per altri è sufficiente dimostrare che non è successo niente di imprevisto, come i cirenaici. Crisippo pensa che la cosa capitale sia togliere dalla persona sofferente l’idea di svolgere una funzione giusta e dovuta. Altri mettono insieme tutti i vari generi di consolazione, giacché ogni persona si lascia toccare da argomenti diversi, come ho fatto io stesso nella mia Consolazione riunendo i vari argomenti: il mio animo era gonfio e dovevo tentare ogni genere di cura.
Ma bisogna anche cogliere al momento giusto le malattie dell’anima non meno che quelle del corpo, come il Prometeo di Eschilo, a cui vien detto: «Penso che tu sappia, Prometeo, che la parola può curare la collera». E lui risponde: «Sì, se si applica il farmaco in tempo, e non si irriti la ferita con una mano pesante».
(77) Nella consolazione, dunque, il primo rimedio è insegnare che non c’è nessun male o almeno non grande; il secondo è addurre la comune condizione umana e le caratteristiche specifiche, se ce ne sono, della persona sofferente; il terzo mostrare che è sommamente sciocco farsi vincere dalla tristezza, pur sapendo che non se ne trae nessun vantaggio. Cleante infatti consola il sapiente, che non ha bisogno di consolazione; e se chi soffre tu lo persuadi che non esiste nessun male tranne ciò che è disonorevole, gli togli non già il dolore, ma l’ignoranza: peraltro l’occasione non è propizia all’insegnamento. Eppure a me sembra che Cleante non abbia considerato abbastanza il fatto che la tristezza può nascere talvolta proprio da quello che lui considerava il sommo male. Cosa diremo infatti di Socrate che, secondo la tradizione, persuase Alcibiade di non essere un uomo e che tra lui, il nobile Alcibiade e un qualunque facchino non c’era nessuna differenza, quando Alcibiade era addolorato e piangendo supplicava Socrate di insegnargli la virtù e di scacciare da lui il vizio? Che diremo dunque, Cleante? Che non c’era male in ciò che affliggeva Alcibiade? (78) E quali sono gli argomenti di Licone? Costui per sminuire la tristezza dice che è provocata da piccole cose, inconvenienti della fortuna o del corpo, non dai mali dell’anima. Ma ciò di cui si doleva Alcibiade non consisteva proprio nei mali e nei difetti dell’anima? Per quanto riguarda la consolazione di Epicuro ho detto abbastanza prima.
(79) Non è del tutto certa neppure la consolazione più usuale e spesso utile che dice «non a te solo questo è successo». È utile, dicevo, ma non sempre e non a tutti: c’è chi la respinge, ma fa differenza come viene adoperata. Ciò che è in questione infatti è come sopportò le sue disgrazie ognuno di quelli che le sopportarono con saggezza, e non già qual era la disgrazia da cui ognuno di loro fu colpito. L’argomento di Crisippo è oggettivamente il più solido, ma è difficile da usare in circostanze di dolore. È difficile provare a una persona sofferente che soffre per sua scelta e perché così ritiene di dover fare. E così come nelle cause non adottiamo sempre la stessa posizione — questo è il termine che usiamo per i generi di controversie ma la adattiamo alla circostanza, al tipo di controversia, alla persona — altrettanto nella consolazione bisogna considerare quale tipo di rimedio ogni persona può ricevere.

Ritroviamo qui argomentazioni che presentano forti analogie con insegnamenti che vengono dalla tradizione del buddhismo della scuola antica; su questi, in particolare, vorrei soffermarmi.
L’argomento della generalità del dolore ci rimanda alla storia di Kisagotami, la donna che, disperata per la perdita di un figlio, viene invitata dal Buddha a portargli un grano di senape da una casa in cui non ci sia stata alcuna morte. La donna, non trovandola, viene messa di fronte alla universalità e della inevitabilità della morte: «credevo di essere solo io a soffrire, ma ho visto che la morte è in ogni casa del villaggio e i morti sono più numerosi dei vivi». La constazione che la morte non è qualcosa di personale («non tibi hoc soli») avrebbe liberato la donna dalla sua disperazione e, sulla base di un gratuito automatismo che dalla constatazione va alla accettazione, Kisagotami sarebbe risultata “illuminata”. Argomentazione debole, che ha un senso solo come ammonimento a non enfatizzare la propria condizione, ma che non porta a elaborare nessuna coscienza tragica della condizione umana. Cicerone, giustamente, la introduce con prudenza, guardando piuttosto all’esempio che può venire offerto in occasione delle sventure: «Ciò che è in questione infatti è come sopportò le sue disgrazie ognuno di quelli che le sopportarono con saggezza, e non già qual era la disgrazia da cui ognuno di loro fu colpito».
La consolazione offerta da Crisippo (il male dipende di nostri giudizi e dalla nostra volontà) appare a Cicerone validissima sul piano teorico, ma «difficile da usare in circostanze di dolore. È difficile provare a una persona sofferente che soffre per sua scelta e perché così ritiene di dover fare». Secondo questa visione, il male è nella coscienza (del male) e nel “consenso” che viene dato al giudizio. Analogamente, nel Discorso della freccia, il Buddha dice: «È come se, o monaci, un uomo fosse colpito da una freccia e subito dopo fosse colpito da un’altra, cosicché egli, o monaci, percepirebbe i dolori di due frecce. Allo stesso modo, o monaci, l’uomo ordinario, che non ha ricevuto gli insegnamenti spirituali, quando viene toccato da una sensazione dolorosa soffre, si affligge, si lamenta, piange battendosi il petto, entra in uno stato di grande confusione. Egli sperimenta due tipi di sensazione: una corporea e una mentale». Per il saggio ciò che è veramente male è la turpidudine, ciò che è disonorevole, il resto o non può essere visto come male o è un «male così piccolo che viene oscurato dalla sapienza e lo si scorge a fatica, questo perché il sapiente non inventa né aggiunge elementi all’afflizione per via dell’opinione, e non ritiene giusto tormentarsi il più possibile e lasciarsi consumere dal lutto, che è il peggiore degli atteggiamenti possibili». Anche qui, se il discorso è finalizzato alla moderazione, alla misura, al controllo del comportamento, siamo in presenza di un insegnamento più che valido e opportuno, ma non è più così se si cade in un atteggiamento anti-intellettualistico e ci si propone l’obiettivo di negare il giudizio, “riducendo” e annullando il soggetto. L’avversione, la rabbia (diversamente dalla indignazione etica) sono frutto di separazione e aumentano certamente la sofferenza, per cui l’atteggiamento del saggio sarà quello di vivere con un attaggiamento non-dualistico gli inevitabili dualismi dell’esistenza, al fine di non-soffrire di soffrire, almeno fino a quando il dolore non sia tale da sopraffare la possibilità di controllo e la coscienza stessa, ma ciò non va confuso con la riproposizione dell’anti-intellettualismo filosofico, sul quale mi permetto di rinviare, a quanto ho già scritto in Ri-legature buddhiste, pp. 24 ss.
Comunque, da buon eclettico, Cicerone guarda al risultato e, al pari di un medico che vuole ottenere la guarigione di un ammalato, non si preoccupa troppo di privilegiare una determinata terapia, ma sceglie quella o quelle che ritiene più opportune per il suo paziente. Ovvero, da oratore qual è, dice anche: «come nelle cause non adottiamo sempre la stessa posizione (questo è il termine che usiamo per i generi di controversie) ma la adattiamo alla circostanza, al tipo di controversia, alla persona, altrettanto nella consolazione bisogna considerare quale tipo di rimedio ogni persona può ricevere». Pertanto, dopo aver elencato vari metodi, egli opta per un orientamento eclettico.
(continua)

mercoledì 22 dicembre 2010

Domande senza risposta


Da tempo girano nella rete elenchi di domande senza risposta e anche il portale Ask Jeeens, che vorrebbe rispondere a tutto, fa un elenco delle 10 domande che da sempre sembrano senza risposta, invitando gli utenti a cercarle. Tra queste: «qual è il significato della vita?», «Dio esiste?», «le bionde si divertono di più?» e via continuando. E non mancano le domande comico-demenziali come quelle che si possono trovare nel sito http://www.zigolo.net/domande-senza-risposta.html. Ma di recente, a quanto vedo riportato dai giornali, anche una delle più prestigiose accademie scientifiche, la Royal Society, ha elencato, per bocca del suo presidente Martin Rees, le domande a cui la scienza non ha (ancora?) saputo dare risposta. Oltre a quelle di argomento cosmologico ce ne sono alcune che riguardano l’uomo, tra le quali mi ha colpito quella che chiede: «Cosa è la coscienza?». Mi ha colpito perché, posta così, rivela una sorta di ingenuità metodologica relativa al modo e al significato del definire. La psicologia, scienza della psiche, si era autolesionisticamente inferta (espellendo dai suoi concetti proprio quello della coscienza) una ferita che oggi si va faticosamente rimarginando, per cui possiamo con piacere salutare il giusto ritorno a ciò che le è più proprio (pur con tutti gli interrogativi connessi), la mente e la coscienza. Scrive Julian Jaynes, uno degli psicologi dell’attuale riscoperta della coscienza: «Mondo di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e  misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno su cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. Eremo occulto dove possiamo studiare fino in fondo il libro tormentato di ciò che abbiamo fatto e ancora possiamo fare. Un introcosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. Questa coscienza, che è il mio me stesso più segreto, che è ogni cosa eppure non è nulla di nulla, che cos’è? E da dove venne? E perché?»
Parlando di coscienza credo sia necessario, prima di tutto, fare alcune indispensabili considerazioni. Va precisato che ci vuole riferire qui alla coscienza nella sua accezione più generale di esperienza cosciente, a partire dal suo “grado zero” («qualcosa sta accadendo», «avverto piacere o dolore»), di vita interiore o di vissuto, al di fuori, pertanto, dei campi semantici della cura e della moralità, e delle relative coppie polari di diligenza/negligenza, responsabilità/disimpegno, etc. Ma chi pensasse di poter trovare nei manuali o nei dizionari una definizione di questo concetto, rimarrà inevitabilmente deluso: di lemma in lemma, si imbatterebbe infatti in una serie di rimandi e in un gioco di sinonimie che non farebbe giungere a nessuna vera definizione. Consultando, ad es., il Webster’s (Third New International Dictionary of the English Language), troveremo che consciousness, come coscienza nel senso di funzione psichica generale e sinonimo di mente, ci conduce a: awareness = comprensione, coscienza di q.c., prontezza, rendersi conto, esser desto,  esser pronto; mindfulness = consapevolezza, presenza mentale; alertness = attivazione, allarme; vigilance = vigilanza, e via continuando. Più  nettamente, il Lalande (Vocabulaire technique et critique de la Philosophie), rilevato che la coscienza è uno dei dati fondamentali dell’attività mentale, e, come tale, non è scomponibile in elementi più semplici, riporta le seguenti parole di Hamilton: «La coscienza non può essere definita: noi possiamo sapere perfettamente ciò che è la coscienza, ma non possiamo comunicare agli altri senza confusione una definizione di ciò che noi stessi afferriamo chiaramente. La ragione è semplice: la coscienza si trova alla radice di ogni conoscenza». Tuttavia, questa difficoltà di definizione non è scandalosa né testimonia una congenita debolezza della psicologia allorquando venga confrontata con altre discipline. Tutte, infatti, hanno dei presupposti, assunti come punti di partenza per la definizione di altri concetti o proprietà (detti, in quanto misurabili, “grandezze”) dei fenomeni che si studiano. Così la fisica assume ciò che è dato dall’esperienza immediata, relativamente a lunghezza, massa, tempo e carica elettrica, assumendo queste come “grandezze fondamentali”, impiegandole poi per definire le altre grandezze, che vengono dette appunto “grandezze derivate” (ad es., la velocità, rapporto tra lunghezza e tempo). Il fatto che le grandezze fondamentali non siano definite, ma vengano “prelevate” dall’esperienza cosciente (e quindi siano fondate su un dato psicologico!) non significa che non possano essere studiate e misurate, come la fisica ben insegna.
Non definibile, la coscienza — fondamento non solo della psicologia, ma dell’intera costruzione scientifica — potrà pertanto essere oggetto di indagini, oltre che da parte della psicologia, anche dalla psicopatologia, dalla neurologia, dell’antropologia, etc., interessate a comprenderne estensione, oscillazioni, qualità, correlati, etc. Dunque, la coscienza è la nostra stessa esperienza, quella senza la quale non ci sarebbe nessun mondo e nessuna domanda, e, come accade anche in altri casi, la domanda su di essa non è una domanda senza risposta, ma una domanda mal posta.

venerdì 17 dicembre 2010

Divagazioni e ricordi "freddi"

Baudelaire, Le crépuscule du matin
L’aurore grelottante en robe rose et verte/ S’avançait lentement sur la Seine déserte,/
Et le sombre Paris, en se frottant les yeux/
Empoignait ses outils, vieillard laborieux.
[Il crepuscolo del mattino: Tremando di freddo, in veste rosa e verde, l’aurora lentamente avanzava sulla Senna deserta, e cupo, vecchio laborioso, Parigi stropicciandosi gli occhi impugnava i suoi attrezzi; trad. RV].

giovedì 16 dicembre 2010

Cariatidi e dintorni#28/Telamoni milanesi


corso Venezia, Milano
(foto Vito Ferri)

mercoledì 15 dicembre 2010

modi di dire#13/Vittoria di Pirro

Circola insistentemente, in questi giorni, l'espressione «vittoria di Pirro». Ma chi era Pirro e di quale vittoria si parla?
Pirro (Pýrros, in greco, il rosso), 318-272 a. C., re dell’Epiro (piccolo regno tra l’Albania e la Grecia), fu uno dei principali nemici dell’espansione romana, aspirando ad estendere la sua egemonia in Italia e in Africa. Quando, nel 281, la città di Taranto (allora in Magna Grecia) gli chiese aiuto contro Roma Pirro ebbe un buon pretesto per inviare un potente esercito nel sud dell’Italia che riportò due vittorie, a Heraclea (oggi Policoro, Matera) e ad Ausculum (Ascoli Satriano, Foggia). Benché vincitore, Pirro perse la metà dei suoi uomini e i principali comandanti, lasciando sul terreno più di 13000  soldati. Successivamente sconfitto dai romani (275) e dai cartaginesi (anch’essi ostili alle sue mire espansionistiche) morirà tre anni dopo. Pirro, secondo gli storici, dopo le sue costose vittorie avrebbe pronunciato la frase «Un'altra vittoria come questa e tornerò in Epiro senza più nemmeno un soldato» (Paolo Orosio, IV sec. D. C.). Lo scontro tra le grandi potenze di allora ha lasciato un segno nella memoria collettiva e l’espressione “vittoria di Pirro” continua ad essere impiegata nel linguaggio sportivo, politico, etc. in occasione di vittorie che dànno più gloria che vero successo.
«Vittoria di Pirro» è una locuzione abbastanza semplice e c’è da augurarsi che (riferimenti storici noti o supposti tali) non venga maltrattata come è accaduto per la dantesca «mi fa tremar le vene e i polsi» (Inf., I, v. 90), dove i polsi sono le arterie pulsanti (e non la regione anatomica del polso!), volendo Dante dire che, ad es. per paura, questi vasi tremano venendo abbandonati dal sangue. Di essa abbiamo dovuto ascoltare varie deformazioni nell’uso politico, anche da parte di personaggi “rapprentativi”, per cui è diventata: «far tremare le vene dei polsi» (Prodi) o «fa tremare i polsi» (Casini), etc.