lunedì 15 ottobre 2012

L'amabile papa B XVI, tra detto e non-detto


Tra filosofi balbettanti, “scrivitori” inesistenti, politici bercianti e gaglioffi populisti, vola alto l’argomentare di papa Benedetto. Vediamo come, in un recente discorso sul battesimo (Discorso di apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 11 06 12), egli si sofferma sul significato di questo sacramento come rito di morte e di rinascita, e su diversi aspetti di esso: l’argomento merita qualche nostra riflessione.

1. È sconveniente parlare di iniziazione? - In primo luogo, leggiamo come egli tratta dell’elemento materiale del rito, l’acqua. Dice il Papa: «È molto importante vedere due significati dell’acqua. Da una parte, l’acqua fa pensare al mare, soprattutto al Mar Rosso, alla morte nel Mar Rosso. Nel mare si rappresenta la forza della morte, la necessità di morire per arrivare ad una nuova vita. Questo mi sembra molto importante. Il Battesimo non è solo una cerimonia, un rituale introdotto tempo fa, e non è nemmeno soltanto un lavaggio, un’operazione cosmetica. È molto più di un lavaggio: è morte e vita, è morte di una certa esistenza e rinascita, risurrezione a nuova vita. Questa è la profondità dell’essere cristiano: non solo è qualcosa che si aggiunge, ma è una nuova nascita. Dopo aver attraversato il Mar Rosso, siamo nuovi. Così il mare, in tutte le esperienze dell’Antico Testamento, è divenuto per i cristiani simbolo della Croce. Perché solo attraverso la morte, una rinuncia radicale nella quale si muore ad un certo tipo di vita, può realizzarsi la rinascita e può realmente esserci vita nuova. Questa è una parte del simbolismo dell’acqua: simboleggia — soprattutto nelle immersioni dell’antichità — il Mar Rosso, la morte, la Croce. Solo dalla Croce si arriva alla nuova vita e questo si realizza ogni giorno. Senza questa morte sempre rinnovata, non possiamo rinnovare la vera vitalità della nuova vita di Cristo. Ma l’altro simbolo è quello della fonte. L’acqua è origine di tutta la vita; oltre al simbolismo della morte, ha anche il simbolismo della nuova vita. Ogni vita viene anche dall’acqua, dall’acqua che viene da Cristo come la vera vita nuova che ci accompagna all’eternità».
Chi abbia qualche memoria di storia delle religioni non avrà difficoltà a riconoscere nel battesimo una forma cristiana di “iniziazione”, anche se questa parola non compare nei discorsi di B XVI, come teleté, termine tecnico dei misteri e delle iniziazioni ai misteri — notava Eliade — non viene mai usato da San Paolo: probabilmente, perché si ritiene più opportuno evitare tutto quello che potrebbe togliere credito alla presunta “peculiarità” del cristianesimo, mostrandolo condiviso anche da altri percorsi spirituali. Nelle parole di Benedetto XVI sembrano invece ben riconoscibili quelle di M. Eliade che, in La nascita mistica, scriveva: «Gli elementi iniziatici del cristianesimo primitivo dipendono semplicemente dal fatto che l’iniziazione, è una dimensione che coesiste a ogni rivalorizzazione della vita religiosa. Non si può accedere a un modo d’essere superiore, non si può partecipare a una nuova irruzione di santità nel mondo o nella storia se non “morendo” all’esistenza profana, non illuminata, e rinascendo a una vita nuova, rigenerata» (p. 174). Infatti, in Gv 3, 3 ss.: «“In verità, in verità ti dico, nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente”. Gli disse Nicodèmo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete nascere di nuovo”».
Il cristianesimo vittorioso operò una cristianizzazione non solo della filosofia greca e delle istituzioni giuridiche romane, ma anche dei culti dei morti e dei rituali di fertilità del mondo antico, dell’«eredità immemoriale degli dèi e degli eroi, dei riti e costumi popolari. Questa assimilazione massiccia apparteneva alla dilettica stessa del cristianesimo. In quanto religione universalistica, il cristianesimo era obbligato a convalidare tutti i “provincialismi” religiosi e culturali dell’ecumene e a trovare loro un denominatore comune. Questa grandiosa unificazione non poteva essere attuata se non traducendo in termini cristiani tutte le forme, le figure e i valori che si volevano ratificare». Il tema iniziatico arcaico dell’iniziazione venne ri-consacrato collegandolo direttamente alla vita e alla morte di Gesù, ma gli antichi scenari sono ancora riconoscibili nel suo messaggio, «perché l’iniziazione fa parte integrante di ogni nuova rivelazione religiosa» (p. 175).
«Perché non è sufficiente per il discepolato conoscere le dottrine di Gesù, conoscere i valori cristiani? Perché è necessario essere battezzati?», si domanda papa Ratzinger. Come abbiamo visto, con l’iniziazione battesimale si deve passare attraverso una morte simbolica (quella attraverso la quale passano gli iniziandi delle diverse tradizioni) per poter nascere a una nuova vita, sottratta alla malattia, alla sofferenza e alla morte: una vita eterna. Dunque è il non-detto iniziatico quello che rende necessario il battesimo.

2. Resurrezione cristiana: esclusiva e storica? - Veniamo a un secondo punto. Se l’iniziato ai misteri è rigenerato per virtù di atti sacrali che lo rendono partecipe del destino del dio e della sua resurrezione, il cristiano rivive in Cristo mediante la partecipazione sacramentale ai suoi carismi, qual è il fondamento che conferisce al battesimo il suo valore sacramentale? Il fondamento è nel riconoscimento di Gesù come figlio di Dio, riconoscimento validato a sua volta dalla certezza della sua risurrezione, affermata nella sua specificità e storicità. È quasi d’obbligo, a questo punto, richiamare il famoso passo di S. Paolo, in cui dice: «Se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha resuscitato, se è vero che i morti non risorgono» (1 Cor 15, 14 s.), passo tanto importante che, come sottolinea Papa Ratzinger, «l’essere cristiani significa essenzialmente la fede nel Risorto» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II parte, Città del Vaticano, LEV, 2011, p. 289). Su questo lo storico e teologo Paolo Ricca, pastore valdese, dice: «Nessun’altra religione umana è fondata sulla Risurrezione. Questa è la specificità e l’unicità del cristianesimo. “Il Signore è veramente risuscitato” (Lc 24, 34): non apparentemente (cioè è risuscitato solo nel nostro ricordo di lui, che resta incancellabile); non probabilmente (chissà, forse sì, forse no); non simbolicamente (la Risurrezione come metafora delle inesauribili energie vitali della natura, del cosmo e anche dell’umanità che sempre riemergono e in tanti modi si perpetuano). No, Gesù è veramente risuscitato» (in Jesus, apr. 2004, p. 25). Pur senza approfondire  l’affermazione della “specificità”, non condivisibile in quanto in altre religioni non mancano morti e resurrezioni di divinità, accettabili per le culture del mondo antico (Tammuz, Osiride, Adone, Ippolito, per citarne alcune di queste divinità…), taciute forse perché la comparazione risulterebbe, anche in questo caso, fastidiosa se non imbarazzante per chi vuole sottolineare l’unicità del cristianesimo, non si può ignorare che affermazioni sulla “oggettività” della risurrezione di Gesù così marmoree e indiscutibili come quelle riportate appaiono oggi poco “digeribili” non solo per la mentalità moderna che si definisce laica, ma anche per quei teologi (di una “teologia debole”) che ritengono il racconto delle resurrezione vada visto come “leggenda eziologica”, ossia un artificio per suffragare il culto che i giudeo-cristiani riservavano al luogo della sepoltura di Gesù, per cui il teologo non dovrebbe più dire «Cristo è risorto», ma «i discepoli affermavano che egli è risorto», tanto più che sia gli evangelisti che S. Paolo non avendo assistito alla resurrezione l’annunciano, ma non la descrivono. Papa Benedetto, che non vuole ovviamente rinunciare alla visione tradizionale della storicità della risurrezione, ne “raffina” la trattazione, affermando che essa è un avvenimento reale, anche se di una realtà sui generis, che «va al di là della storia, ma ha lasciato la sua impronta nella storia. Per questo può essere attestata da testimoni come un evento di una qualità tutta nuova» (op. cit., p. 305): con «la risurrezione è avvenuto un salto ontologico che tocca l’essere come tale, è stata inaugurata una dimensione che ci interessa tutti e che ha creato per tutti noi un nuovo ambito della vita, dell’essere con Dio» (p. 304), trattandosi di un «radicale salto di qualità in cui si dischiude una nuova dimensione della vita, dell’essere uomini» (p. 303). Dunque storicità sì, ma una storicità del tutto speciale quella del racconto evangelico. La verità è nel racconto (mýthos), ma quando un racconto è da considerare vero? Un racconto è vero quando rientra nel rapporto di “complicità” tra narrante e ascoltatore/lettore che stabiliscono un patto di credibilità che non può venire infranto, pena la perdita di credibilità. E oggi, per i tanti che non si riconoscono più in quel patto, il racconto risulta privo di attendibilità ”storica” e, insieme ad altri racconti biblici, può continuare a vivere solo se si colloca su piano simbolico-metaforico .

3. Forza e fragilità delle fedi. - Infine, come il battesimo, ormai “certificato” nella sua forza sacramentale, opererebbe per realizzare la trasformazione promessa? Commentando le parole di Gesù, in Mt 28, 19, Benedetto XVI si abbandona a una spericolata e sottile argomentazione teologico-linguistica. Seguiamolo: «La scelta della parola “nel nome del Padre” nel testo greco è molto importante: il Signore dice eis e non en, cioè non “in nome” della Trinità – come noi diciamo che un vice prefetto parla “in nome” del prefetto, un ambasciatore parla “in nome” del governo: no. Dice: “eis to onoma”, cioè una immersione nel nome della Trinità, un essere inseriti nel nome della Trinità, una interpenetrazione dell’essere di Dio e del nostro essere, un essere immerso nel Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, così come nel matrimonio, per esempio, due persone diventano una carne, diventano una nuova, unica realtà, con un nuovo, unico nome». Dalle parole di Gesù: «Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe?» (cfr. Mt 22,31-32), B. XVI fa scaturire questo ragionamento: «Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio — dice il Signore — è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza — come i tre dell’Antico Testamento —, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio. Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso». E, finalmente, ritornando alla Parola di Cristo ai sadducei: «Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe» (cfr Mt 22,32), B XVI dice: questi «non sono morti; se sono di Dio sono vivi. Vuol dire che con il Battesimo, con l’immersione nel nome di Dio, siamo anche noi già immersi nella vita immortale, siamo vivi per sempre. Con altre parole, il Battesimo è una prima tappa della Risurrezione: immersi in Dio, siamo già immersi nella vita indistruttibile, comincia la Risurrezione. Come Abramo, Isacco e Giacobbe essendo “nome di Dio” sono vivi, così noi, inseriti nel nome di Dio, siamo vivi nella vita immortale. Il Battesimo è il primo passo della Risurrezione, l’entrare nella vita indistruttibile di Dio». Essere nome, volto, voce, gesto di qualcuno significa essere suo attributo, far parte di lui, essere lui. Dunque Dio, vivo di vita eterna, fa anche noi «vivi per sempre».
Ma è, la vita di Dio, indipendente dalla nostra? Nel gioco dei riconoscimenti, l’uomo è in perenne ricerca di Dio, ma poi acquisisce anche la consapevolezza che «Dio ha bisogno degli uomini» (tit. del film di J. Delannoy, dal romanzo Un recteur de l'Île de Sein di H. Quéffelec), conquistando così una nuova dignità, che gli permette di dire (con le parole di R. M. Rilke, Il libro d’ore, tr. it. in Poesie, I, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p. 141): «Che farai, Dio, se muoio?/Sono la tua brocca (e se mi spacco?)./Sono la tua acqua (e se mi appesto?)./Io sono la tua veste, il tuo strumento/senza di me non hai alcun senso./Non hai più casa, se muoio, che t’accolga/con parole calde e amiche; dai tuoi piedi/stanchi scivolano via i sandali/di velluto perché i sandali sono io».
La storia e la fenomenologia delle religioni ci dicono che neppure le divinità sono permanenti e, come tali, sono pertanto dipendenti da altro (insegnamento buddhista). Dove sono, infatti, le divinità prive di culto, quelle non più pregate e il cui nome è ormai dimenticato? Senza andare troppo lontano che ne è del nome e degli attibuti di Zeus, il grande dio della nostra tradizione classica? Estinto, spento, caduto nell’oblio? Eppure, come Pausania ci ricorda (Viaggio in Grecia, V, 11, 1) fino a non molto tempo fa era vicino a noi e a Olimpia la colossale statua, capolavoro di Fidia, elevata tra il 466 e il 456 a. C., era sentita come la rappresentazione della concezione omerica di Zeus: «Il dio, fatto d’oro e d’avorio, è seduto in trono. Gli sta sulla testa una corona lavorata in forma di ramoscelli d’ulivo. Nella mano destra regge una Nike, anch’essa criselefantina, con una benda e, sulla testa una corona.  Nella mano sinistra del dio è uno scettro ornato di ogni tipo di metallo, e l’uccello che sta posato sullo scettro è l’aquila. D’oro sono anche i calzari del dio e così pure il manto. Nel manto sono ricamate figurine di animali e fiori di giglio». Quella statua era una così perfetta riproduzione del vero sembiante del dio che produceva sbigottimento in coloro che, vedendola, credevano di essere alla presenza dello stesso Zeus. Siamo tanto lontani dagli effetti della visione dell’icona del Cristo Pantocrator? Il ragionamento va dunque rovesciato: finché siamo vivi e pensanti, diamo nomi, volti, attributi a divinità che sono le meravigliose e ipostatiche rappresentazioni del Sé, ma quando le visioni del mondo e le rappresentazioni collettive di un popolo si modificano o quando, su scala individuale, la coscienza si estingue, il potere del sacramento di agire «per propria ed intima efficacia» (ex opere operato) non può tenere in vita né uomini né dèi. In questo, il cristianesimo non fa eccezione e le pretese, speciali peculiarità o l’affermata verità storica degli avvenimenti evangelici rientrano nella “verità” del mito (racconto), basata sulla accettazione condivisa di essa da parte di una cultura e degli individui suoi componenti.
Quando Papa Benedetto parla di desertificazione spirituale («In questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. […] È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza»; omelia del 11 10 12) non fa altro che sottolineare il declino della fede cristiana che porta in sé l’esigenza di spiritualità, ma in forme compatibili con la società moderna più di quanto non lo sia il monoteismo giudaico-cristiano: ecco l’attualità delle parole di S. Paolo che richiama l’attenzione sulla possibilità di una fede di divenire vuota (kenè, inanis) e illusoria (mataía, stulta).

Benedetto XVI, ammirevole per la sua opera di evangelizzazione, rimane una grande presenza e testimonianza di cultura, per cui dispiacciono ancor più i suoi non-detti che lo trattengono in una arcaica visione della verità, probabilmente anche qui per il timore di scivolare in una verità autoricorsiva, che forse sospetta capace di persuadere solo chi è già persuaso. Non è certamente questo il luogo per affrontare la teoria della “verità oggettiva”, ma certo la risposta data da Gesù alla domanda sulla verità: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6) è di una  grande modernità epistemologica e si pone fuori della tesi della “verità come corrispondenza”, essendo una riposta che potrebbe suonare anche come: «Se non lo sai perché lo domandi?». Se la rivolgessimo a lui, il successore di Pietro come risponderebbe?

A 50anni dal Concilio Vaticano II, che avrebbe dovuto rinnovare le relazioni tra il mondo moderno e la Chiesa, sono interessanti i dati che emergono dall’inchiesta pubblicata recentemente dal quotidiano La Croix (11 10 12) su Les Français et le catholicisme 50 ans après Vatican II, dati che mostrano una progressiva diminuzione della pratica religiosa e un crescente distacco dall’istituzione ecclesiastica. Un solo valore: il numero di battezzati che segue la messa tutte le domeniche (nonostante la riforma liturgica) è in media del 6% e solo dell’1% nella fascia d’età 25-34.

giovedì 4 ottobre 2012

Finis vitae#4/La morte di Mosè


Quando Mosè giunse al termine della sua lunga vita, il Signore gli mostrò tutto il territorio della promessa: «Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, il paese di Efraim e di Manàsse, tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Zoar. Il Signore gli disse: “Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!”.
Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore. Fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. Mosè aveva centoventi anni quando morì; gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno» (Dt 34, 1-7).

Fin qui la Torah, ma la tradizione ci dice che Mosè non voleva morire e, “per sapere qualcosa di più” sulle circostanze della fine della sua vita terrena, possiamo leggere un Midrash in cui, con grande dolcezza e con grande rispetto, si narra che «si udì una voce dal cielo che disse a Mosè: “Mosè, è la fine, il tempo della tua morte è venuto”. Mosè disse a Dio: “Ti supplico, non mi abbandonare nelle mani dell’angelo della morte”». Mosè non desiderava morire e, soprattutto, non voleva rinunciare a entrare nella Terra. Si mise quindi a cercar di ottenere l’intercessione di tutte le creature (terra, cielo, mare e monti, sole, luna e stelle) per ottenere misericordia, ma Dio si mostrava inflessibile: «Scese dall’alto dei cieli per prendere l’anima di Mosè e gli disse: “Mosè, chiudi gli occhi” e Mosè li chiuse; poi disse: “Posa le mani sul petto” e Mosè così fece; poi disse: “Adesso accosta i piedi” e Mosè li accostò». Il profeta cede, infine, alla volontà del Signore, ma ora è la sua anima che resiste ad abbandonare quel corpo in cui era stata per 120 anni. «Allora il Santo, benedetto Egli sia, chiamò l’anima di Mosè: “Figlia, le disse, per centoventi anni ti ho raccolta nel corpo di Mosè, ora è giunto il tuo ultimo termine e devi uscire. Esci, non indugiare”.
 E l’anima: “Signore del mondo! Io so che Tu sei il Dio di tutti gli spiriti, il Signore di tutte le anime. Tu m’hai creato, Tu m’hai lasciato nel corpo di Mosè per centoventi anni. Ma esiste ora al mondo un corpo più puro di quello di Mosè? Io gli voglio bene e non voglio abbandonarlo!”.
 “Esci, - replicò il Santo, benedetto Egli sia, - e Io ti farò salire ai cieli più alti e porrò la tua sede sotto il Trono della mia Maestà, accanto ai Cherubini e ai Serafini.
 In quell’istante il Santo, benedetto Egli sia, baciò Mosè e gli raccolse l’anima in un bacio».

Tra le tante considerazioni che questo racconto sollecita, su due almeno mi vorrei soffermare.
La prima, riguarda la effettiva fine di Mosè, il momento in cui la sua anima si separa dal corpo. Innanzitutto, le traduzioni correnti del versetto 34, 5 riportano «secondo l’ordine del Signore», interpretando il testo ebraico «sulla bocca del Signore» (v. tr. fr. di André Chouraqui) come se dicesse «per bocca», cioè per ordine del Signore. Il Midrash, invece, esplicita questa scena con una rappresentazione di grande tenerezza, in cui vediamo Dio che si piega proprio sulla bocca di Mosè prendendo la sua anima mediante un bacio sulla bocca. Il bacio raccoglie il respiro, in questo caso l’ultimo respiro di Mosè, e per quel legame misterioso e primordiale tra l’anima spirituale e il respiro materiale, l’anima dolcemente esce, lasciandosi persuadere da quel gesto d’amore col quale Dio si avvicina, bacia la bocca e unisce così quell’anima a Sé. Il bacio ci si rivela qui in tutta la sua sacralità: sentire il respiro, prendere il respiro dell’altro dalla sua bocca è mettere a contatto le anime, un atto di profonda intimità non solo corporea, ma soprattutto spirituale.
La seconda osservazione si riferisce a quello che ci appare come un atteggiamento di durezza e quasi di crudeltà di Dio nei confronti di Mosè, al quale Egli mostra la Terra promessa e contemporaneamente dice: «Ma tu non vi entrerai!» Una beffa? Un gesto spietato? Come interpretare questa “punizione” di un uomo santo come Mosè che, “giustamente” chiede a Dio di farlo morire più tardi, dandogli tempo per passare in quel territorio? Ci si è interrogati su questo episodio e viene citata la riflessione che Kafka gli ha dedicato nel suo diario, scrivendo che questo vedere la Terra promessa e non poterla raggiungere «ha un unico senso, quello di rappresentare fino a qual punto la vita umana sia un istante imperfetto: imperfetto perché questa specie di vita (l’attesa della Terra promessa) potrebbe durare indefinitamente senza che ne risultasse mai qualcosa di diverso da un istante. Mosè non raggiunse Canaan non perché la sua vita fu troppo breve, ma perché era la vita di un uomo». Per Bataille non si tratta «della vanità di un determinato bene, ma di tutti gli scopi, ugualmente vuoti di significato: uno scopo è, sempre, senza speranza, nel tempo — come un pesce è nell’acqua — un punto qualunque nel moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana».
Non si tratta, dunque, di un caso speciale, sfortunato e crudele, ma della rappresentazione della vita umana nella sua generalità. In termini buddhisti, si viene messi a confronto con i “segni” caratteristici dell’esistenza: mancanza di esistenza inerente (e quindi dipendenza da altro), impermanenza, dolore. La saggezza ebraica aveva espresso questo stesso sentire con le parole che troviamo nei detti dei Padri: «Non spetta a te concludere l’opera, ma nemmeno esimerti dall’iniziarla». Incompiutezza come carattere dell’opera e della vita dell’uomo, i cui progetti e sogni non si avverano mai, ma sono tuttavia da portare avanti nel loro quotidiano e limitato procedere giorno per giorno, come nel lavoro del Sisifo felice di Camus.

Hanno alimentato queste riflessioni le parole di Benedetto Carucci Viterbi in un seminario universitario, quelle di Paolo De Benedetti in una puntata della trasmissione radiofonica Uomini e profeti, quelle di Gianna Pirella in uno scritto su Kafka.

lunedì 1 ottobre 2012

Errori di grammatica!


«E pose ad oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita» (Gen 3, 14, tr. G. Luzzi). Ma se il giardino è un miraggio i cherubini sono i maestri che ci impediscono di commettere gli errori di grammatica (della teologia)!

P. S.: per Montaigne dietro i grandi errori ci sono errori di grammatica.