sabato 27 dicembre 2008

Discernimento

Karl Paul Reinhold Niebuhr (18921971), teologo cristiano protestante americano, è considerato l’autore della “Preghiera di serenità”, che  preferirei chiamare “Preghiera del discernimento”. Per questo mi permetto di proporla (nella versione breve) all’attenzione di quanti, di qualsivoglia appartenenza o non-appartenenza religiosa, non la conoscono (e non la praticano!) ancora .

“Signore, concedimi la serenità 
di accettare le cose che non possono essere cambiare,
il coraggio di cambiare quelle che possono essere cambiate
e la saggezza per distinguere le une dalle altre”.

lunedì 22 dicembre 2008

La festa, un tempio nel tempo

Per l’uomo delle culture arcaiche, il tempio delimitava lo spazio sacro e la festa il tempo sacro, una sorta di tempio nel tempo: in entrambi i casi, si poteva avere lì un diretto contatto con la realtà del “totalmente altro”. Il Mondo si rinnovava annualmente e ritrovava così la sua originaria santità: l’anno era un circolo chiuso e il Mondo veniva periodicamente ricreato. Con adeguati riti, veniva annullato il tempo profano e gli uomini, liberati da errori e da colpe, nuovi e purificati potevano ridiventare contemporanei della cosmogonia. Il valore della festa non era quello di ricordare o commemorare l’evento mitico delle origini, ma di riattualizzarlo e iniziare una nuova vita con le potenzialità intatte come alla nascita; e chi era ammalato poteva in tal modo guarire.

Per noi che viviamo in un tempo desacralizzato ed evanescente, in una linearità che conduce non alla rinascita ma verso l’ignoto della fine, l’augurio è quello di utilizzare i brandelli del Tempo “originario”, santificato dalla presenza degli dèi, per costruire almeno frammenti di un nuovo sapere della precarietà, nutrito dal “canto che nomina la Terra” e dalla consapevolezza che l’unico significato dell’esistenza umana sia quello di “accendere una luce nelle tenebre del puro essere”.

sabato 20 dicembre 2008

Roma barocca#4-Basilica dei Ss. Apostoli e Palazzo Colonna






(foto da Wikipedia)

 Nell’età barocca, non solo S. Ignazio e i Gesuiti ricevettero l’onore di importanti opere d’arte, ma anche i Francescani, come testimonia l’affresco di Giovan Battista Gaulli, detto Baciccia (autore anche dell’affresco sulla volta della chiesa del Gesù), Trionfo dell’Ordine francescano, sulla volta della navata centrale della Basilica dei Ss. (santi, non santissimi!) Apostoli, dedicata ai santi Filippo e Giacomo (dei quali sono conservate le reliquie). La chiesa, costruita nel VI sec. e poi andata distrutta a causa di un terremoto, fu fatta restaurare dal papa Martino V, della famiglia Colonna, al cui palazzo la chiesa è contigua. La facciata risulta composita, presentando un portico del XV sec. a nove arcate, su due ordini, il superiore chiuso con finestre barocche, sovrastato da una balaustra con statue di Cristo e apostoli (occasione per ricordarli: Simone, soprannominato Pietro; Andrea, fratello di Pietro; Giacomo; Giovanni, fratello di Giacomo, tradizionalmente identificato con l’autore del IV vangelo; Filippo; Bartolomeo; Tommaso; Matteo, il pubblicano: riscuoteva le imposte, tradizionalmente identificato con l'autore del vangelo di Matteo; Giacomo il Minore; Giuda Taddeo, il vangelo di Luca riporta al suo posto Giuda di Giacomo; Simone lo Zelota; Giuda Iscariota, l'apostolo che tradì Gesù; Mattia, nominato dopo l’ascensione di Gesù), che precede una facciata settecentesca, su disegno del Valadier, con lesene e un finestrone centrale.

L’imponente Palazzo Colonna si estende tra p.za dei Ss. Apostoli, v. IV novembre, v. della Pilotta e, come si presenta attualmente, è il risultato del lavoro di incorporazioni di varie costruzioni nella vasta opera di ristrutturazione effettuata nel Seicento e nel settecento. Caratteristici, sulla via della Pilotta, i ponti che collegano il palazzo con l’ampio giardino. All’interno si trova la ricca Galleria Colonna che ospita dipinti di grande valore (di A. Carracci, P. Veronese, Pietro da Cortona, D. Tintoretto...).

 Della famiglia Colonna alcuni membri sono indimenticabili. Tra essi:

 Marcantonio II (1535-84), capitano generale della flotta alleata nella guerra della Lega santa contro i turchi, nella battaglia di Lepanto (1571) li sconfisse, catturandone la nave ammiraglia insieme a Giovanni d’Austria.

 Vittoria (1490-1547), presente nella nostra memoria scolastica unitamente a Gaspara Stampa, era figlia del condottiero Fabrizio Colonna (protagonista dei dialoghi dell’Arte della guerra di Machiavelli); moglie del marchese Ferdinando d’Avalos, rimasta vedova condusse una vita austera, ricca di idealità religiose. Fu ammirata e amata da Michelangelo (“Donna leggiadra, altera e diva”, “Un uomo in una donna, anzi un dio”), che si rimprovera di non saper trarre da lei la salute della propria anima. N. Sapegno la dice ”signora di alto intelletto e di svariata cultura, disposta per indole alle severe meditazioni e dotata di una ricca vita affettiva, che in lei per altro è tenuta a freno dall’orgoglio aristocratico e dalla nativa austerità”. Rimatrice petrarchesca, curò il rigore formale più che le effusioni sentimentali, anche se i suoi versi non mancano di toni malinconici (“Così mi sforza la nimica sorte/le tenebre cercar, fuggir la luce/odiar la vita e disiar la morte…). L’amicizia con Michelangelo e le relazioni coi circoli intellettuali e religiosi del tempo hanno sicuramente contribuito a serbarne una memoria viva ancor oggi.


giovedì 18 dicembre 2008

Lealtà/fedeltà

Il 26 febbraio 1936 un migliaio di uomini, guidati da un gruppo di giovani ufficiali che contava sull’appoggio di una parte delle gerarchie militari, occupò il centro di Tokyo, uccise un ministro e qualche altra personalità pubblica, compì altri attentati più o meno andati a segno. Era l’epoca del cosiddetto fascismo del periodo imperiale (tennōsei, sistema imperiale, fashizumu, fascismo), regime costituitosi tra le due guerre mondiali e che ebbe vari ideologi, il maggiore dei quali fu KITA Ikki (1883-1937). Ma in quella occasione i generali Araki e Mazaki non si mossero a difesa degli insorti e l’imperatore — nel cui nome essi si erano ribellati — paradossalmente fu pronto nel chiedere la punizione dei rivoltosi che, circondati da marina e guardia imperiale, si arresero il 29. Due degli ufficiali si uccisero, ci furono diciannove condanne a morte, eseguite alcune subito, altre — anche per alcuni sostenitori civili tra cui lo stesso Kita — l’anno seguente.

Lo scrittore MISHIMA Yukio vari anni dopo (1961) prese spunto da questo episodio, poi denominato “l’incidente del 26 febbraio”,  per un racconto, intitolato Yūkoku [Patriottismo]. In esso si narra che il tenente Takeyama Shinji, essendosi da poco sposato, fu convinto dai suoi colleghi a non prendere parte alla ribellione. Nei giorni seguenti, fu proprio tra quelli incaricati della punizione dei colpevoli. Si profilava così uno di quei conflitti tra doveri (fedeltà/lealtà verso l’imperatore, da un lato, e fedeltà/lealtà verso gli amici, dall’altro) che ha spesso trovato, per la mentalità giapponese tradizionale, nel suicidio rituale (seppuku) l’unica tragica via di uscita. Così, infatti, decide Shinji e così la moglie Reiko (“Anch’io ho deciso. Ti chiedo il permesso di seguirti”). I due coniugi si amano con la consapevolezza dell’ultima volta, Mishima ne descrive il desiderio sessuale che fa tutt’uno con l’amore per il proprio Paese, lo splendore dei corpi (quello di lei “bianco e maestoso”, e quello di lui “dalle spalle possenti, i due scudi robusti che sembravano unirsi a formare il petto vigoroso”), la indicibile dolcezza insita nella decisione di morire, con una morte simile “in tutto e per tutto alla morte in guerra”, sul fronte dell’anima, “atto di un soldato segnato dalla perfetta lealtà”; infine, il dolore indicibile del corpo straziato. Nel tokonoma della stanza, il rotolo con una calligrafia dei due caratteri della parola shisei, perfetta sincerità/fedeltà/lealtà.

In un articolo del 1966, dedicato ancora all’“l’incidente del 26 febbraio”, Mishima parla del racconto in cui dice di aver creato “una situazione in cui il piacere fisico estremo e l’estrema sofferenza fisica sono costituiti da uno stesso principio e, attraverso ciò, aprono la via ad una suprema beatitudine”. È proprio l’unione di questi due vissuti che genera il terzo: la grande felicità e libertà dell’amore che raggiunge il culmine della purezza e dell’estasi nella prospettiva di un doloroso suicidio. Wagner, Nietzsche, Bataille...: la morte è al servizio della bellezza o la bellezza è al servizio della morte?

L’eutanasia è per noi la morte “dolce”, quella che deve avvenire senza sofferenza; il seppuku, all’interno del codice morale del bushi (aristocrazia guerriera), ha valore perché carico di sublime coraggio di fronte all’estremo dolore. Potremmo considerarla come una forma di quella che oggi si denomina “morte amica”?

Nel 1965 Mishima diresse e interpretò (nel ruolo del tenente) un cortometraggio tratto da Patriottismo, di un erotismo suggestivo e di un raccapriccio sublimato. Del film, distrutto per desiderio della vedova di Mishima, riemerse una copia nel 2005: ora le edizioni Montparnasse ce lo offrono in DVD, in un cofanetto (discalie in fr., in., giap.) dal titolo Yūkoku: rites d’amour et de mort.

Il 25 novembre 1970 Mishima, in circostanze simili a quelle del racconto, fece il suo seppuku negli uffici del generale Masuda Kanetoshi, che, insieme ad alcuni membri della “Associazione degli scudi”, aveva occupato per un’azione dimostrativa. Nonostante le esplicite volontà testamentarie, dopo la morte gli fu attribuito, secondo il costume giapponese, il titolo/nome postumo di “buddhista laico Kimitake, eccelso in arti guerriere e specchio di letteratura”. 

lunedì 15 dicembre 2008

Totò

Non ho difficoltà a considerare Totò un vero Maestro spirituale e, poiché siamo tutti attori nel più grande dei teatri, riflettiamo su questa sua "Preghiera del clown":

Noi ti ringraziamo nostro buon Protettore per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo.Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa' che sulla nostra mensa non venga mai a mancare pane ed applausi. Noi ti chiediamo protezione, ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini.Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l'unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa' che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore. Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi, dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamante le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po’ perchè essi non sanno, un po’ per amor Tuo, e un po’ perchè hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C'è tanta gente che si diverte a far piangere l'umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.

mercoledì 10 dicembre 2008

Schermaglie#5/Nick’s Film – Lampi sull’acqua, 1980

Nicholas Ray, regista ribelle, alcolizzato, costretto ad abbandonare la sua carriera, già malato di cancro, era stato scelto da W. Wenders come attore nel film L’amico americano, in cui interpretava il pittore Derwatt che, per vendere i suoi quadri a un prezzo più alto, aveva fatto credere di essere morto. Animato da profonda ammirazione e amicizia per Ray, Wenders vuole venire incontro al desiderio di Nick di fare un nuovo, forse ultimo film, che possa servire a ricostituire una immagine di sé disintissosicato, acuto, per finire con una nuova dignità. Potrebbe essere una sorta di seguito di L’amico americano; Ray ha pensato al titolo Lightning over Water [Lampi sull’acqua] e al soggetto: la ricerca da parte di due amici di un tipo di ginseng speciale che curi il cancro. Il film prevedeva che si sarebbe ripreso lo stesso girare il film, creando un film nel film, in cui entrambi i registi sarebbero apparsi nei loro ruoli, ma anche come attori, diretti ciascuno dall’amico, esperienza del tutto nuova per Wenders. Un presentimento? L’aggravarsi della malattia, infatti, cambia i piani, il film si trasforma a poco a poco, in un documentario sulla morte di Nick che viene ripreso nel suo quotidiano, nelle residue attività didattiche e, soprattutto, nelle sue crescenti sofferenze. Film intimista, home movie o “film di famiglia”, film di amicizia e sull’amicizia, film sul cinema e l’amore per il cinema. Il pretesto del film da girare (un film non fatto che genera un film sul film non fatto) consente a Wenders di offrire a Ray un’opportunità per vivere la sua fine raccontandosi, con la camera che trasforma Ray, attraverso Wenders, in un personaggio di Ray, che narra e si narra anche ormai solo es-ponendo il suo corpo. Ricordo come M. Duras morente, cercasse anche lei la narrazione: “Andiamo a vedere l’orrore, la morte” e “sono sola… ho paura”, e “Va bene, ho trovato le parole”, “bisogna chiudere la pagina”. Quando il decadimento, l’esaurirsi della forza vitale non consentono più di costruire la propria narrazione del vomito o della tosse o dei dolori, un altro diviene il “regista” e narra la storia divenuta indicibile. Il film, unico nel suo genere, ha come epilogo la barca del viaggio alla ricerca del ginseng “miracoloso” ormai barca che trasporta l’urna con le ceneri di Nick in mare aperto: accanto, in primo piano, ancora la camera, strumento “miracoloso” della consapevolezza: dov’è la realtà e dov’è la verità?

lunedì 8 dicembre 2008

Roma barocca#3 - Chiesa di S. Maria della Pace





(foto RV)


Quello che fu operato da Pietro da Cortona (1656) non fu soltanto un restauro (eseguito per volere del papa  Alessandro VII) della preesistente chiesa quattrocentesca, ma un vero e proprio intervento urbanistico: la chiesa è infatti inserita in un complesso costituito da due ali laterali, dalla facciata della chiesa stessa e dall’accesso alle viuzze laterali; ne è risultato un capolavoro dell’urbanistica e dell’architettura barocca. La facciata convessa inverte la curvatura dell’esedra di fondo, sporge dal fondale, è arricchita da un pronao semicircolare a colonne doriche binate che prende tutta la larghezza della fronte; la parte superiore, con colonne corinzie, ha al centro un finestrone sormontato da un frontone che ne inquadra uno minore con lo stemma di Alessandro VII: ne risulta un prospetto scenografico ricco di movimento e chiaroscuri.

Il chiostro è il famoso chiostro noto col nome di “chiostro del Bramante".

Merita una sosta l'adiacente Antico Caffè della Pace.

domenica 7 dicembre 2008

Duras#4

Nel 1979 M. Duras realizza un film, Les maines negatives, accompagnato da un testo, dedicato a ciò che più rende simili gli uomini: il dolore di chi si accorge di essere solo di fronte al mondo, chiama l’altro/a, oggi come migliaia di anni fa. M. D. ascolta, vive la fenomenale potenza della solitudine, la violenza non indirizzata del desiderio, che ha in sé qualcosa di primitivo e di irriducibile, dell’ordine del grido; con la sua scrittura cerca di afferrarla, di raggiungerla, la più lontana, di chi non sapeva che gridarla, quando ancora la parola non era stata inventata. Un grido al quale M. D. risponde con la parola, arnese misterioso ed efficace, tra il silenzio e il grido: “io credo che quest’urlo, quest’urlo di desiderio, sia lo stesso di quello che era stato proferito davanti a Dio”. La Duras per quest’opera prende spunto dalle impronte (per questo “negative”) di mani trovate nelle caverne: “Chiamiamo mani negative le pitture di mani trovate nelle grotte magdaleniane [ultimo periodo del paleolitico] dell’Europa Sud-Atlantica. Il contorno di queste mani - completamente aperte sulla pietra - era di uno strato di di colore più frequentemente blu, nero. A volte rosso. Nessuna spiegazione è stata trovata per questa pratica” e dice parole d’amore, rivolte a quegli uomini, agli uomini d’oggi, a sé stessa: “l’uomo solo nella grotta ha guardato/nel rumore/nel rumore del mare/l’immensità delle cose/e ha gridato. Queste mani del blu dell’acqua/del nero del cielo/piatte/posate aperte sul granito grigio/perché qualcuno le veda/io sono quello che chiama/quello che chiamava/che gridava trentamila anni fa/io t’amo/io grido che ti voglio amare, io t’amo…”. Col film, lo strazio di trentamila anni fa è riportato a oggi, attraverso qualcosa che attualizzi quel grido: lo fa attraverso le immagini straniate dell’Opéra o degli Champs Elysées… di una Parigi vista nella lividezza dell’alba di un giorno del 1979. Non ci sono passanti a quell’ora, quando solo le automobili e i camion circolano nelle strade, in una solitudine inospitale che tutto appiattisce in una luce desolante. Il testo che accompagna le immagini non è un elemento in più, non serve a commentare o a illustrare, ma si pone come uno degli elementi della sintesi, costituita proprio dal film, collocato tra passato e presente, tra parola e visione.

mercoledì 3 dicembre 2008

Il mito dell'atemporalità#2

La concezione non lineare ma ciclica del tempo e le opere delle arti figurative sono modi di “fermare il tempo” diversi dalla uscita dal tempo dei contemplativi e configurano quindi esperienze della paradossalità per cui il mezzo si impiega contro il mezzo. La pittura, la scultura, la fotografia… fermano il tempo facendo perdurare lo stimolo, che appare immutato nello svolgersi del flusso percettivo. Ancor più interessanti gli esempi che vengono proprio dalle arti del tempo: la musica e la narrazione. Per la musica, oltre agli esempi che ci offre quella — per esprimerci con un solo aggettivo — orientale, possiamo ricordare, per la musica occidentale, alcune composizioni in cui la ripetizione è usata intenzionalmente ed esplicitamente, come il Clavicembalo ben temperato di Bach, il Bolero di Ravel, Vexations di Satie, il primo movimento della Settima sinfonia di Shostakovich o quelle finalizzate a sfiorare la atemporalità, come le composizioni di una corrente (detta proprio di “musica ripetitiva”) di autori contemporanei come Terry Riley, Steve Reich, Philip Glass, etc. Ma, comunque, la musica o la danza nella loro totalità realizzano la possibilità di offrire l’assoluto proprio nel fluire della forma. Per la letteratura non si può non ricordare la poetica proustiana, secondo la quale per padroneggiare il tempo è necessario arrestarlo. E chi può arrestare il tempo è la narrazione, intesa come una sequenza di metafore sviluppate che il poeta sa cogliere, permettendo di fuggire dalla realtà frammentata che si vive momento in momento e di nutrirsi, invece, dell’essenza delle cose: “il miracolo di un’analogia”, scrive Proust, “mi aveva fatto sfuggire al presente. Lui solo aveva il potere di farmi ritrovare i giorni passati, il tempo perduto”. La scrittura, operando il passaggio dal mondo attuale al mondo rievocato, realizza la sintesi che consente di vivere e godere di quell’essenza e dare esperienze di felicità, tanto da far dire a Proust che “la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. Se ri-cordare, ri-conoscere, ri-vivere sono modalità che caratterizzano le esperienze più intense della nostra vita, possiamo concluderne che la ri-petizione, come elemento di atemporalità, è ben presente nella nostra vita (tutta fatta di ripetizione di archetipi? Vivere = ri-vivere?) come atemporalità dinamica, che può offrirci la possibilità di vivere in due “momenti” di uno “stesso” tempo, e che si contrappone così alla atemporalità statica. Se non si accede pienamente alla coincidenza di Nirvana e samsara, cioè di sacro e profano, non è facile assumere questo punto di vista e anche un pensatore così lucido come Eliade, indagando sull’umana esigenza del sacro e sull’esperienza rituale di unione col divino, osservava come essa non realizzi che un mero effimero contatto, che riporta poi ineluttabilmente l’individuo “nella sua triste condizione umana limitata da attributi e spezzata”; c’è nelle sue parole un rammarico per il fatto che “in tutta la storia religiosa dell’umanità persiste, come una maledizione, questa discontinuità della sperimentazione del sacro. Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato di tutti i giorni, profano. Il “sacro” essendo totalmente diverso dal profano, non può essere sopportato dall’uomo in continuità. In alcuni testi indiani si dice che il brahmano che ‘non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli crea il sacrificio’, è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra, che la sua povera natura creata, limitata, non può sopportare”. L’uomo, dunque, nell’attuale condizione, secondo Eliade, non può “vivere” l’assoluto senza alterarlo, perché non si può “sopportare la vicinanza della divinità se non temporaneamente”. Sentiamo che il totalmente altro è visto ancora come totalmente altrove e quindi che possiamo “afferrarlo” solo in rari momenti di discontinuità del tempo profano. Diversamente, se proviamo a pensare a una esperienza religiosa meno conflittuale, che parta proprio da questa umana debolezza, da usare come forza invece che vivere come maledizione, potremo arrivare a scorgere nel carattere transitorio dei fenomeni il loro aspetto assoluto e nell’impermanenza quella che è stata chiamata la “natura buddhica”. Il totalmente altro non sarà più un altrove, ma l’“altrimenti” di un nuovo punto di vista, con il quale realizzare una conoscenza non-duale della realtà, l’intuizione che la “vanità delle cose” conduce a una quotidianità “tragicamente” redenta. Il limite non sarà allora nel finito che muta, ma piuttosto nell’arresto di quel processo di educazione che porta al “raggiungimento del fine umano”, meta che “inquadra significativamente l’uomo nella creazione e che allo stesso tempo dà a questa un significato” (Jung). 

giovedì 27 novembre 2008

Come eravamo

Qualche anno fa, alla Villette, assistevo a una proiezione di un film sulla vita delle propolazioni “primitive”. La proiezione avveniva nella sala della Géode, su uno schemo gigantesco, emisferico e avvolgente, capace di suscitare la sensazione di essere quasi dentro la scena proiettata. Ne risultava, almeno per me, un’impressione fortemente opprimente e destabilizzante sul tema: “da dove siamo venuti; avrei potuto essere lì e allora anch’io” e, insieme, di gratitudine verso i nostri progenitori “eroici” che hanno aperto la strada alla civiltà di cui godiamo le ricchezze e le raffinatezze.

In questo spirito di “risarcimento” verso culture che sono ancora quello che siamo stati, nel giugno 2006, inaugurando il Musée du quai Branly di antropologia, l’allora Presidente della Repubblica Jacques Chirac diceva che “Il s'agissait pour la France de rendre l'hommage qui leur est dû à des peuples auxquels, au fil des âges, l'histoire a trop souvent fait violence. Peuples brutalisés, exterminés par des conquérants avides et brutaux. Peuples humiliés et méprisés, auxquels on allait jusqu'à dénier qu'ils eussent une histoire. Peuples aujourd'hui encore souvent marginalisés, fragilisés, menacés par l'avancée inexorable de la modernité. Peuples qui veulent néanmoins voir leur dignité restaurée et reconnue”.

In queste settimane il Museo ospita una mostra dedicata a una di queste culture dimenticate o trascurate, quella che “consentirà di scoprire, per la prima volta in Europa, l’insieme delle arti eschimesi, privilegiando un percorso tutt’intorno alla calotta glaciale, dalla Siberia all’Alaska” .

Questa mostra può essere anche l’occasione per ricordare e vedere/rivedere il film Nanuk l’eschimese, che nel 1922 Robert Flaherty girò per conto di una compagnia francese che commerciava in pellicce. Flaherty, che aveva lasciato la scuola mineraria del Michigan e stava compiendo delle spedizioni nel Grande Nord, sentì il bisogno di documentare attraverso la vita della famiglia del cacciatore Nanuk, quella degli abitanti della baia di Hudson (Canada). Con questo capolavoro di antropologia e insieme di poesia (film di culto per tutti i frequentatori di cineclub degli anni passati, ora disponibile in DVD) nasceva il genere documentaristico, il cinema-verità, con la realistica celebrazione di un modo di vita spontaneo, semplice e in armonia con uno degli ambienti naturali più avversi. Nanuk, che qualche anno dopo sarebbe morto di fame in una spedizione di caccia sfortunata, ci ha lasciato, insieme ai suoi familiari, sorrisi penetranti e indifesi, e molte occasioni di riflessione sulla vita: impossibile dimenticarli.

domenica 23 novembre 2008

Cariatidi#4



Fontana delle Cariatidi, opera dello scultore Attilio Selva (1928), in piazza dei Quiriti, nel quartiere Prati a Roma. Foto RV

Pagare il debito


報恩
Un concetto importante per comprendere lo spirito giapponese e l’unità culturale del popolo del Sol Levante è quello della Lealtà-pietà filiale-riconoscenza verso l’imperatore, i genitori, gli esseri senzienti e verso i tre gioielli buddhisti (Buddha, Dhatma e Sangha): avendo ricevuto inestimabili doni si è contratto un debito di riconoscenza che andrà ripagato nel corso della vita. Il termine hoon, impiegato appunto per esprimere la restituzione della gentilezza o il pagamento del debito è scritto con un carattere composto, in cui sono presenti, a sn, la buona fortuna (sfortuna rovescita = felicità) e una persona colpevole, a cui dare la giusta “ricompensa”; a dx, la misericordia che si prova verso una persona costretta, quindi, gentilezza: dunque ricambiare la gentilezza, pagare il debito.

Hoon mi ricorda il dovere del pagamento del debito che tutti abbiamo contratto nel ricevere i doni di cultura, lingua, arte, che hanno formato la nostra personalità, attraverso la “restituzione” da effettuare con l’impegno/dovere/piacere dello studio. Ci sono, infatti: il debito contratto con la “scuola” (colmando le lacune determinatesi nei percosi formativi, quello che ignoriamo o abbiamo dimenticato e dovremmo sapere in forza dei “titoli” conseguiti: “Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola”, diceva Longanesi) e il debito più sottile, elevato, spirituale, contratto con gli autori, le persone e le istituzioni che quei beni hanno creato, offerto, trasmesso, e che ci hanno nutrito, sostenuto, raddrizzato. Con lo studio possiamo contribuire alla vita dello spirito, lavorando contro la dispersione dei tesori immateriali e ridando voce ai morti,  nella perenne attualità della libera vita dello spirito, l’unica forma di immortalità o almeno di persitenza che ci è concessa: studio come preghiera, liturgia, celebrazione, riparazione per i peccati dei rumori e degli orrori dell’oblio e dell’ignoranza.

mercoledì 19 novembre 2008

Il mito dell’atemporalità

M. Eliade nelle sue indagini di fenomenologia della religione ha affermato che l’uomo religioso è dominato da un particolare terrore, il “terrore della storia”. È questo il vissuto che origina dal confronto col dolore, le calamità, la morte, che si dispiegano nel tempo e di fronte al quale nascono le domande religiose. Nell’homo religiosus è presente, infatti, una ribellione contro le iniquità e l’incompletezza dell’esistenza, che spinge a operare per controllare, circoscrivere e superare il negativo mediante un continuo riferimento a una realtà assoluta, radicalmente diversa da “questo” mondo, “totalmente altra” proprio perché è un Tutto non-duale e quindi diverso da ogni aspetto del mondo ordinario, diviso in frammenti e dominato dal dualismo. La storia è sventura e occorre fuggire e trascendere il “mondo”: poiché nel tempo avviene l’incontro dell’uomo con il dolore, nasce la volontà di abolire il tempo e la storia per riscoprire il territorio del totalmente altro, il mondo della “realtà” di fronte al mondo irreale ed effimero (quello che in Oriente viene chiamato il samsara), pieno di contraddizioni e di sofferenze. I miti delle origini, dell’età dell’oro, del peccato intendono narrarci la caduta nel tempo e le sofferenze di questo essere “che porta in sé e su di sé qualcosa di irreale e di non terrestre, che si svela nelle pause della sua febbrilità” (Cioran): ecco la nostalgia del Paradiso, il desiderio di Assoluto, l’esigenza del ritorno.

Ma abbastanza inedita e singolare, perché fatta da un filosofo tacciato di pessimismo, E. M. Cioran (come Eliade anch’egli romeno in esislio), è la riflessione su un’altra “caduta”. Dice Cioran: “Dopo aver sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dove è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta e di questo adattamento si chiama Storia. Ma ecco che lo minaccia un’altra caduta, di cui è ancora difficile valutare l’entità. Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla Storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione […]. Imminente o no, questa caduta è possibile, anzi inevitabile […]. Allora, avendo perduto finanche il ricordo della vera eternità, della sua prima felicità, egli volgerà lo sguardo altrove, verso l’universo temporale, verso quel secondo paradiso da cui sarà stato bandito”: sarà la costrizione, il decadimento del corpo, la vecchiaia e la previsione della morte, vera uscita dal tempo, con la sue nostalgie non più dell’Assoluto ma del relativo, di quelle (forse poche) “rose della vita” che tuttavia a noi è dato incontrare solo nel tempo e nella Storia.

Dobbiamo essere grati a Jung che, in occasione di un viaggio in India, di fronte all'idea del dissolvimento dell'io e della natura, ci ha lasciato una nota di grande sincerità e dalla quale possiamo ricavare un orientamento verso un’altra possibilità di significato: “La meta dell’indiano non è lo stato di perfezione morale, ma il nirvana. Desidera liberarsi dalla natura, e perseguendo questo scopo cerca nella meditazione l’assenza di immagini e il vuoto. Io, invece, desidero permanere in uno stato di viva contemplazione della natura e delle immagini psichiche, non voglio essere liberato dagli uomini né da me stesso né dalla natura: perché tutte queste cose mi sembrano indescrivibili meraviglie. La natura, l’anima, la vita, mi appaiono come la divinità dispiegata: e cosa potrei desiderare di più? Secondo me il significato supremo dell’Essere può consistere solo nel fatto che esso è e non che non è o non è più”. 

sabato 15 novembre 2008

epitaffio

André Scarron (1610-60), poeta libertino, colto e divertente, paralizzato e afflitto fin da giovane da dolori  artritici, lasciò un epitaffio degno della sua ironia:

Celui qui cy maintenant dort

Fit plus de pitié que d'envie,

Et souffrit mille fois la mort

Avant que de perdre la vie.

Passant, ne fais ici de bruit

Garde bien que tu ne l'éveilles :

Car voici la première nuit

Que le pauvre Scarron sommeille

[… passante, non fare rumore, attento a non svegliarlo: perché è la prima notte che al povero Scarron sia dato sonnecchiare].

venerdì 14 novembre 2008

Sulla pazienza#2

Nella omelia pronunciata (in occasione dell’inizio del ministero petrino del vescono di Roma) il 24 04 05 Benedetto XVI ha parlato della pazienza di Dio: “Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini”.

Si parva licet componere magnis queste parole mi fanno riflettere sulla pazienza del (buon) terapeuta che, incoraggiando, fiduciosamente attende il cambiamento come esito del suo intervento.

giovedì 13 novembre 2008

Westner-yana?

Il buddhismo, come noto, una delle grandi religioni universali dell’umanità, nato in India e largamente diffuso in Asia, è oggi presente come significativa minoranza religiosa in Occidente e nel nostro Paese. Si tratta, tuttavia, ancora quelle di un buddhismo d’importazione (con appartenenze e denominazioni che sono proprie delle scuole di provenienza, con liturgie, manifestazioni, modi di rappresentarsi adeguati a contesti culturali altri) e non di un buddhismo occidentale che possa rispondere ai quesiti relativi alla possibilità di inculturazione e — non più emarginato come uno dei tanti gruppi esotici o new age — essere in grado di offrire risposte alle attuali esigenze di spiritualità presenti in Occidente. È ancora allo stato nascente un lavoro di inculturazione che possa essere paragonabile a quello svolto, in modo incredibilmente fecondo, in India, in Cina, in Giappone e che ha consentito — come è stato detto — che esso potesse svilupparsi e maturarsi, ricevendone, rispettivamente, filosofia, pratica, sensibilità. “Non c’è un unico buddhismo”, scrive il maestro vietnamita Thich Nath Hanh, “gli insegnamenti del buddhismo sono molteplici. Quando il buddhismo viene introdotto in una nuova cultura, questa ne produce invariabilmente una forma nuova […]. Sono convinto che l’incontro tra il buddhismo e l’Occidente sarà davvero interessante, produrrà qualcosa di molto importante”. Tuttavia, trattandosi di una tradizione che, da un lato, si è sviluppata lontana da Eschilo e Platone, dal diritto romano e dal cristianesimo, da Pico della Mirandola (De hominis dignitate) e da Cartesio (Cogito), dai “lumi” e dal romanticismo, da Nietzsche e da Freud, ossia dalle radici identitarie della nostra civiltà, dall’altro, si è proposta mete e obiettivi spesso antitetici a quelli della cultura occidentale, le difficoltà non sono trascurabili. Ciò nonostante, da più parti l’esigenza di costruire una via occidentale al buddhismo viene avanzata: da studiosi, da esponenti di altre religioni, da laici (assai meno da scuole e centri buddhisti). Due esempi: il volume di Frédéric Lénoir (studioso, giornalista, direttore della rivista Le Monde des religions), La rencontre du bouddhisme et de l’Occidente, Paris, Albin Michel, 1999), che esamina questo incontro secondo il suo svolgimento storico e nelle sue dimensioni sociali attuali, e l’articolo di p. Michael Fuss (gesuita, docente all’Università gregoriana, autore dell’importante volume Buddhavacana and Dei Verbum, Leiden, Brill, 1991 sul Sutra del Loto), The Emerging Euroyana, in Dharma World, may-june 2005, sulla presenza del buddhismo in Occidente e il dialogo con la Chiesa cattolica.
Le religioni sono interpretabili come dei paradigmi linguistici, dotati di un lessico (un sistema di simboli condivisi, attinti da una determinata cultura), di una grammatica (l’insieme dei concetti, delle pratiche e dei valori), di una sintassi (l’articolazione tra questi concetti e le modalità di dialogo con altri linguaggi) e di una retorica (i modi del comunicare e del persuadere). Il buddhismo è uno di questi paradigmi e, per effettuarne un valido confronto coi princìpi e le strutture sociali proprie della cultura occidentale, si rende necessario un approfondimento dei fondamenti della dottrina e della pedagogia spirituale buddhiste, al fine di svincolarli da interpretazioni legate a tradizioni culturali arcaiche o da volgarizzazioni banalizzanti. Il peggiore dei tradimenti che possa essere operato dell’insegnamento dell’Illuminato riteniamo sia, infatti, quello rappresentato dalla tendenza, oggi assai manifesta e diffusa, della sua trasformazione in ideologia. Di fronte a forme di militanza dottrinaristiche e unilaterali, mistificanti e manipolatorie, per tentare di offrire un contributo a questa “europeizzazione” del buddhismo va riscoperto tutto il valore di una riflessione rispettosa e lucida, collocandosi in una posizione “di soglia”, nella convinzione che, come si espresse Sainte-Beuve, spesso “dobbiamo rimanere sulla soglia. Essere lì significa già tanto”, evitando di fare come gli stolti di cui il poeta A. Pope diceva che “si affollano là dove gli angeli esitano a entrare”: la domanda sarà, pertanto, da privilegiare rispetto alla risposta, il metodo al sistema, il processo all’ente. Una riformulazione del Buddhadharma adeguata al nostro attuale contesto culturale occidentale, sviluppato, complesso, postmoderno… riteniamo non possa realizzarsi senza fare i conti con la spiritualità cristiana, con la scienza, lo spirito critico e comparativo, la democrazia e, soprattutto, senza riconoscere l’assunto etico generale del valore della centralità della persona ossia della promozione, difesa e rispetto del soggetto, dei sui diritti-doveri inviolabili e non negoziabili (diritti dell’uomo), della sua automia illuminata.

Cariatidi#3

Domanda: – Perché le Cariatidi?
– Per parlare con quella costruzione; perché cerco qualcosa che mi ricordi...; perché sono lì in attesa di essere fotografate...

p.za S. Bernardo (fotoRV)

domenica 9 novembre 2008

pratica della pazienza#1/La rivolta degli oggetti

Guy de Maupassant nella novella Chissà!? descrive la incredibile avventura del protagonista, “un solitario, un sognatore”, che viveva nella sua casa, circondato da cose, ninnoli, mobili, ai quali era affezionato tanto da sentirli importanti come persone e che una sera mettono in atto una inspiegabile rivolta e “decidono” di andarsene dalla casa in cui erano “ospiti”. Vi torneranno poi, altrettanto misteriosamente, ma il protagonista essendo rimasto sconvolto per l’accaduto, dopo un viaggio, decide di farsi ricoverare in una casa di cura, pensando di poter essere “lo zimbello d’una bizzarra visione. In fin dei conti, chissa!?”. La letteratura e la musica annoverano altre situazioni simili (basti pensare a Pinocchio, a L’enfant et les sortilèges…), a testimonianza di un rapporto a volte inquietante col mondo degli oggetti, che talora appaiono come animati da una loro vita segreta e indipendente. Ma anche senza arrivare a tanto, è esperienza quotidiana che gli oggetti “resistano” ai nostri voleri, “disubbidiscano” e suscitino per questo reazioni rabbiose: nodi che non si sciolgono, tazze che cadono e vanno in frantumi, schizzi che rovinano i vestiti, computer che cancellano i nostri dati, abiti che si impigliano e si lacerano… e allora quante volte abbiamo visto qualcuno, in preda alla rabbia, “completare” l’opera predendo a calci l’automobile che lo ha lasciato a terra, finendo di strappare un vestito o calpestando quanto resta di un paio di occhiali rotti...: reazioni d’ira e d’impazienza. L’ira è il contrario della pazienza, una virtù considerata minore, non essendo annoverata tra le fondamentali (Platone, Aristotele) o “cardinali” (Sant’Ambrogio), quelle che costituiscono i cardini del comportamento morale: la prudenza e la giustizia (virtù dell’intelligenza), la temperanza e la fortezza o coraggio (virtù della volontà). Anche l’iconografia della pazienza è scarsa, a fronte di quella delle virtù cardinali. Oggi parlare di virtù non è molto di moda (si preferisce parlare di vizi, più suscettibili di analisi psicologiche e sociali), ricorda superate (?) etiche normative e obsoleti catechismi, anche se non mancano coraggiose eccezioni, come le analisi di V. Jankélévitch o di S. Natoli e, quasi incredibile, la Séance publique annuelle che l’Académie française dedica a un “Discorso sulla virtù”, tenuto da uno degli accademici, sempre con profondità, finezza e, a volte, francese ironia.
Tornando agli oggetti, dovremmo realizzare che essi, quando sembrano “resistere” alla nostra volontà, in realtà osservano con umile intelligenza le leggi della fisica che ben “conoscono”: la gravità, l’adesione, le resistenze, gli attriti, la termologia… mentre noi, affrettati, ignoranti e superbi protestiamo scioccamente al minimo intoppo. Allora, una semplice modalità per praticare la pazienza e prevenire una sterile rabbia potrebbe essere proprio questa: controllare i gesti, osservare la situazione con calma, accettare una diversa scansione del tempo, imparare ad aspettare, cercare di capire meglio il problema, adoperare gli strumenti adatti e, soprattutto, sforzarsi per mettersi in accordo e non in antagonismo con gli eventi: se non altro, se ne guadagnerà in eleganza!
Sul complesso rapporto col mondo degli oggetti, chi volesse riflettere e “saperne di più” potrebbe leggere il classico Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, tr. it., Milano, Bompiani, 1972 (che esamina gli oggetti per  collocarli in un sistema di segni) nonché il saggio di Edward Tenner, Perché le cose si ribellano: le conseguenze inattese (e spiacevoli) della tecnologia, tr. it., Milano, Rizzoli, 2001. Consigli pratici sono quelli che offre Mary Lambert, Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa: come fare ordine in casa e nella vita, tr. it., Milano, Corbaccio, 2002, mentre Carla Pasquinelli ci offre un saggio di antropologia del quotidiano in La vertigine dell’ordine: il rapporto tra Sé e la casa, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004. Infine, vari saggi sono compresi nel volume a cura di Franca Franchi, L’immaginario degli oggetti, Milano, Bruno Mondadori, 2007. 

domenica 26 ottobre 2008

Schermaglie#4/Drôle de drame

Michel Houellebecq (come sempre provocatorio e dissacrante) è perentorio: “Jacques Prévert è un c…. Jacques Prévert è qualcuno di cui si imparano le poesie a scuola. Ne risulta che amava i fiori, gli uccelli, i quartieri della vecchia Parigi ecc. Gli pareva che l' amore sbocciasse in un' atmosfera di libertà; più generalmente, era piuttosto per la libertà. Portava un berretto e fumava delle Gauloises; lo si confonde talvolta con Jean Gabin; del resto è stato lui a scrivere la sceneggiatura di Porto delle nebbie, di Mentre Parigi dorme ecc. Ha scritto anche la sceneggiatura di Amanti perduti, considerato il suo capolavoro… L' intelligenza non aiuta affatto a scrivere belle poesie; essa può tuttavia evitare di scriverne di brutte. Se Jacques Prévert è un cattivo poeta è soprattutto perché la sua visione del mondo è piatta, superficiale e falsa. Era già falsa ai suoi tempi; oggi la sua nullità appare lampante, al punto che l' intera opera sembra lo sviluppo di un gigantesco luogo comune. Sul piano filosofico e politico, Jacques Prévert è innanzitutto un libertario; cioè, fondamentalmente, un imbecille”. È vero: ci siamo commossi su Barbara, Cet amour e Les feuilles mortes (il che non è poco!), ma non toccateci le sceneggiature di quei film di una stagione d’oro del cinema francese, quella del cosiddetto “realismo poetico” che senza Prévert non ci sarebbe stata. Sue sono, infatti, le sceneggiature di Il delitto del signor Lange (regìa di Renoir), Jenny, Drôle de drame (Lo strano dramma del dottor Molineaux), Le quai des brumes (Il porto delle nebbie), Hôtel du Nord (Albergo Nord), Le jour se lève (Alba tragica), Les visiteur du soir (L’amore e il diavolo), Les enfants du paradis (Amanti perduti), Les portes de la nuit (Mentre Parigi dorme), etc. (tutti per /con Carné). Sappiamo: i temi del destino, della solitudine, dell’amore impossibile, ma in questi tempi cupi rivedere Drôle de drame è una vera consolazione e non possiamo non essere grati al tandem Carné-Prévert per i film che ci hanno regalato. Del 1937, Drôle de drame (il titolo venne da una battuta di commento del soggetto:  “Che strana storia!” = Drôle de drame) è un capolavoro di umorismo, di freschezza e di eleganza in cui vaudeville francese, humour inglese e burlesque americano sono fusi insieme, in una scintillante sequenza di imprevisti “catastrofici” derivanti da una ingenua bugia. È un susseguirsi di battute, aforismi, proverbi, una sorta di pièce teatrale (amava il teatro Carné e al teatro è dedicato il suo capolavoro Les enfants du paradis) in cui gli interpreti Michel Simon, Louis Jouvet, Jean-Louis Barrault (quasi tre stili teatrali: clown, boulevard, mimo), ancora agli inizi, sono infaticabili, perfetti, indimenticabili. Troppo innovativo per il tempo in cui fu creato, all’uscita il film non ebbe successo, ma con gli anni, prima attraverso i circoli del cinema, poi attraverso i DVD ha ormai ricevuto il suo status di “oevres culte”. Il coté politico-sociale ha contribuito, nel dopoguerra, a farlo riscoprire e apprezzare da una certa critica “orientata”, ma la satira non risparmia nessuno: preti, giornalisti, poliziotti, personaggi “per bene” e miserabili, tutti con qualcosa da nascondere e dissimulare, identità da perdere e, infine, da riguadagnare. Una battuta, un po’ misteriosa (veniva da un aneddoto riguardante Toulouse-Lautrec e raccolto da Carné-Prévert), preludio all’intrigarsi della trama e allusione alla stranezza di tutto l’insieme, pronunciata da Monsignor Soper (L. Jouvet): “…Bizarre, bizarre…”, è quella più ricordata ed è ormai  il simbolo del film: forse perché così è la vita!  

martedì 21 ottobre 2008

Viva la grammatica!

Montaigne sentenzia: “la maggior parte delle occasioni degli sconvolgimenti del mondo sono grammaticali”. Dunque, avanti con lo studio della grammatica, deliziandoci, per esempio, con quella, ancora reperibile, di Alfredo Panzini (II ed. 1933). Alla voce avverbio leggiamo: “è una parola che accelera, rallenta, frena, modifica il movimento del verbo, ne determina la direzione, il tempo, il luogo, il modo. Avverbio appunto vuol dire: che sta vicino al verbo. ‘Poco vedete e parvi veder molto. Di qua, di là, di su, di giù li mena’”.

Che chiarezza e che magnifici quartetti!

venerdì 17 ottobre 2008

Usa, un senatore vuole fare causa a Dio (da La Repubblica)

Aveva fatto causa a Dio, responsabile, a suo dire, di aver diffuso paura e terrore in tutto il mondo. Ma il procedimento giudiziario non avrà alcun seguito: un giudice del Nebraska lo ha infatti respinto, perché Dio non ha alcun indirizzo al quale poter notificare l'avvio della causa. Si chiude così la vicenda che vede protagonista lo storico senatore democratico del Nebraska, Ernie Chambers, che, il 14 settembre dello scorso anno, aveva depositato la sua provocatoria causa in una corte del Nebraska. 

Secondo il documento redatto dal senatore 71enne (definito da molti "l'uomo di colore più arrabbiato di tutto lo Stato"), Dio e tutti i suoi seguaci, sarebbero responsabili "delle continue minacce terroristiche, con conseguenti danni per milioni e milioni di persone in tutto il mondo". Minacce la cui credibilità è avallata, secondo Chambers, "dalla storia personale di Dio". 
Nel documento gli si attribuisce anche la responsabilità di "terremoti, uragani, guerre e nascite di bimbi con malformazioni". Ancora: Dio è accusato di aver "distribuito, in forma scritta, documenti che servono a trasmettere paura, ansia, terrore e incertezza, al fine di ottenere obbedienza" da parte degli uomini. 
Chambers ha spiegato di aver avviato questo procedimento per dimostrare che "tutti possono avere accesso a una corte, indipendentemente dal fatto se siano ricchi o poveri" e per sottolineare che "ognuno può essere citato in giudizio". Il suo obiettivo era di ottenere dai giudici una diffida, in cui si sarebbe dovuto sollecitare Dio a interrompere ogni genere di "minaccia" sul mondo. La causa, comunque, non avrà alcun seguito, perché "non è stato possibile reperire un indirizzo ufficiale di Dio". Il giudice Marlon Polk si è appellato a una legge del Nebraska, secondo la quale chi avvia un procedimento giudiziario deve avere l'indirizzo della persona chiamata a difendersi in aula. 

Chambers non si dà per vinto, e anzi si è detto soddisfatto della decisione del giudice. "La corte - ha dichiarato - ha ammesso l'esistenza di Dio. La conseguenza di questa decisione è che viene riconosciuta l'onniscienza di Dio. Quindi, se è vero che sa tutto, deve anche essere a conoscenza di questa causa". Il senatore, che è in carica da 38 anni, ha adesso 30 giorni di tempo per decidere se fare appello. Marco Pasqua (16 10 08).