sabato 27 dicembre 2008

Discernimento

Karl Paul Reinhold Niebuhr (18921971), teologo cristiano protestante americano, è considerato l’autore della “Preghiera di serenità”, che  preferirei chiamare “Preghiera del discernimento”. Per questo mi permetto di proporla (nella versione breve) all’attenzione di quanti, di qualsivoglia appartenenza o non-appartenenza religiosa, non la conoscono (e non la praticano!) ancora .

“Signore, concedimi la serenità 
di accettare le cose che non possono essere cambiare,
il coraggio di cambiare quelle che possono essere cambiate
e la saggezza per distinguere le une dalle altre”.

lunedì 22 dicembre 2008

La festa, un tempio nel tempo

Per l’uomo delle culture arcaiche, il tempio delimitava lo spazio sacro e la festa il tempo sacro, una sorta di tempio nel tempo: in entrambi i casi, si poteva avere lì un diretto contatto con la realtà del “totalmente altro”. Il Mondo si rinnovava annualmente e ritrovava così la sua originaria santità: l’anno era un circolo chiuso e il Mondo veniva periodicamente ricreato. Con adeguati riti, veniva annullato il tempo profano e gli uomini, liberati da errori e da colpe, nuovi e purificati potevano ridiventare contemporanei della cosmogonia. Il valore della festa non era quello di ricordare o commemorare l’evento mitico delle origini, ma di riattualizzarlo e iniziare una nuova vita con le potenzialità intatte come alla nascita; e chi era ammalato poteva in tal modo guarire.

Per noi che viviamo in un tempo desacralizzato ed evanescente, in una linearità che conduce non alla rinascita ma verso l’ignoto della fine, l’augurio è quello di utilizzare i brandelli del Tempo “originario”, santificato dalla presenza degli dèi, per costruire almeno frammenti di un nuovo sapere della precarietà, nutrito dal “canto che nomina la Terra” e dalla consapevolezza che l’unico significato dell’esistenza umana sia quello di “accendere una luce nelle tenebre del puro essere”.

sabato 20 dicembre 2008

Roma barocca#4-Basilica dei Ss. Apostoli e Palazzo Colonna






(foto da Wikipedia)

 Nell’età barocca, non solo S. Ignazio e i Gesuiti ricevettero l’onore di importanti opere d’arte, ma anche i Francescani, come testimonia l’affresco di Giovan Battista Gaulli, detto Baciccia (autore anche dell’affresco sulla volta della chiesa del Gesù), Trionfo dell’Ordine francescano, sulla volta della navata centrale della Basilica dei Ss. (santi, non santissimi!) Apostoli, dedicata ai santi Filippo e Giacomo (dei quali sono conservate le reliquie). La chiesa, costruita nel VI sec. e poi andata distrutta a causa di un terremoto, fu fatta restaurare dal papa Martino V, della famiglia Colonna, al cui palazzo la chiesa è contigua. La facciata risulta composita, presentando un portico del XV sec. a nove arcate, su due ordini, il superiore chiuso con finestre barocche, sovrastato da una balaustra con statue di Cristo e apostoli (occasione per ricordarli: Simone, soprannominato Pietro; Andrea, fratello di Pietro; Giacomo; Giovanni, fratello di Giacomo, tradizionalmente identificato con l’autore del IV vangelo; Filippo; Bartolomeo; Tommaso; Matteo, il pubblicano: riscuoteva le imposte, tradizionalmente identificato con l'autore del vangelo di Matteo; Giacomo il Minore; Giuda Taddeo, il vangelo di Luca riporta al suo posto Giuda di Giacomo; Simone lo Zelota; Giuda Iscariota, l'apostolo che tradì Gesù; Mattia, nominato dopo l’ascensione di Gesù), che precede una facciata settecentesca, su disegno del Valadier, con lesene e un finestrone centrale.

L’imponente Palazzo Colonna si estende tra p.za dei Ss. Apostoli, v. IV novembre, v. della Pilotta e, come si presenta attualmente, è il risultato del lavoro di incorporazioni di varie costruzioni nella vasta opera di ristrutturazione effettuata nel Seicento e nel settecento. Caratteristici, sulla via della Pilotta, i ponti che collegano il palazzo con l’ampio giardino. All’interno si trova la ricca Galleria Colonna che ospita dipinti di grande valore (di A. Carracci, P. Veronese, Pietro da Cortona, D. Tintoretto...).

 Della famiglia Colonna alcuni membri sono indimenticabili. Tra essi:

 Marcantonio II (1535-84), capitano generale della flotta alleata nella guerra della Lega santa contro i turchi, nella battaglia di Lepanto (1571) li sconfisse, catturandone la nave ammiraglia insieme a Giovanni d’Austria.

 Vittoria (1490-1547), presente nella nostra memoria scolastica unitamente a Gaspara Stampa, era figlia del condottiero Fabrizio Colonna (protagonista dei dialoghi dell’Arte della guerra di Machiavelli); moglie del marchese Ferdinando d’Avalos, rimasta vedova condusse una vita austera, ricca di idealità religiose. Fu ammirata e amata da Michelangelo (“Donna leggiadra, altera e diva”, “Un uomo in una donna, anzi un dio”), che si rimprovera di non saper trarre da lei la salute della propria anima. N. Sapegno la dice ”signora di alto intelletto e di svariata cultura, disposta per indole alle severe meditazioni e dotata di una ricca vita affettiva, che in lei per altro è tenuta a freno dall’orgoglio aristocratico e dalla nativa austerità”. Rimatrice petrarchesca, curò il rigore formale più che le effusioni sentimentali, anche se i suoi versi non mancano di toni malinconici (“Così mi sforza la nimica sorte/le tenebre cercar, fuggir la luce/odiar la vita e disiar la morte…). L’amicizia con Michelangelo e le relazioni coi circoli intellettuali e religiosi del tempo hanno sicuramente contribuito a serbarne una memoria viva ancor oggi.


giovedì 18 dicembre 2008

Lealtà/fedeltà

Il 26 febbraio 1936 un migliaio di uomini, guidati da un gruppo di giovani ufficiali che contava sull’appoggio di una parte delle gerarchie militari, occupò il centro di Tokyo, uccise un ministro e qualche altra personalità pubblica, compì altri attentati più o meno andati a segno. Era l’epoca del cosiddetto fascismo del periodo imperiale (tennōsei, sistema imperiale, fashizumu, fascismo), regime costituitosi tra le due guerre mondiali e che ebbe vari ideologi, il maggiore dei quali fu KITA Ikki (1883-1937). Ma in quella occasione i generali Araki e Mazaki non si mossero a difesa degli insorti e l’imperatore — nel cui nome essi si erano ribellati — paradossalmente fu pronto nel chiedere la punizione dei rivoltosi che, circondati da marina e guardia imperiale, si arresero il 29. Due degli ufficiali si uccisero, ci furono diciannove condanne a morte, eseguite alcune subito, altre — anche per alcuni sostenitori civili tra cui lo stesso Kita — l’anno seguente.

Lo scrittore MISHIMA Yukio vari anni dopo (1961) prese spunto da questo episodio, poi denominato “l’incidente del 26 febbraio”,  per un racconto, intitolato Yūkoku [Patriottismo]. In esso si narra che il tenente Takeyama Shinji, essendosi da poco sposato, fu convinto dai suoi colleghi a non prendere parte alla ribellione. Nei giorni seguenti, fu proprio tra quelli incaricati della punizione dei colpevoli. Si profilava così uno di quei conflitti tra doveri (fedeltà/lealtà verso l’imperatore, da un lato, e fedeltà/lealtà verso gli amici, dall’altro) che ha spesso trovato, per la mentalità giapponese tradizionale, nel suicidio rituale (seppuku) l’unica tragica via di uscita. Così, infatti, decide Shinji e così la moglie Reiko (“Anch’io ho deciso. Ti chiedo il permesso di seguirti”). I due coniugi si amano con la consapevolezza dell’ultima volta, Mishima ne descrive il desiderio sessuale che fa tutt’uno con l’amore per il proprio Paese, lo splendore dei corpi (quello di lei “bianco e maestoso”, e quello di lui “dalle spalle possenti, i due scudi robusti che sembravano unirsi a formare il petto vigoroso”), la indicibile dolcezza insita nella decisione di morire, con una morte simile “in tutto e per tutto alla morte in guerra”, sul fronte dell’anima, “atto di un soldato segnato dalla perfetta lealtà”; infine, il dolore indicibile del corpo straziato. Nel tokonoma della stanza, il rotolo con una calligrafia dei due caratteri della parola shisei, perfetta sincerità/fedeltà/lealtà.

In un articolo del 1966, dedicato ancora all’“l’incidente del 26 febbraio”, Mishima parla del racconto in cui dice di aver creato “una situazione in cui il piacere fisico estremo e l’estrema sofferenza fisica sono costituiti da uno stesso principio e, attraverso ciò, aprono la via ad una suprema beatitudine”. È proprio l’unione di questi due vissuti che genera il terzo: la grande felicità e libertà dell’amore che raggiunge il culmine della purezza e dell’estasi nella prospettiva di un doloroso suicidio. Wagner, Nietzsche, Bataille...: la morte è al servizio della bellezza o la bellezza è al servizio della morte?

L’eutanasia è per noi la morte “dolce”, quella che deve avvenire senza sofferenza; il seppuku, all’interno del codice morale del bushi (aristocrazia guerriera), ha valore perché carico di sublime coraggio di fronte all’estremo dolore. Potremmo considerarla come una forma di quella che oggi si denomina “morte amica”?

Nel 1965 Mishima diresse e interpretò (nel ruolo del tenente) un cortometraggio tratto da Patriottismo, di un erotismo suggestivo e di un raccapriccio sublimato. Del film, distrutto per desiderio della vedova di Mishima, riemerse una copia nel 2005: ora le edizioni Montparnasse ce lo offrono in DVD, in un cofanetto (discalie in fr., in., giap.) dal titolo Yūkoku: rites d’amour et de mort.

Il 25 novembre 1970 Mishima, in circostanze simili a quelle del racconto, fece il suo seppuku negli uffici del generale Masuda Kanetoshi, che, insieme ad alcuni membri della “Associazione degli scudi”, aveva occupato per un’azione dimostrativa. Nonostante le esplicite volontà testamentarie, dopo la morte gli fu attribuito, secondo il costume giapponese, il titolo/nome postumo di “buddhista laico Kimitake, eccelso in arti guerriere e specchio di letteratura”. 

lunedì 15 dicembre 2008

Totò

Non ho difficoltà a considerare Totò un vero Maestro spirituale e, poiché siamo tutti attori nel più grande dei teatri, riflettiamo su questa sua "Preghiera del clown":

Noi ti ringraziamo nostro buon Protettore per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo.Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa' che sulla nostra mensa non venga mai a mancare pane ed applausi. Noi ti chiediamo protezione, ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini.Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l'unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa' che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore. Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi, dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamante le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po’ perchè essi non sanno, un po’ per amor Tuo, e un po’ perchè hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C'è tanta gente che si diverte a far piangere l'umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.

mercoledì 10 dicembre 2008

Schermaglie#5/Nick’s Film – Lampi sull’acqua, 1980

Nicholas Ray, regista ribelle, alcolizzato, costretto ad abbandonare la sua carriera, già malato di cancro, era stato scelto da W. Wenders come attore nel film L’amico americano, in cui interpretava il pittore Derwatt che, per vendere i suoi quadri a un prezzo più alto, aveva fatto credere di essere morto. Animato da profonda ammirazione e amicizia per Ray, Wenders vuole venire incontro al desiderio di Nick di fare un nuovo, forse ultimo film, che possa servire a ricostituire una immagine di sé disintissosicato, acuto, per finire con una nuova dignità. Potrebbe essere una sorta di seguito di L’amico americano; Ray ha pensato al titolo Lightning over Water [Lampi sull’acqua] e al soggetto: la ricerca da parte di due amici di un tipo di ginseng speciale che curi il cancro. Il film prevedeva che si sarebbe ripreso lo stesso girare il film, creando un film nel film, in cui entrambi i registi sarebbero apparsi nei loro ruoli, ma anche come attori, diretti ciascuno dall’amico, esperienza del tutto nuova per Wenders. Un presentimento? L’aggravarsi della malattia, infatti, cambia i piani, il film si trasforma a poco a poco, in un documentario sulla morte di Nick che viene ripreso nel suo quotidiano, nelle residue attività didattiche e, soprattutto, nelle sue crescenti sofferenze. Film intimista, home movie o “film di famiglia”, film di amicizia e sull’amicizia, film sul cinema e l’amore per il cinema. Il pretesto del film da girare (un film non fatto che genera un film sul film non fatto) consente a Wenders di offrire a Ray un’opportunità per vivere la sua fine raccontandosi, con la camera che trasforma Ray, attraverso Wenders, in un personaggio di Ray, che narra e si narra anche ormai solo es-ponendo il suo corpo. Ricordo come M. Duras morente, cercasse anche lei la narrazione: “Andiamo a vedere l’orrore, la morte” e “sono sola… ho paura”, e “Va bene, ho trovato le parole”, “bisogna chiudere la pagina”. Quando il decadimento, l’esaurirsi della forza vitale non consentono più di costruire la propria narrazione del vomito o della tosse o dei dolori, un altro diviene il “regista” e narra la storia divenuta indicibile. Il film, unico nel suo genere, ha come epilogo la barca del viaggio alla ricerca del ginseng “miracoloso” ormai barca che trasporta l’urna con le ceneri di Nick in mare aperto: accanto, in primo piano, ancora la camera, strumento “miracoloso” della consapevolezza: dov’è la realtà e dov’è la verità?

lunedì 8 dicembre 2008

Roma barocca#3 - Chiesa di S. Maria della Pace





(foto RV)


Quello che fu operato da Pietro da Cortona (1656) non fu soltanto un restauro (eseguito per volere del papa  Alessandro VII) della preesistente chiesa quattrocentesca, ma un vero e proprio intervento urbanistico: la chiesa è infatti inserita in un complesso costituito da due ali laterali, dalla facciata della chiesa stessa e dall’accesso alle viuzze laterali; ne è risultato un capolavoro dell’urbanistica e dell’architettura barocca. La facciata convessa inverte la curvatura dell’esedra di fondo, sporge dal fondale, è arricchita da un pronao semicircolare a colonne doriche binate che prende tutta la larghezza della fronte; la parte superiore, con colonne corinzie, ha al centro un finestrone sormontato da un frontone che ne inquadra uno minore con lo stemma di Alessandro VII: ne risulta un prospetto scenografico ricco di movimento e chiaroscuri.

Il chiostro è il famoso chiostro noto col nome di “chiostro del Bramante".

Merita una sosta l'adiacente Antico Caffè della Pace.

domenica 7 dicembre 2008

Duras#4

Nel 1979 M. Duras realizza un film, Les maines negatives, accompagnato da un testo, dedicato a ciò che più rende simili gli uomini: il dolore di chi si accorge di essere solo di fronte al mondo, chiama l’altro/a, oggi come migliaia di anni fa. M. D. ascolta, vive la fenomenale potenza della solitudine, la violenza non indirizzata del desiderio, che ha in sé qualcosa di primitivo e di irriducibile, dell’ordine del grido; con la sua scrittura cerca di afferrarla, di raggiungerla, la più lontana, di chi non sapeva che gridarla, quando ancora la parola non era stata inventata. Un grido al quale M. D. risponde con la parola, arnese misterioso ed efficace, tra il silenzio e il grido: “io credo che quest’urlo, quest’urlo di desiderio, sia lo stesso di quello che era stato proferito davanti a Dio”. La Duras per quest’opera prende spunto dalle impronte (per questo “negative”) di mani trovate nelle caverne: “Chiamiamo mani negative le pitture di mani trovate nelle grotte magdaleniane [ultimo periodo del paleolitico] dell’Europa Sud-Atlantica. Il contorno di queste mani - completamente aperte sulla pietra - era di uno strato di di colore più frequentemente blu, nero. A volte rosso. Nessuna spiegazione è stata trovata per questa pratica” e dice parole d’amore, rivolte a quegli uomini, agli uomini d’oggi, a sé stessa: “l’uomo solo nella grotta ha guardato/nel rumore/nel rumore del mare/l’immensità delle cose/e ha gridato. Queste mani del blu dell’acqua/del nero del cielo/piatte/posate aperte sul granito grigio/perché qualcuno le veda/io sono quello che chiama/quello che chiamava/che gridava trentamila anni fa/io t’amo/io grido che ti voglio amare, io t’amo…”. Col film, lo strazio di trentamila anni fa è riportato a oggi, attraverso qualcosa che attualizzi quel grido: lo fa attraverso le immagini straniate dell’Opéra o degli Champs Elysées… di una Parigi vista nella lividezza dell’alba di un giorno del 1979. Non ci sono passanti a quell’ora, quando solo le automobili e i camion circolano nelle strade, in una solitudine inospitale che tutto appiattisce in una luce desolante. Il testo che accompagna le immagini non è un elemento in più, non serve a commentare o a illustrare, ma si pone come uno degli elementi della sintesi, costituita proprio dal film, collocato tra passato e presente, tra parola e visione.

mercoledì 3 dicembre 2008

Il mito dell'atemporalità#2

La concezione non lineare ma ciclica del tempo e le opere delle arti figurative sono modi di “fermare il tempo” diversi dalla uscita dal tempo dei contemplativi e configurano quindi esperienze della paradossalità per cui il mezzo si impiega contro il mezzo. La pittura, la scultura, la fotografia… fermano il tempo facendo perdurare lo stimolo, che appare immutato nello svolgersi del flusso percettivo. Ancor più interessanti gli esempi che vengono proprio dalle arti del tempo: la musica e la narrazione. Per la musica, oltre agli esempi che ci offre quella — per esprimerci con un solo aggettivo — orientale, possiamo ricordare, per la musica occidentale, alcune composizioni in cui la ripetizione è usata intenzionalmente ed esplicitamente, come il Clavicembalo ben temperato di Bach, il Bolero di Ravel, Vexations di Satie, il primo movimento della Settima sinfonia di Shostakovich o quelle finalizzate a sfiorare la atemporalità, come le composizioni di una corrente (detta proprio di “musica ripetitiva”) di autori contemporanei come Terry Riley, Steve Reich, Philip Glass, etc. Ma, comunque, la musica o la danza nella loro totalità realizzano la possibilità di offrire l’assoluto proprio nel fluire della forma. Per la letteratura non si può non ricordare la poetica proustiana, secondo la quale per padroneggiare il tempo è necessario arrestarlo. E chi può arrestare il tempo è la narrazione, intesa come una sequenza di metafore sviluppate che il poeta sa cogliere, permettendo di fuggire dalla realtà frammentata che si vive momento in momento e di nutrirsi, invece, dell’essenza delle cose: “il miracolo di un’analogia”, scrive Proust, “mi aveva fatto sfuggire al presente. Lui solo aveva il potere di farmi ritrovare i giorni passati, il tempo perduto”. La scrittura, operando il passaggio dal mondo attuale al mondo rievocato, realizza la sintesi che consente di vivere e godere di quell’essenza e dare esperienze di felicità, tanto da far dire a Proust che “la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. Se ri-cordare, ri-conoscere, ri-vivere sono modalità che caratterizzano le esperienze più intense della nostra vita, possiamo concluderne che la ri-petizione, come elemento di atemporalità, è ben presente nella nostra vita (tutta fatta di ripetizione di archetipi? Vivere = ri-vivere?) come atemporalità dinamica, che può offrirci la possibilità di vivere in due “momenti” di uno “stesso” tempo, e che si contrappone così alla atemporalità statica. Se non si accede pienamente alla coincidenza di Nirvana e samsara, cioè di sacro e profano, non è facile assumere questo punto di vista e anche un pensatore così lucido come Eliade, indagando sull’umana esigenza del sacro e sull’esperienza rituale di unione col divino, osservava come essa non realizzi che un mero effimero contatto, che riporta poi ineluttabilmente l’individuo “nella sua triste condizione umana limitata da attributi e spezzata”; c’è nelle sue parole un rammarico per il fatto che “in tutta la storia religiosa dell’umanità persiste, come una maledizione, questa discontinuità della sperimentazione del sacro. Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato di tutti i giorni, profano. Il “sacro” essendo totalmente diverso dal profano, non può essere sopportato dall’uomo in continuità. In alcuni testi indiani si dice che il brahmano che ‘non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli crea il sacrificio’, è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra, che la sua povera natura creata, limitata, non può sopportare”. L’uomo, dunque, nell’attuale condizione, secondo Eliade, non può “vivere” l’assoluto senza alterarlo, perché non si può “sopportare la vicinanza della divinità se non temporaneamente”. Sentiamo che il totalmente altro è visto ancora come totalmente altrove e quindi che possiamo “afferrarlo” solo in rari momenti di discontinuità del tempo profano. Diversamente, se proviamo a pensare a una esperienza religiosa meno conflittuale, che parta proprio da questa umana debolezza, da usare come forza invece che vivere come maledizione, potremo arrivare a scorgere nel carattere transitorio dei fenomeni il loro aspetto assoluto e nell’impermanenza quella che è stata chiamata la “natura buddhica”. Il totalmente altro non sarà più un altrove, ma l’“altrimenti” di un nuovo punto di vista, con il quale realizzare una conoscenza non-duale della realtà, l’intuizione che la “vanità delle cose” conduce a una quotidianità “tragicamente” redenta. Il limite non sarà allora nel finito che muta, ma piuttosto nell’arresto di quel processo di educazione che porta al “raggiungimento del fine umano”, meta che “inquadra significativamente l’uomo nella creazione e che allo stesso tempo dà a questa un significato” (Jung).