giovedì 24 marzo 2011

Consapevolezza della precarietà







BŌ/hakana(i)

Per significare ciò che è momentaneo, effimero, evanescente, vano, 
vuoto, 
incostante, instabile, fragile, misero, la lingua giapponese usa 
alcune parole, tra cui hakana(i). Questa parola è scritta con un carattere 
composto da due elementi, quello di sinistra che indica uomo e quello di 
destra che indica sogno. Calderón non aveva detto che La vida es sueño 
[La vita è sogno]?

giovedì 17 marzo 2011

Forza o insensibilità?


Di fronte alla tragedia che in questi giorni sta vivendo il Giappone sorprende il modo in cui TV, giornali, conversazioni private reagiscono alla visione dei comportamenti dei giapponesi di fronte alla catastrofe: si va dall’ammirazione della “dignità”, della forza e dell’autocontrollo a un non del tutto espresso fastidio per la “calma disumana”, l’indifferenza, etc. In realtà, mancano le categorie interpretative delle condotte di persone appartenenti a una cultura che, sotto la superficie della modernizzazione e della tecnologia, ha un’anima fortemente diversa da quella di noi occidentali, per cui si evidenzia — ancora una volta — la necessità della mediazione culturale (di junghiana memoria). Provo a elencare qualche elemento che ritengo utile per una più aderente e rispettosa comprensione, così come mi viene suggerito dalla mia esperienza e dalla mia (sia pur limitata) conoscenza di quella cultura.  
Il punto che mi sembra fondamentale è rappresentato dalla diversa concezione del soggetto e del suo posto nel mondo, in gran parte dovuta all’influenza della visione del mondo buddhista, elemento fondamentale dell’identità giapponese, al di là dei confini stessi della tradizione religiosa:
• l’individuo non si sente autosufficiente e questo determina il suo sentimento di dipendenza (la parola amae esprime sia la dipendenza che la tenerezza, mostrando, se si vuole, un certo coté infantile o conformista: “Il chiodo che sporge è quello che prende le martellate”); l’individuo conta poco e può chiedere poco, anzi quel che può chiedere è di partecipare a qualcosa che conta;
• il sentimento del pudore (la cui area si è progressivamente ristretta in Occidente) conserva lì tutta la sua forza, per cui le emozioni non sono assenti, ma ne viene controllata l’espressione (ci si copre se si ride, si evita di piangere in pubblico, etc.) e la comunicazione non verbale o silenziosa è considerata non meno intensa di quella parlata o mostrata. Una manifestazione emotiva scomposta mostra una inflazione egoica che contrasta con l’impegno a dedicare la propria vita incondizionatamente a un compito (per questo anche oggi si parla, più o meno appropriatamente, di samurai o kamikaze, ad es., per i lavoratori della Compagnia elettrica nella centrale nucleare di Fukushima). L’individuo avendo ricevuto inestimabili doni, ha contratto un debito di riconoscenza che andrà ripagato, nel corso della vita, con il massimo impegno e in tutti i campi, nei confronti dell’Imperatore, della Nazione, dei genitori, della famiglia, di tutti gli esseri senzienti, dei tre gioielli buddhisti (Buddha, Dharma e Sangha). Anche la solidarietà autorealizzativa rientra quindi nel “pagamento del debito” e la pietà filiale-lealtà fonda l’unità culturale del popolo;
• non va dimenticato che quella che può apparire come indifferenza o rassegnazione può contenere dentro di sé una forma di contemplazione: di fronte all’ineluttabile, è inutile agitarsi o imprecare, ma occorre prendere atto di ciò che è accaduto o sta accadendo (shikata-ga-nai); contemplazione e riflessione che sono paragonabili, ad es., a quello che, solitamente, esprimiamo nel nostro atteggiamento di fronte a un defunto;
• educazione è in gran parte imparare a seguire delle regole, delle vie (-do: judo, kyodo, shodo, chado…); essere preparati è sapere cosa fare, sia nella vita pratica quotidiana (prevenzione per fronteggiare le situazioni rischiose) sia come concetto estetico (keishiki-ka, formalizzazione, per cui ogni azione viene regolata da norme), da cui l’eleganza tesa a raggiungere la bellezza della perfezione (kanzen shugi);
• di matrice più direttamente buddhista è la consapevolezza dell’impermanenza: tutto quello che ha forma è destinato a scomparire (“La forma è Vacuità”); il godimento  e la commozione di fronte alla bellezza, dell’arte o della natura, non sono disgiunti dalla tristezza e dal rimpianto per la sua fugacità (utsukushisa to kanashimi to, secondo l’estetica del mono no aware o lo straziante delle cose); non meno doloroso è il fatto che la promessa di rinnovamento risieda nella precarietà delle cose e debba quindi passare attraverso la negazione, la morte e la distruzione;
• il non-dualismo tra natura e cultura rende la Natura né amica né nemica e l’uomo ne è parte indissolubile; il non-dualismo tra individuo e società non fa addossare le colpe agli “altri” perché l’individuo è parte della comunità e le responsabilità sono condivise da tutti;
• la vita è meno importante della dignità e della lealtà, per cui di fronte a un conflitto di doveri la morte rituale (seppuku), non depressiva ma eroica, può divenire l’unica tragica via di uscita (come mostra la storia archetipica dei 47 samurai, Chushingura). 

domenica 13 marzo 2011

venerdì 11 marzo 2011

Terrorismo religioso


È ormai largamente nota la storia dei sette monaci trappisti del monastero di Thibhirine in Algeria che, nel 1996 furono sequestrati da un gruppo armato, qualificatosi come Gruppo islamisa armato, e successivamente trucidati. Il film di Xavier Beauvois, Des hommes et des dieux [Uomini di Dio], è stato consacrato a tale tragedia (che presenta ancora lati oscuri) e a molti è stata data questa ulteriore occasione per venirne a conoscenza.
Sfugge, invece, alla generale attenzione un’altra tragedia che si consuma in questo periodo nel sud della Thailandia, in cui gli insorti islamisti, che intendono ristabilire l’antico sultanato di Pattani, stanno conducendo una spietata guerra alla comunità buddhista, senza che il governo centrale sia in grado di mettere fine a questa strage. Composta da 320000 persone nel 2004, oggi la comunità buddhista del sud si è ridotta a meno di 100000 e la ONG Human Rights Watch denuncia 11000 atti di violenza, circa 500 morti, di cui 30 monaci e 200 insegnanti, 8000 feriti.
Non sarebbe ora di rompere questo silenzio?
(Notizie dal quotidiano Le Figaro)

mercoledì 9 marzo 2011

Schermaglie#18/Cigni bianchi e cigni neri

Il film (Black Swan) è stracolmo di significati e può avere molti piani di lettura. Tanto è già stato scritto (Cahiers du cinéma, Il Foglio, Corriere della sera…), alcune piste già a sufficienza battute: sesso e adolescenza, madri incombenti, durezza della vita dei ballerini… Concentro, quindi, la mia attenzione su un aspetto, centrale peraltro, che è quello — in termini junghiani — dell’individuazione o integrazione della personalità o realizzazione dell’uomo totale. “Uomo totale” è l’uomo che ha compiuto o sta percorrendo il cammino di “individuazione”, di integrazione delle diverse parti della sua personalità per realizzare la sua completezza, con la «trasformazione dell’uomo, sino a quel momento frammentario, in un tutto unito e completo. Per quel che la totalità dell’uomo, il suo “Sé”, possa intrinsecamente significare, questo “Sé” costituisce empiricamente un’immagine dello scopo della vita prodotta spontaneamente dall’inconscio, al di là dei desideri e dei timori della coscienza. Esso rappresenta lo scopo dell’uomo totale, vale a dire la realizzazione della sua totalità e della sua individualità, consenziente o meno la sua volontà. Forza motrice di questo processo è l’istinto che provvede affinché tutto quanto deve far parte di una vita individuale ne faccia effettivamente parte, sia con, sia senza il consenso del soggetto, sia che questi abbia sia che non abbia coscienza di quanto sta avvenendo» (Opere, XI, p. 440). Perché il processo di individuazione possa realizzarsi è dunque necessario accogliere quella «parte di personalità che l’uomo cosciente dovrebbe integrare per realizzare la sua completezza. È dapprima un frammento di scarsa importanza […] ma, allo stesso tempo, insieme a quel frammento che potrebbe completare la nostra coscienza rendendola una totalità, nell’inconscio è già presente anche quella stessa totalità, ossia l’homus totus degli alchimisti occidentali e l’uomo vero (chen-yen) degli alchimisti cinesi, l’essere primordiale sferico che rappresenta l’uomo interiore più grande, l’Anthropos che è affine alla divinità. È inevitabile che quest’uomo interiore sia in parte inconscio, poiché la coscienza in quanto semplice parte di un uomo non può coglierne la totalità. Ma l’uomo totale è sempre presente, dato che la scomposizione del fenomeno umano è un effetto della coscienza, che è composta soltanto di rappresentazioni sovraliminari» (Opere, XIV, p. 124 s.). E va notato che ogni separazione dicotomica porta in sé la possibilità di integrazione e mette a disposizione strumenti per una possibile integrazione.
È questa integrazione che cerca di realizzare la protagonista Nina, la quale, sulla scena (Lago dei cigni) e nella vita, vuole esprimere il cigno bianco e il cigno nero, portare alla luce la sua metà oscura, unire le due facce della sua personalità. La Totalità come espressione di pienezza di tutti gli aspetti della personalità è la meta dell’esistenza, da realizzare attraverso superamento e integrazione degli opposti con un lavoro in cui ogni scalino richiede disciplina, sacrificio, perseveranza, Totalità che è superamento degli attributi, caratterizzanti il mondo finito, attraverso la loro “totalizzazione”. «Posso dominare un opposto solo in quanto, attraverso la percezione di entrambi, me ne libero giungendo così al centro. Là soltanto non sono più sottoposto agli opposti» (Opere, XI, p. 476 s.). Quando due opposti si uniscono e giungono a una sintesi il risultato è l’acquisizione di un più alto livello di esistenza.
Nel film al “lavoro” psicologico della protagonista si sovrappone il lavoro professionale e si palesa tutta la violenza connessa all’ansia di perfezione unita alla conquista dell’eccellenza. Il difficile compito la scinde invece di unificarla, per cui attraversa una fase psicotica e compie il suo finale martirio in back stage. Il regista Aronofsky è spinto da una sorta di ossessione: la ricerca della perfezione. Perfetto (da perfectum, part. pass. di perficere, da per, fino in fondo, e facere, fare, compiere, a sua volta da complere, riempire, da cum, intensivo, e plenus, pieno) non è l’illimitato, ma quel che viene compiutamente eseguito, colmando la misura, che non ha bisogno d’altro, capace di “arrestare” il corso del tempo e su cui si può sostare. Molti sono i possibili livelli della perfezione così intesa e l’integrazione individuante ne conosce infinite realizzazioni, anche se spesso ed erroneamente consideriamo sinonimi perfezione ed eccellenza (esempi: «Tutto è compiuto» sulla Croce, perfetta è la cerimonia del tè di Sen no Rikyu, perfetti il gesto di Nureyev e il canto della Callas, l’abbraccio di S. Francesco, la Prospettiva borrominiana di Palazzo Spada e le forme degli edifici smisurati che l’architetto Boullée progettava...). La perfezione nell’eccellenza ha i suoi martiri (ricordiamo i suicidi Sen no Rikyu, Borromini, Vatel, Mishima..., per citare solo alcuni di coloro che, in campi, in tempi e in contesti diversi, hanno espresso il “pericolo” insito nel loro essere stati troppo a lungo o troppo vicini alla Totalità, ricordandoci il rischio del raggiungimento dell’eccellenza nella “intermittenza del cuore”) e Nina muore dicendo «Ero perfetta», riferendosi alla sua ultima-unica performance. Ma la compiutezza nella coscienza del martirio ha un valore assai più ampio perché anche la mortificante esperienza di un dolore irredimibile, di cui non è dato superamento in nessuna possibile creatività e in nessun “racconto”, può trovare il suo “compimento” proprio nell’unica “perfezione” accessibile a chi tutto ha perso e ha, solo nella coscienza del martirio, l’estrema possibilità di trasformare in una costruzione di volontà indipendente, il massimo della soggezione, passando dalla “perdita di potere” al “potere della perdita”: riaffermazione della soggettività nella coscienza del sopruso e affermazione di un valore “altro” rispetto alla Legge (di Dio, della vita, della società…).
Su un piano di equilibrio psicologico-psicoterapeutico, infine, se l’integrazione va realizzata sempre e da tutti, la ricerca dell’eccellenza piuttosto che obbedienza al dàimon può rivelarsi espressione di narcisismo, assenza di limiti, immaturità ed essere quindi non solo distruttiva ma insensata e in-concludente: una forma di hýbris (con Icaro come figura archetipica della aspirazione all’eccellenza senza misura che conduce all'autodistruzione, da non confondere coi costi e i sacrifici dell'individuazione).