giovedì 29 gennaio 2015

Cariatidi e dintorni#47/angeli per Innocenzo X


La chiesa di S. Agnese in Agone fu concepita come cappella di famiglia e mausoleo di papa Innocenzo X Pamhilj (1574-1655; papa negli anni 1644-55). Dopo vari progetti, la sua tomba fu collocata sopra la porta di entrata. La cantoria (ideata dal Rainaldi, 1659-62) è sostenuta da due coppie di angeli-cariatidi, con le mani incrociate sul petto  (di Domenico Poli e Isidoro Baratta). Sul bordo dell’urna figure allegoriche della Religione a sn e della Giustizia a dx (di Giovanni Battista Maini).

(foto RV)

mercoledì 21 gennaio 2015

Sottomissione

Con una inimmaginabile “puntualità” Sottomissione usciva in sincronia con l’orrendo attacco alla redazione di Charlie Hebdo. Michel Houellebecq, lo scrittore francese più discusso, inquietante e interessante del momento, non poteva certo immaginare che il suo romanzo, che direi appartenere al genere (se esistesse) del “realismo profetico”, uscisse proprio il 7 gennaio, in cui, tra l’altro, trovava la morte nella strage anche il suo amico economista Bernard Maris, cosa che lo ha lasciato sconvolto e (ancor più) depresso. Cassandra è sempre tra noi!
Uno scrittore può cogliere le tensioni, i movimenti, le paure della società in cui vive, che spesso non appaiono alla superficie sulla quale si agitano politici e gazzettieri insignificanti perché, più di analisti patentati, è capace di scendere in profondità attraverso quei sottili crepacci che individui, gruppi e istituzioni lasciano aperti alla sua penetrante intuizione. Houellebecq lo fa, in questo romanzo, seguendo la vicenda, che vuole essere paradigmatica e illuminante sullo stato del Paese, di François, un professore di letteratura alla Università di Paris III (Sorbonne Nouvelle). Studioso di Joris-Karl Huysman (1848-1907), autore di À rebours [A ritroso/Controcorrente], il romanzo che negli anni di università chiamavamo la “bibbia del decadentismo”, gli viene affidata la cura della pubblicazione delle sue opere nella prestigiosa collana della Pléiade-Gallimard (dove effettivamente questo autore è ancora assente: forse, dopo Sottomissione, l’editore provvederà presto a colmare questa inspiegabile lacuna) e che ci viene fatto conoscere nella sua solitudine di intellettuale con pochi soldi, nei suoi nomadismi erotici, nei suoi scoraggiamenti, nella finale conversione a un islam soft e moderato, quello che nel 2022, secondo la visione di  Houellebecq, porterà in Francia alla elezione del primo presidente della Repubblica musulmano. Il Paese è bloccato, anemico, disorientato e l’insipienza dei partiti tradizionali in lotta tra di loro, i conflitti sociali, la massa ormai imponente di una popolazione musulmana, favoriscono l’ascesa di un partito capace di riformare lo stile di vita, instaurare un nuovo ordine sociale, dare un futuro: non si tratta dell’islam dei rozzi tagliagole, ma di un “islam alla francese”, contagiato da una patina di elegante decadentismo e sostenuto dai vantaggi dei petrodollari che promettono una nuova abbondanza, almeno per taluni ceti: è la sconfitta dell’individualismo postmoderno, libertario e consumistico che non sa più dove andare.
A cosa aspira François, ora che comincia a notare segni di invecchiamento, è sempre meno motivato nel suo insegnamento, manifesta un certa stanchezza per il sesso randagio a cui si era abituato e per gli improbabili cibi precotti da passare nel microonde? François è in cerca di senso, cioè di religione (un bisogno che i media occidentali spesso ignorano o fanno mostra di non vedere) e, sulle orme di Huysman si reca nei luoghi dove questo aveva trovato la fede, ma non riesce ad aderire al cristianesimo, la cui teatralità liturgica e architettonica esercita ancora un certo fascino su di lui. Sembra più credibile una conversione all’islam e lo stesso Autore, che anni fa aveva detto essere questa la religione più stupida del mondo, ora, dopo una riflessione più attenta, la giudica più capace di «purificare il mondo liberandolo dalla deleteria dottrina dell’incarnazione» (e di tutte le sue conseguenze). Socialmente poi, per ristabilire un legame tra le persone, «l’unica soluzione è passare per un piano superiore, contenente un singolo punto chiamato Dio, al quale gli individui verrebbero collegati tra loro per mezzo di questo intermediario», con legami di sottomissione (islam è, nel nome stesso, “sottomissione”), dell’uomo a Dio, della donna all’uomo col ritorno al patriarcato, dell’individuo alla comunità...: «è la sottomissione, disse piano [il prof.] Rediger, l’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta». François è sedotto da questa prospettiva di “liberazione dalla libertà” che il suo collega Rediger, convertito e ormai rettore dell’Università islamica della Sorbonne Nouvelle, gli prospetta. D’altra parte, il coté di viltà e stanchezza di François viene attratto dall’alto stipendio e dalla promessa di giovani mogli, come, nel Paese, il consenso poteva giovarsi di un “ritorno all’ordine”, col drastico calo della delinquenza, la riduzione della disoccupazione dovuta all’uscita delle donne dal mercato del lavoro, il rafforzamento della famiglia, mentre scomparivano le minigonne e si diffondevano i cibi halal.
Né islamofobo né islamofilo, il romanzo si legge d’un fiato, non sempre perfetto nel suo stile, costretto a presentare in forma di conversazioni certe digressioni politiche o letterarie. Certo, la prospettiva di vedere scomparire, sia pure senza versare troppo sangue, la libertà di pensiero, di espressione, di risata nella patria di Voltaire e nell’Europa, lascia molta amarezza, accompagnata dalla spaventevole prospettiva della riedificazione di una sorta di Impero ottomano. E poi, non possiamo non chiederci, l’umanità tenterà di ricostruire, in un altro ciclo dell’eterno ritorno, i diritti dell’individuo, delle sue libertà e delle sue debolezze...?
Qualcuno (A. Baricco) ha rimproverato un «riferimento ossessivo alla Francia come se il resto del pianeta non esistesse», ma i recenti avvenimenti hanno mostrato che Parigi è ancora una volta il cuore, ferito e ribelle, del mondo occidentale. Quel che Houellebecq non poteva prevedere è stata la reazione forte e dignitosa della Francia repubblicana e laica, e del mondo libero.

Infine, personalmente, ringrazio l’autore anche per il suo condurci quasi per mano per le strade del V arrondissement e per le escursioni (altra occasione di rimprovero che gli è stato mosso) nella letteratura e nella storia francese.

martedì 6 gennaio 2015

Cariatidi e dintorni#46/Vienna

Cariatidi tra i fiori al Musikverein di Vienna, Concerto del 1 gennaio 2015

giovedì 1 gennaio 2015

Schermaglie #39/Cominciamo con una fiaba...

Cominciamo l’anno con una fiaba: quella giapponese del X sec. intitolata Storia del tagliatore di bambù [Taketori monogatari], nella libera versione cinematografica di Isao Takahata. È commovente che, nel 2013, due grandi maestri dello Studio Ghibli abbiano firmato entrambi due importanti opere, lasciando un significativo messaggio prima di andarsene: Miyazaki con Si alza il vento, conclusione della sua produzione e Takahata, ritornato al lavoro di regìa dopo 15 anni, con Le conte de la princesse Kaguya  [La storia della principessa splendente], anche lui probabilmente per concludere la sua produzione. Si tratta di due opere non solo da godere per i loro aspetti formali (più avanzati quelli di Miyazaki, ancora in qualche modo artigianali, disegno a matita/carboncino su sfondo di acquarello, quelli di Takahata), ma perché ricche di significato spirituale, sorprendenti per il loro ottimismo tragico (o almeno consapevole) che viene da un Paese che, per molti aspetti, sta attraversando un periodo “critico” e, forse per questo, impegnato senza farne grande mostra in una riflessione sulle sue radici e sul futuro da ridisegnare.
Se su Si alza il vento mi sono già soffermato (post del 5 dic. 2014), la Storia della principessa splendente (il titolo, per chi conosce un po’ la letteratura giapponese non può non richiamare il Genji Monogatari, storia del “principe splendente”), è ben più di un’opera di poesia pastorale o di «un film con insetti ed erba», secondo le parole assolutamente “modeste” del suo realizzatore, semmai opera di ecologia umana e di educazione spirituale.

La storia narra di un tagliatore di bambù che un giorno scopre in un germoglio una piccola bimba. Lui e sua moglie l’allevano, si rendono conto della sua origine soprannaturale (la vita lo è sempre!), abbandonano la vita da contadini, la educano, come una nobile damigella. Lei cresce rapidamente e diviene una magnifica ragazza che attira i più grandi prìncipi e lo stesso imperatore. La giovane, nella conclusione del film, ci fa sapere che per resistere alle lusinghe di quest’ultimo aveva rivolto una preghiera di aiuto alla Luna affinché la portasse via (depressione e desiderio di morte, potremmo dire noi, oggi) da una vita sociale piena di artefatti e contraffazioni, via da un pianeta nel quale era discesa quando il tagliatore l’aveva trovata. Ma perché era discesa sulla Terra e perché questa storia era cominciata? Lei, abitante del pianeta lunare (che dobbiamo interpretare come la, o una, Terra pura del molto popolare, in Giappone, Buddha Amida, il quale compare infatti in forma quasi statuaria nelle scene finali del film, senza che ne venga tuttavia esplicitata l’identità), aveva ascoltato da una donna, discesa sulla Terra e poi ritornata sulla Luna, una canzone (Gira, gira...presente nel film) che parlava del continuo ciclo della vita, in cui erbe e animali nascono, crescono e poi scompaiono, vita in cui  c’è anche  la sofferenza, ma in un tutto capace di nutrire la clemenza e la compassione degli uomini. La malinconia che la donna continuava ad avere aveva fatto nascere nella futura principessa Kaguya il desiderio di conoscere il pianeta proibito, desiderio punito appunto con l’invio sulla Terra, dove avrebbe incontrato tutte le impurità di cui essa è ricca. Ma, nella sua avventura terrena, Kaguya conoscerà sì le contaminazioni e le contraffazioni di una vita fatta solo di apparenze, ma aveva imparato a distinguerle dalla bellezza autentica della vita nei campi, dell’esistenza semplice e spontanea, degli amori infantili, degli affetti che portano «il sole nel cuore» (come dice un’altra canzone che ascoltiamo nel passaggio del générique di coda). Una volta che si ritorna sulla Luna si dimentica, come purificazione, ciò che si è visto e sperimentato, ma Kaguya pur avendo fatto tale richiesta in un momento di difficoltà, non gradisce questa cancellazione totale e la purezza a essa seguente: se si conserva memoria di dove il cuore è stato, del calore della presenza che conforta anche «nella tristezza, quando si devono accarezzare le ferite», se sempre «si ritornerà dove il cuore è stato», quella discesa non avrà avuto per lei il significato di un esilio e di una punizione degradante (Kaguya, tornata sulla Luna dice infatti a un’apsara [spirito delle nubi e delle acque] che la assiste: «io non sono contaminata!»), ma quello di una realizzazione e forse di una premessa a una futura ulteriore “reincarnazione”. Nuovo Orfeo nella Terra pura, Kaguya, prima di essere portata via definitivamente (?) dal Buddha della purezza, si volge ancora per guardare ciò che sta per perdere; d’altra parte, agli “amici” terreni di Kaguya, che guardano la Luna nella quale lei viene “riassorbita”, appare l’immagine di una minuscola bimba come quella trovata dal tagliatore di bambù. La purezza non affascina più, forse è addirittura metafora del gelo della morte, da cui la nostalgia della vita spinge a fuggire: come diceva un Maestro zen, «Nell’acqua troppo pura non vivono i pesci». Platone rovesciato, non si ha sulla Terra ricordo dell’iperuranio, ma nei cieli il ricordo della Vita. La visione di un buddhismo “negativo” è, con delicatezza e solo allusivamente, rifiutata e viene prospettato in modo fiabesco il tradizionale ciclo delle rinascite. Questi autori ci ricordano che la vita che viviamo qui sulla Terra, piena di seduzioni e delusioni, lacrime e sorrisi, bellezze e tristezze, è la sola che conosciamo e possiamo amare, in una Terra da incantare e pulire, ma non da sterilizzare, e quando «si leva il vento» delle avversità ci suggeriscono, con Valéry, che «il faut tenter de vivre»!