martedì 29 aprile 2014

Spiritualità del finito#4/Dov'è la Giustizia?

Giustizia, quanto ricorre questa parola! I cittadini chiedono giustizia, un ministro della giustizia viene “discusso” e sostituito, si deve riformare la giustizia... Ma che rapporto abbiamo con la giustizia? Questa è per noi sia una virtù morale, che cerca di riconoscere i diritti altrui dando a ciascuno ciò che gli è dovuto (suum cuique tribuere), sia proprietà di un ordinamento sociale. Ci si riferisce spesso a una Giustizia con l’iniziale maiuscola, ma in che relazione ci poniamo con essa? Chi sono i “giusti” e dove risiede questa Giustizia?
Per rispondere chiediamo aiuto alla saggezza mitica. Secondo il Protagora di Platone, quando giunse «per le stirpi mortali il momento fatale della loro nascita», gli dèi ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di distribuire alle specie animali varie facoltà, adatte alla loro sopravvivenza e utili per sfuggire al reciproco annientamento. Il malaccorto Epimeteo ottenne da Prometeo di poter fare lui la distribuzione, lasciando al fratello la supervisione.  Quando si arrivò alla specie umana, Epimeteo si accorse di aver già speso «tutte le facoltà naturali in favore degli esseri privi di ragione», per cui «non sapeva cosa fare per trarsi di imbarazzo». Prometeo si accorse che l’uomo era «nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi» e, nel suo ruolo di progenitore, benefattore, alleato dell’umanità, provvide rubando la sapienza tecnica di Efesto e di Atena insieme col fuoco — era infatti impossibile che senza il fuoco questa potesse essere acquistata o utilizzata da qualcuno — e ne fece dono all’uomo. Tale sapienza era, tuttavia, relativa al vivere, ma non era sapienza politica: «questa si trovava infatti presso Zeus, e a Prometeo non era più permesso di penetrare nell’acropoli, dimora di Zeus». Gli uomini erano così riusciti a utilizzare la voce e articolare le parole, a produrre molteplici invenzioni, ma «vivevano sparsi, ché non v’erano città. E perciò erano distrutti dalle fiere». Sorse così la necessità di collaborare e unirsi in città, «ma, una volta riunitisi, continuavano a commettere ingiustizie reciproche, dal momento che non possedevano una tecnica politica, onde nuovamente si disperdevano e morivano». Zeus, con un intervento gratuito e misericordioso, temendo che l’umanità andasse incontro alla distruzione, «inviò allora Hermes per condurre tra gli uomini il rispetto e la giustizia, perché costituissero il fondamento dell’ordine della città e un legame unificante di amicizia».
Figlia di Zeus (e Temi), che ne imponeva il rispetto agli dèi e agli uomini, la Giustizia, Dike, è sorella delle Ore (dee dell’ordine della natura) Irene (= pace) e Eunomia (= ordine), «riesce a sopraffar la violenza», ma diviene vendicatrice quando sono pronunciati giudizi ingiusti: «Si sente Dike che strepita, quando viene trascinata là dove la spingono gli uomini divoratori di doni, giudicando le controversie con la loro perversa giustizia»; allora Dike li segue «vestita di tenebra, portando agli uomini il malanno, a quelli che la respingono e non l’amministrano giusta» (Esiodo, Le opere e i giorni, 220 ss.). Vicina agli dèi e a noi non direttamente accessibile, la Giustizia (con la maiuscola!), dono divino, non è in nostro dominio e può essere pertanto solo idea regolativa, orientamento, guida: per questo, dobbiamo diffidare di coloro (sedicenti “giusti”, giustizieri e giustizialisti) che ritengono di poter instaurare o, peggio, di avere già instaurato un mondo di giustizia nel limitato e ingiusto mondo finito. Tale presunzione allontana dall’opera umana di affermazione, per piccoli e concreti passi, dell’insieme dei valori, tra i quali si collocano quelli di compassione, rispetto, benevolenza, e che ci fanno uscire da quel perverso legame tra menzogna e terrore che ha caratterizzato gli sterminî giacobini e quelli dei totalitarismi del Novecento. Per una spiritualità del finito non c’è la “grande bellezza”, ma particolari determinate armonie; non c’è la verità assoluta, ma concrete e limitate conoscenze; non c’è il mondo giusto, ma precise e circoscritte azioni morali: considerando il corso dei secoli è proprio la somma di tali azioni, limitate ma efficaci e non i perniciosi furori degli utopisti, che può attestare la lenta evoluzione che l’umanità ha compiuto, cercando di passare, sia pure con molteplici regressioni, dall’età del ferro a quella del... verbo. La fede nella giustizia (minuscola!) non poggia, pertanto, su Verità assolute o su presunte leggi della storia, ma scaturisce dalla forza invincibile del sentimento di libertà, equità, riconoscimento, che risiede nei nostri cuori, ci consente di dire, con l’Evangelista, Videbam Satanam sicut fulgur de caelo cadentem (Lc 10, 18) e vedere i violenti, mercenari, monatti, delatori, prepotenti e impostori, come ormai già caduti...

venerdì 18 aprile 2014

Quel palazzo dice...#2/via Topino, Roma


In via Topino (fiume dell’Umbria) all’angolo con via Volsinio (antico nome del lago di Bolsena) queste lapidi ricordano l’inizio delle attività dell’INCIS (Istituto nazionale case impiegati statali) in Roma e nel quartiere, ove sarebbero sorti diversi edifici di proprietà dell’Istituto.


(foto R. V.)

giovedì 10 aprile 2014

Glimpses of Unfamiliar Japan#4/Il tè degli "eccentrici"

Siamo nel periodo di Edo (1603-1867), epoca che, nella periodizzazione della storia giapponese, si riferisce agli anni in cui lo shōgun (“signore della guerra”) portò di fatto la capitale da Kyoto (la “capitale occidentale”) a Edo (letteralmente “entrata nella baia”, poi divenuta Tokyo, la “capitale orientale”): gli anni della dominazione dei Tokugawa (1603-1853). In una cultura che ha sostenuto e promosso il valore della formalizzazione, per cui ogni azione viene regolata da norme (keishiki-ka) e l’eleganza sta nel raggiungere la bellezza della/nella completa perfezione (kanzen shugi), sembrerebbe non ci possa essere posto per l’individuo, trattandosi di una società olistica in cui tutto appare finalizzato alla coesione sociale e al benessere collettivo. E invece, ecco che compare una serie di individui, qualificati come “eccentrici”, distaccati dalla norma e dal mondo, lontani dai valori comuni e che hanno tutte le carte per divenire degli eroi letterari, con la loro “stupidità” paradossalmente sinonimo di intelligenza e individualismo. Eremiti, lunatici, distaccati anche dalle regole della religione, fanno della loro esistenza, col rifiuto delle norme e in fuga dai tumulti del mondo, un elogio vivente di libertà.
Questa cultura del distacco e della valorizzazione della cura di sé, dell’ombra (junghiana), del mondo interiore, dedito alla ricerca di una identità personale, viene a essere oggetto di una serie di opere, che formano un genere particolare (eremitismo letterario), come quella di Hayashi Dokkosai (1624-61), Storia di quelli che nel nostro Paese hanno fuggito il mondo; di Gensei (prete della setta Nichiren, 1623-1668), Vite di coloro che in Giappone si sono ritirati dal mondo; di Hotta Rekurin (medico e letterato), Biografie di folli della regione di Nagoya (1778) e, soprattutto, di Ban Kokei (1733-1806), autore delle Kinsei kijin den (Vite di uomini eccentrici [o illustri o straordinari] del nostro tempo, 1790). Ban Kokei apparteneva al circolo dei bunjin o letterati (sganciati sia dalla società dei samurai sia da quella urbano-mercatile dei chonin o uomo della città), amanti della cultura cinese e che si dedicavano alla letteratura o alle arti figurative. Di quella “strana” letteratura sugli eccentrici del periodo di Edo ha scritto lo studioso François Lachaud (dell’École française d’Extrême-Orient e dell’dell’École Pratique des hautes études) nel libro, Le vieil homme qui vendait du thé – Excentricité et retrait du monde dans le Japon du XVIIIe siècle, Paris, Les éditions du cerf, 2010 (con un Avant-propos di Jean-Noël Robert, Membre de l’Institut, prof. au Collège de France). Per avere qualche raro esempio occidentale, in qualche modo vicino a quelle opere, F. Lachaud (in riferimento all’“uomo singolare” di cui parla Baudelaire nel suo Le rêve d'un curieux,1860) cita la raccolta intitolata Les Illuminés (1852), in cui Gérard de Nerval tentava di rintracciare biografie di individui singolari con ambizioni o rimpianti mistici o esoterici, e Les Excentriques (1856), di J. F. F. Husson (detto Champfleury).  E a me viene in mente anche il libro Incontri con uomini straordinari di Georges I. Gurdjieff, pubblicato postumo nel 1960.
Tornando alle biografie scritte da Ban Kokei, la più lunga è quella dedicata a Baisao (ossia “il vecchio venditore di tè”), noto anche col nome d’arte Ko Yugai da lui adottato (1675-1763), era un monaco della scuola zen Obaku (fonte di vivente conoscenza in terra giapponese della cultura continentale cinese); tornato laico, divenne famoso come venditore ambulante di tè nella zona di Kyoto. E qui viene appunto in ballo la tematica del tè. Questo non era considerato una semplice bevanda, ma un modo di entrare, in un atteggiamento meditativo, nella conoscenza di sé e del rapporto con il mondo, gli altri, il divino, gli “immortali” (taoisti). La “via del tè”, com’è noto, è parte delle cosiddette “arti giapponesi” o “arti zen”, e fu “codificata” dal Maestro Sen no Rikyu (1522-91). Ma — agli occhi degli eccentrici del periodo di Edo — essa aveva finito per perdere di significato per un eccesso di formalismo estetico e per la limitatezza del distacco che offriva (circoscritto al tempo della cerimonia), in contrasto con l’esigenza di una fuga integrale dal mondo. Si manifestò quindi anche un diverso uso del tè: non più quello macinato (matcha) usato nella “cerimonia del tè” (chado), ma il sencha (il tè verde in foglie, da utilizzare come infuso). Baisao è considerato il fondatore o sistematizzatore dell’arte del tè in foglie (senchado), una cerimonia più semplice, democratica, non attaccata ai formalismi, ma non, per questo, priva di valore spirituale, Ecco come egli stesso la illustra in questa poesia nota col titolo popolare di Poema del tè (chashi).

Ben chiusa la mia porta di sterpi: nessun visitatore volgare.
Un cappello di seta sulla testa, metto in infusione e bevo il tè.
Nuvole di vapore blu, portate dal vento, non si disperdono.
Una luce di fiori bianchi è sulla superficie della tazza.
Prima tazza: gola e labbra umettate.
Seconda tazza: fuggo i mali della solitudine.
Una terza tazza percorre il mio ventre vuoto e vi lascia cinquemila volumi di caratteri*!
Quarta tazza: con un lieve sudore tutte le ingiustizie del quotidiano fuggono attraverso i pori.
Quinta tazza: pelle e ossa purificate.
Sesta tazza: comunico con gli immortali.
La settima tazza non la posso bere. Sotto le mie ascelle sento semplicemente passare un vento puro. Dov’è il Monte Penglai**? Il Maestro del fiume di giada*** vi torna, a cavallo di questo vento puro.
(traduzione di R. V.)
*interpreto: il tè porta nutrimento culturale.
**monte della mitologia cinese, sede degli immortali (santi/divinità taoisti). In Giappone è stato identificato col Monte Fuji.
***si tratta di Lu Tong, poeta cinese (morto nell’anno 835), figura tutelare della vita e della poetica di Baisao. Con “giardino del fiume di giada” si indica uno stile dei giardini alla cinese, la cui paternità rimonterebbe a Lu Yu e a Lu Tong, e che i giapponesi amanti del tè cercavano di riprodurre.