venerdì 23 settembre 2011

Equinozio d'autunno (con Poussin)

Continuando a scandire il passaggio delle stagioni con la guida di Nicolas Poussin (v. post del 21 giu. 2011: Solstizio d’estate) siamo ora al quadro dedicato all’Autunno. È il tempo della raccolta dei frutti della terra e il pittore ci mostra l’uomo inserito non solo nella natura ma, anche e soprattutto, in un’altra storia: quella della salvezza. Vediamo infatti una donna raccogliere i frutti da un albero carico di doni, mentre due uomini trasportano un grosso grappolo e un’altra donna cammina in un’altra direzione, portando un cesto sul capo; sullo sfondo una città misteriosa si erge sulle rocce. Il contrasto cromatico tra i colori del cielo e i colori della terra ci invita a una lettura allegorica, a scorgere quel che l’occhio non vede. Poussin ha, infatti, ben presente un episodio biblico (narrato nel libro dei Numeri, cap. 13) in cui Mosè manda alcuni dei suoi uomini a esplorare la terra verso la quale egli vuole/deve condurre il suo popolo:

Nm 13 [17]Mosè dunque li mandò a esplorare il paese di Canaan e disse loro: «Salite attraverso il Negheb; poi salirete alla regione montana [18]e osserverete che paese sia, che popolo l'abiti, se forte o debole, se poco o molto numeroso; [19]come sia la regione che esso abita, se buona o cattiva, e come siano le città dove abita, se siano accampamenti o luoghi fortificati; [20]come sia il terreno, se fertile o sterile, se vi siano alberi o no. Siate coraggiosi e portate frutti del paese». Era il tempo in cui cominciava a maturare l'uva.   [21]Quelli dunque salirono ed esplorarono il paese dal deserto di Sin, fino a Recob, in direzione di Amat. [22]Salirono attraverso il Negheb e andarono fino a Ebron, dove erano Achiman, Sesai e Talmai, figli di Anak. Ora Ebron era stata edificata sette anni prima di Tanis in Egitto. [23]Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d'uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi.   [24]Quel luogo fu chiamato valle di Escol a causa del grappolo d'uva che gli Israeliti vi tagliarono.

Il quadro, a questo punto, ci appare come una perfetta illustrazione del passo biblico, reinterpretabile in luce cristiana. Il grosso grappolo centrale diviene quindi simbolo del Cristo appeso alla croce e l’uva, che sarà vino, quello del suo sangue. I due alberi, uno spoglio e l’altro ricco, possono essere visti come immagini, rispettivamente, della sinagoga e della Chiesa. La donna sull’albero è la Chiesa che raccoglie i frutti dell’albero della vita, mentre la donna col cesto è la sinagoga, che cammina con un velo davanti agli occhi che non le consente di vedere né il percorso né l’albero della vita. 

venerdì 16 settembre 2011

Consolazione#5/Belli e i Confortatori


Esisteva, nella Roma papale, la Confraternita fiorentina di San Giovanni, che si era dato il compito di assistere i condannati a morte, confortarli, raccoglierne le estreme volontà, farli morire “in grazia di Dio” e poi curarne la sepoltura. Il condannato veniva accompagnato, dalle carceri (Tor di Nona, via Giulia…) al luogo dell’esecuzione (Campo de’ Fiori o piazza del Popolo…), da questa lugubre comitiva nerovestita e da un sacerdote. Chi rifiutava questo tipo di assistenza veniva, poco caritatevolmente, sepolto in terra “sconsacrata”, in fossa comune e senza riti. Come si può immaginare, questi consolatori istituzionalizzati mostravano spesso comportamenti convenzionali, stereotipati ed enfatici che non potevano sfuggire alla critica popolare e all’osservazione caustica di G. G. Belli, il quale dedicò loro il seguente sonetto intitolato, appunto, Er Confortatore (ci ricorda niente di attuale?):

Sta notte a mezza notte er carcerato
sente uprì er chiavistello de le porte,
e fasse avanti un zervo de Pilato [mandatario del tribunale]
a dije: “Er fischio [il fisco, il magistrato] te condanna a morte”.
Poi tra du’ torce de sego incerato,
co du’ guardiani e du’ bracchi de corte [sbirri],
entra un confortatore ammascherato [col saio nero e cappuccio],
coll’occhi lustri e co le guance storte [in espressione studiata].

Te l’abbraccica ar collo a l’improviso,
strillanno: “Alegri, fijo mio:
riduna le forze pe volà su in paradiso”.

“Che alegri, cazzo! Alegri la luna!”
quello arisponne: “Pozziate èsse acciso;
pijatela pe vvoi tanta furtuna”.


venerdì 9 settembre 2011

Cariatidi e dintorni#34/Roma liberty


via E. De’ Cavalieri, Roma
(foto RV)

domenica 4 settembre 2011

L'ussaro di Giono


Jean Giono (1895-1970) è stato uno scrittore che la critica ha avuto difficoltà a “collocare”, etichettandolo come autore “regionalista”, pacifista, collaborazionista, stendhaliano… La sua “maniera” è passata, infatti, attraverso una profonda mutazione, dal roman de terroir al roman moral, da una visione animistica, pampsichistica, di comunione fusionale con la natura a una consapevolezza più matura, riflessiva, tragica, di un mondo che divora le forme.
LUssaro sul tetto, il suo romanzo più celebre, è la storia di un ufficiale piemontese di cavalleria, carbonaro, in fuga dal suo Paese agli inizi degli anni Trenta del secolo XIX, che cerca rifugio in Francia e si imbatte nell’epidemia di colera che colpì parte dell’Europa in quel periodo. Le peregrinazioni, un amore intenso, ma più che “platonico” senza nome e non dichiarato; le viltà, crudeltà, ambizioni politiche degli uomini messi in situazioni estreme si contrappongono allo spirito cavalleresco, alla fedeltà alla propria immagine ideale, alla generosità quasi autodistruttiva  del protagonista. Il colera può essere letto come allegoria della guerra, delle malattie morali, del fascino della dissoluzione, al quale si può forse sfuggire individuando qualcosa di più forte, più bello, più seducente della morte. Come, sicuramente, la felicità dello scrivere, la narrazione fluida, le avventure, le immagini e le metafore smaglianti proprie di Giono: per esempio, «[le tegole] erano bagnate da uno sciroppo di luce quasi opaco… la scacchiera di un tetto, la seta di un muro, l’orbita di una finestra… le cinciallegre impazziscono e gettano schizzi azzurri nel sole…».
Di questo romanzo esiste un adattamento cinematografico dovuto a J.-P- Rappeneau (1995), ben interpretato (Juliette Binoche, Olivier Martinez, Gérard Depardieu, Claudio Amendola, Pierre Arditi…), curato, dignitoso anche se, come quasi sempre, troppo scarno rispetto alla ricchezza e allo stile del libro.