lunedì 30 gennaio 2012

Sulla pazienza#10/Remo Cantoni e i limiti della pazienza

Remo Cantoni (1914-78), il giovane brillante filosofo che negli anni Cinquanta ci introduceva al pensiero di Kierkegaard (La coscienza inquieta: Soren Kiekegaard) e all’antropologia filosofica (Mito e storia), in La vita quotidiana  dedica alcune riflessioni al tema della pazienza che mi sembrano meritevoli di ricordo per il loro sottolineare i limiti di questa virtù. «La pazienza umana, diversamente da quella dell’asino che trotta sotto la soma e non si ribella mai, è una virtù consapevole esercitata in vista di un fine», egli afferma collocando la pazienza nel tempo dell’attesa, che rinvia l’azione fino a quando non sia raggiunta la pienezza dell’ora. Non si tratta, dunque, né dell’attendismo di chi non vuole compromettersi né di quell’intimismo che porta a vivere solo nel proprio mondo soggettivo senza mai confrontarsi con la serietà dell’esperienza (finendo poi in accidia o in depressione). Cantoni sottolinea che se l’attesa paziente e laboriosa travalica i limiti e tradisce la propria natura ci ritroveremmo di fronte alla virtù dell’asino e non a quella dell’uomo. «È infatti giusto in certi casi perdere la pazienza. […] L’impazienza è doverosa e liberatrice quando la pazienza è stata messa a troppo dura e inutile prova». Non un minuto di meno, dunque, ma neanche un minuto di più per passare all’azione, quando si tratta di affermare nel fare i valori in cui crediamo e di non disattendere gli impegni che ci siamo presi.

domenica 22 gennaio 2012

Nel mio cantuccio d’ombra romita...

L'ora di Barga
Al mio cantuccio donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.

Tu dici, È l'ora; tu dici, È tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.

Lasciami immoto qui rimanere
fra tanto moto d'ale e di fronde;
e udire il gallo che da un podere
chiama, e da un altro l'altro risponde,
e quando altrove l'anima è fissa
gli strilli d'una cincia che rissa.

E suona ancora l'ora e mi manda
prima un suo grido di meraviglia
tinnulo, e quindi con la sua blanda
voce di prima parla e consiglia,
e grave grave grave m'incuora:
mi dice, È tardi; mi dice, È l'ora.

Tu vuoi che pensi dunque al ritorno
voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi:
ma un poco ancora lascia che guardi.

Lascia che guardi dentro il mio cuore.
lascia ch'io viva del mio passato;
se c'è sul bronco sempre quel fiore,
s'io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d'ombra romita
lascia ch'io pianga su la mia vita!

E suona ancora l'ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l'ora! Sì ritorniamo
dove son quelli ch'amano ed amo.
(dai Canti di Castelvecchio)

Rifugiato nel suo «cantuccio d’ombra romita» (angulus umbrae, terrarum angulus, cantuccio di mondo…), Pascoli vien raggiunto dal «suon dell’ore» (ricordo leopardiano) dell’orologio di Barga (nella cui frazione di Castelvecchio egli si trova) e avverte il suono della campana come voce (metafora!) che lo chiama e lo persuade infine a uscire dal suo immobilismo, nel quale vorrebbe restare «un poco ancora» chiedendo: «lascia ch’io pianga su la mia vita». Ma è ormai tempo di andare, anzi di tornare, al di là della vita, «dove son quelli ch’amano ed amo».
Non voglio “commentare” la poesia (basta cercare, non si fa molta fatica a trovare commenti), ma penso a quel pianto del poeta che, pur nascosto nel suo piccolo rifugio, non rimane in silenzio, al suo pianto che non rimane solo vissuto, ma viene scritto, ed è ormai davanti e dentro di noi che lo leggiamo. Che strano meraviglioso bisogno, quello del poeta, di andare oltre, oggettivare, narrare… E non è per dare voce ai pianti che non sono stati scritti che il poeta scrive dei suoi per veicolare quelli? E perché, anch’io, ora, "devo" scrivere di questa lettura?

venerdì 20 gennaio 2012

Schermaglie#23/La chiave di Sara

In occasione della Giornata della memoria 2012 viene in vari luoghi proiettato il film di Gilles Paquet-Brenner, La chiave di Sara (Elle s’appelait Sarah, 2010). Il film prende spunto dalla vicenda del Velodromo d’inverno, il luogo in cui migliaia di ebrei parigini, rastrellati fra il 16 ed il 17 luglio 1942, furono rinchiusi in condizioni disumane, per essere poi deportati nei campi di sterminio, e narra dell’impegno di una giornalista per ricostruire una storia, ridare identità a persone scomparse, prendere le distanze da una vergogna familiare, per liberarsene.

Nonostante alcune insufficienze e concessioni all’enterteinment, il film, da non perdere, rimane visibilissimo e appassionante (fazzoletti!), e sollecita ad andare oltre la vicenda storica come fatto circoscritto in un tempo, un luogo, personaggi, cosa che potrebbe anche far dire “questo non ci riguarda”. Quella vicenda, invece, ci riguarda perché archetipica e porta a confrontarci con le persecuzioni grandi e piccole che subiamo, con la faticosa costruzione dell’identità, con la gestione delle perdite, spingendoci ad approfondire in tutto il suo spessore il nostro rapporto col male e la perenne dialettica tra viltà e compassione, verità e menzogna, generosità e rancore.
Il racconto così divene Storia e la memoria Memoria, e consapevolezza della nostra umanità.

Cariatidi e dintorni#36/Vienna



Cariatidi della Sala d'oro del Musikverein di Vienna

venerdì 6 gennaio 2012

Schermaglie#22/Je vous salue, Marie

Rivedendolo oggi, Je vous salue, Marie (1985) è più facile che venga percepito come un film puro, semplice e appassionato nel suo desiderio di andare a vedere ciò che è da sempre sentito come un tabù: come nasce una vita, come fa un’idea a realizzarsi, come fa una sceneggiatura a incarnarsi negli attori per diventare un film, cosa passa tra un uomo e una donna, qual è la forza e la realtà dell’incesto (in Maria duplice e reversibile: Dio e la figlia Maria, Maria e suo figlio Dio-Gesù)?  La donna, sempre aperta a ricevere la Vita che viene da lontano (sulla Terra è venuta dallo spazio, insinua Godard con la lezione di astrofisica, per cui noi siamo tutti extra-terrestri, e con l’aereo-astronave che si ripresenta nei momenti cruciali), molto più da lontano che dal maschio-compagno, resta sempre misteriosa e chiusa (sempre “vergine”, anche se madre) per l’uomo, un sofferente incompreso e isolato, confrontato con una maternità incomprensibile, in conflitto con una sessualità prepotente. E il corpo, che ci appartiene ed è la nostra prigione, mistero dei misteri, in cui non sappiamo come si entra e da cui ignoriamo come si esca, mistero di tutte le in- e dis-incarnazioni.
La didascalia “En ce temps là”, che compare frequentemente, a ogni episodio, non ritengo voglia ricordarci che si sta rievocando un un evento del passato, ma presentarci un mito, un racconto esemplare e archetipico di cose accadute “in illo tempore”, nel tempo magico dell’inizio, e che sempre si ri-attualizzano, oggi e in futuro.
Con questo film lucido e puro, che è tuttavia riuscito a dividere i cattolici, Godard ci mostra "come si fa un’immagine, come si filma la musica, le stagioni, il sole, il cielo, i campi, come si stampa un nudo di donna senza rifare la pagina centrale di Playboy" (cfr. Cahiers du cinéma).