mercoledì 28 dicembre 2011

Cariatidi e dintorni#35/Modigliani



Sotto influenze diverse (arte negra, khmer, Constantin Brancusi…), negli anni 1910-13 Modigliani disegnò e dipinse numerose Cariatidi, intese come studi preparatori per sculture, affascinanti e arcaiche, misteriose e ieratiche.  In quella del 1911-12 (a cui Paul Alexandre — medico, appassionato d’arte, amico e sostenitore di Modigliani — diede il titolo di Mademoiselle Grain de café; ora al Museo di Düsseldorf) si è voluto riconoscere il profilo aquilino, la frangetta, i capelli raccolti della poetessa russa Anna Achmatova, conosciuta in quegli anni da Modigliani. Nel dipinto, si possono anche scorgere la figura scura di un uomo dietro la donna e un viso sulla sua coscia destra.

martedì 27 dicembre 2011

Schermaglie#21/Storia d'amore


Francesco (Citto) Maselli, il più “impegnato” tra i registi del dopoguerra sia nella vita che nelle opere, nel 1986 tornava al cinema dopo dieci anni di attività politica con Storia d’amore, film che origina da una indagine sindacale sui giovani delle periferie. Per alcuni il suo film “migliore”, Storia d’amore parla di Bruna, una ragazza  di borgata, di cui Maselli racconta il lavoro e gli amori, tentando di recuperare tematica e iconografia del neorealismo, anche se ormai in chiave di fiaba popolare (i poveri che hanno buoni sentimenti, sono sinceri e solidali). Il personaggio è descritto con delicata simpatia e la psicologia ora prevale sulla tematica sociale, tanto che, alla fine, Bruna morirà non di conflitti di classe, ma per l’emarginazione affettiva che i due ragazzi che ama le fanno vivere: un tema da sessuologi, quello che vede i maschi nella loro complicità relazionale (omosessuale?), l’unica che sentono veramente, mentre le donne, che restano a guardare, talora, letteralmente o metaforicamente, ne muoiono.

giovedì 22 dicembre 2011

Solstizio d'inverno (con Poussin)


L’inverno ha in Poussin (v. post Equinozio d'autunno, 23 settembre 2011  e Solstizio d'estate, 21 giugno 2011) una rappresentazione, con la molteplicità di piani di un grigio plumbeo e il suo effetto arazzo (dovuto al tremore causato dalla malattia dell’A.), di carattere catastrofico: quella di un’alluvione nella quale le varie figure, travolte da acque nemiche, cercano disperatamente una via di scampo. Inverno simbolo del declino, della fine della vita e dei vari naufragi umani.
Come quasi sempre, Poussin rende possibile una lettura teologica del quadro, lettura che consente di inserire l’evento particolare nella storia della Redenzione: la storia individule diviene così momento della storia del mondo e la storia della natura storia della salvezza. L’alluvione è il Diluvio biblico, il pentimento di Dio per la creazione, un giudizio con molte vittime (in primo piano), ma anche con un’Arca (si intravede nella nebbia), luogo di salvezza di una vita che si rinnoverà. Il serpente, ben evidente sulla sinistra del quadro, rappresentazione di Plutone, dio degli inferi, è anche allusione al cambiamento e a misteriose e sperate possibilità di ripresa…

giovedì 15 dicembre 2011

Monoteismi in dialogo?

MONOTEISMI IN DIALOGO?
Relazione di Riccardo Venturini (Centro di cultura buddhista) al 
Convegno “Monoteismi in dialogo”, tenutosi il 21 Novembre 2011 nella
Sala delle Colonne della Camera dei Deputati

Monoteismi in dialogo: con chi? Tra loro soltanto o anche con l’esterno? In dialogo tra loro: dopo essersi contrapposti, ostacolati, combattuti per secoli, i monoteismi sono passati al dialogo e dal dialogo sembrano addirittura andare verso un sincretismo, osteggiato ufficialemente ma auspicato da molti e, come proposto con minore o maggiore finezza da alcuni personaggi oggi di moda, condito con quote più o meno consistenti di elementi tratti da tradizioni orientali.
Ma c’è un dialogo con l’esterno? Vediamo iniziative (Cattedra dei non-credenti, Nuova evangelizzazione, Cortile dei gentili…) che si propongono un confronto coi cosiddetti “non-credenti” (brutta espressione, anche se certamente migliore di  “infedeli”), contrapponendo i credenti agli agnostici, ai laici “negativi” (quelli che non riconoscono alle religioni alcuno spazio pubblico, confinandole in spazi che dovrebbero rimanere “privati”), agli atei devoti, agli scettici inquieti (quelli che dicono “avessi la fede…!”), lasciando fuori alcuni arroganti rappresentanti di un vecchio ateismo militante scientistico. Sembra trattarsi spesso, in definitiva, di un dialogo con personaggi di comodo, quasi convocati apposta per tenere in piedi un teatrino dal quali emerge poco di significativo. Per questo vorrei qui evidenziare la posizione di chi non si sente né vicino né nostalgico della trascendenza monoteistica, ma avverte forte l’esigenza della costruzione di una nuova spiritualità, nella convinzione che una cultura, una civiltà ha bisogno di spiritualità, di religione se non vuole cadere nel caos e che — d’altra parte — un messaggio spirituale, una religione deve saper offrire una interpretazione del mondo se non vuole cadere nell’irrilevanza. Ed è proprio questa difficoltà a parlare la lingua della modernità laica che isola i monoteismi in uno spazio ripetitivo, diplomatico, esteriore che rischia di rendere vani il dialogo e gli incontri. Difficoltà che riguarda anche altre religioni, compreso un certo buddhismo che si presenta in forme istituzionalizzate, ideologiche, consolatorie.


Una spiritualità, affermavo, né vicina-al né nostalgica-del monoteismo, perché quello del monoteismo sembra oggi un racconto stanco, non più in grado di interpretare il nostro mondo e di offrire risposte utili alla costruzione di orientamenti spirituali di tipo nuovo. Attualmente, infatti:
                                                                               
  una componente uscita, per il suo radicalismo (usiamo questo eufemismo), rigetto e preoccupazione nel nostro Occidente, per cui siamo ancora a scrivere una sorta di interminabile prefazione in cui ci si  interroga sulla compatibilità di essa con le acquisizioni che sono state raggiunte nel campo della democrazia e del riconoscimento dei diritti della persona e, quindi, sulle possibilità di convivenza e integrazione;

  un’altra, pur se ci sentiamo spinti a un incondizionato sostegno dell’opera che svolge in difesa di un popolo, della sua memoria e della sua identità, non sembra capace, chiusa nel suo tradizionalismo, di offrire validi contributi nella direzione che auspicavo; 
   
 infine, per quello che riguarda la componente a noi più vicina, se guardiamo  alle espressioni tra le più significative della cultura contemporanea non solo nel campo delle scienze naturali e della tecnica, ma anche in quella che si suol chiamare la dimensione umanistica, da Baudelaire a Proust, da Freud a Lévi-Strauss, alla maggior parte della filosofia moderna, non possiamo non constatare che siano nate e si siano affermate al di fuori della cornice monoteistica cristiana e, anzi, con essa in antagonismo.

In che direzione guardare allora per cercare di promuovere una nuova e moderna spiritualità?  
Considerando i modi in cui il confronto si realizza e ai piccoli spunti validi che vengono da un dialogo ancora embrionale e quasi occulto, osserviamo che oggi non si parla più di quelle prove dell’esistenza di Dio che avevano affollato  le nostre passioni filosofiche adolescenziali (tanto da meritarsi oggi l’ironia di uno scrittore come Gesualdo Bufalino che dice: «”Se esistesse si saprebbe in giro”, disse il filosofo, parlando di non so chi...»), ma si è discusso e si discute, invece, con feroci polemiche, soprattutto negli Stati Uniti, tra creazionisti e neodarwinisti, tra sostenitori e avversari dell’ipotesi di un disegno intelligente (Intelligent Design), dell’ipotesi che il mondo sia governato da un principio di organizzazione intelligente, oppure da caso e necessità, dato che questo disegno — se ci fosse — non si potrebbe dire né tanto intelligente né amorevole, ma anzi spesso insensato se non addirittura sadico. Questa discussione manifesta, infatti, due componenti: una scientifica o razionalistica, che cerca di rilevare le “mancanze”, le contraddizioni, le smagliature reperibili nel progetto; un’altra etica, che lo rifiuta invece per ragioni morali, non intendendo accettare nessuna complicità col male e il “disordine”. Ed è su questa seconda componente che vorrei soffermarmi.
Per cominciare, la prima crudeltà del mondo è quella di non rispondere alle domande che l’uomo si pone sulla sua origine e sul suo destino, sul senso della vita, del dolore e della morte. Strana la condizione umana…! «Egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore» (Qoèlet, 3, 11), dice la Scrittura, ma «contritum est cor meum» (Ger 23,9; Salmo 69, 19) nel non poter accedere a quell’Infinito, essendoci sempre qualche «siepe che da tanta parte
 dell'ultimo orizzonte il guardo esclude»: potremmo dire che proprio nella coscienza di vivere in un mondo assurdo risieda la, o almeno una, delle radici della nostra infelicità.
La fiducia nel disegno intelligente non è venuta in crisi soltanto oggi. Fin dall’antichità classica era parsa evidente la difficoltà di conciliare la presenza del male nel mondo con l’idea di una divinità buona e onnipotente. Nel suo famoso tetralemma Epicuro osservava: «La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all'essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?» Gli interrogativi di Epicuro, ripresi da Pierre Bayle (1647-1706), provocarono la “risposta” di Leibniz, che introdusse il termine teodicea per la sua tesi giustificazionista di Dio di fronte al male, teoria poi avversata da Voltaire e confutata da Kant. Il tremendo terremoto di Lisbona del 1755 scosse non solo la terra ma anche le coscienze e portò Voltaire a scrivere il Poème sur le désastre de Lisbonne e il Candide, nei quali lucidamente esprimeva i suoi dubbi sull’organizzazione razionale del mondo. E potremmo anche ricordare il poeta toscano Tommaso Crudeli (1703-45), massone, anticonformista e libertino, vittima della “santa” Inquisizione, che, già in precedenza, aveva ironizzato sulla provvidenza che produce questi effetti («Il gentile terremoto coll’amabile suo moto smantellava le città…»). Oggi basterebbe pensare allo tsunami accaduto in Giappone per mettere in dubbio che la natura sia guidata da una mano intelligente o amorevole, vedendo quanto poco si prenda cura delle proprie creature, sprecona al punto di sacrificare decine di migliaia di esseri umani, proprio quelli di cui si dice fatti a immagine e somiglianza di Dio, per dare un più comodo assetto a pietre e acque; una natura che divide il mondo vivente in divorati e divoratori, in cui si producono handicap, malattie, ogni sorta di dolori, morti non desiderate. Il mondo moderno ha operato un totale rovescimento di ogni teodicea, come sinteticamente appare nella famosa frase di Stendhal che, indignato contro la improvvida Provvidenza, diceva: «Quel che scusa Dio è il fatto che non esiste». Vorrei permettermi di ricordare qui un pensiero di Primo Levi, il quale asserì che una volta esistito Auschwitz nessuno dovrebbe più parlare di Provvidenza; e, infatti, oggi anche nel mondo cristiano si comincia a parlare del male “dopo” la teodicea e di un cristianesimo “senza teodicea”.
Dunque, pur senza vedere il mondo governato da una volontà cattiva (il mondo opera di un demiurgo cattivo, «arcana malvagità… eterno dator de’ mali e reggitor  del moto», «brutto
 Poter che, ascoso, a comun danno impera», per usare parole di Leopardi), il rifiuto del racconto monoteistico viene dal fatto che la nostra coscienza morale non vuole sentirsi complice di un principio che governa il mondo con indifferenza verso il dolore. So bene quale sia la risposta tradizionale: non giudicate col metro umano, il dolore viene dal peccato, tutto sarà redento, il male è una prova, siamo nel «tempo della pazienza e dell’attesa, in cui “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1Gv 3,2)» (Cat. Chiesa Catt., 2772), l’uomo finito non può con la sua mente limitata comprendere il mistero della imperscrutabile volontà divina, mistero a cui si ricorre volentieri per tappare la bocca a un avversario che, per parte sua, non sa che farsene di questo refugium theologicum. Con quale intelligenza e con quale senso morale dovremmo, infatti, giudicare se non con quelli che ci sono stati “dati”, due facoltà che non possono venire sospese, non possono essere messe in frigorifero, e ci fanno prendere le distanze non solo da un eventuale demiurgo cattivo, ma anche da un dio burlone, che gioca col mondo, o machiavellico, che usa mezzi cattivi per fini buoni. Non possiamo dire se la nostra coscienza etica si ponga in continuità o in opposizione alla Legge che governa il mondo, ma comunque essa ci impedisce di accettare questo ordine di cose, la “forza delle cose” che “stanno così”: la kantiana “volontà buona” resta per noi la sola capace di contrastare i misfatti che osserviamo e subiamo, e lo stesso discorso vale anche per la esigenza e la volontà di produrre verità e bellezza.
Potrebbe, dunque, essere venuto il tempo di interrompere il gioco millenario che l’umanità ha fatto con le divinità, cercando salvezza nello stringere alleanze con potenze sovrumane che dovrebbero salvarlo. Direi, provocatoriamente, che dovremmo “dimenticare”, cioè andare oltre, Mosè, Gesù e l’eresia cristiana rappresentata dall’utopia marxiana…
  • Mosè ha portato lontano il sacro, ci ha fatto dimenticare quello che era l’atteggiamento che si aveva nel nostro mondo classico, in Grecia e a Roma, quando gli dèi erano vicini, si potevano incontrare, come accadeva a Enea che, nella giovane cacciatrice, riconosceva la dea dal modo di camminare: «Vera incessu patuit Dea». Mosè sposta il sacro da qui a lì, lo allontana e, al contrario di Virgilio, ricorda che «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es. 33, 20). Nella Torah (II Sam 6, 6-8) altri racconti ribadiscono questo orientamento: si narra di Uzzà che stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm»; un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2), etc. Di conseguenza, sulla base dell’Alleanza l’attesa diviene una virtù, capace di aspettare il tempo in cui «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà sulla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 85/84).
  • Gesù rimane nel solco del monoteismo e vuole persuaderci, contro tutte le evidenze, della bontà dell’Altissimo, affermando che «Nessuno è buono, se non uno solo, Dio» (Lu 18, 19), riprendendo la scrittura che dice anche: cantavano «ringraziamenti al Signore perché è buono, perché la sua grazia dura sempre verso Israele» (Esd 3, 11). Nel gioco dei ruoli trinitari, il Cristo sembra venuto a correggere e integrare la Legge del Padre con la Legge dell’amore («Chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge», Rm 13, 8).  Egli non si pronuncia sul male e il dolore, “giustifica” il Padre, si pone di fronte alla sofferenza offrendo la sua solidarietà e il suo martirio di “servo sofferente”, e promettendo la fine di ogni negatività (concetto cristiano di salvezza). Così facendo, Egli è al riparo da ogni coinvolgimento sul perché le cose siano andate come sono andate e vadano come vanno (con la massa di dolore innocente che chiede di essere redento). Tuttavia, se tutto si svolgesse secondo un ordine provvidenziale, espressione della volontà di un Dio buono, non ci dovrebbe essere bisogno di interventi correttivi o integrativi, per cui o Gesù è Dio ed è anch’egli “responsabile” del male che è nel mondo (in complicità col Padre) o è soltanto un “servo sofferente” e allora il suo sacrificio non è bastato — come sperimentiamo ogni giorno — a operare la grande redenzione e a cancellare il dolore, riuscendone a cambiare, forse, solo significato e modalità di gestione, come, più o meno, possiamo cercare di fare tutti noi quando vogliamo essere redentori del male nell’amore. La persona, la cui dignità viene pur affermata in quanto figlia e immagine di Dio è mortifica qui e oggi per farla splendere e domani, senza speranza di autonoma salvezza («i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare? E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”», Mt. 19, 25 s.). Qui si può abbracciare il nemico e il cattivo, perché quel che succede nella storia non ha grande importanza in quanto si verrà compensati : il discorso delle beatitudini è il grande manifesto del risarcimento, un risarcimento che si avrà in un giorno lontano, in cui “alla fine”, il Signore asciugherà tutte le lacrime, perché non ci saranno più malattie, sofferenze e morte. Ma la promessa non mantenuta illanguidisce nel tempo e la figura stessa del Redentore si è trovata progressivamente esposta al rischio di un progressivo logorio di attendibilità: l’idea del Dio summum bonum ha lasciato il posto a una figura bivalente, dal duplice volto, uno luminoso e amorevole e un altro oscuro e crudele (Jung). Ed è alla nostra “volontà buona”, che non vive nel “regno dei cieli” ma nella “repubblica della terra”, che resta il compito di combattere il male, e possibilmente vincerlo, senza giustificazionismi e senza complicità.
  • L’utopia marxiana, in questa prospettiva, si qualifica come eresia cristiana: eresia, perché pensa di portare in terra una società pensata per il cielo, e cristiana, perché la colloca comunque in un altro tempo, alla fine della storia. Prigioniero del nesso perverso tra utopia e terrore, il cosiddetto umanesimo marxiano avendo a che fare con una società di uomini e non di angeli è costretto a colmare il gap attraverso una tremenda macchina di repressione e di violenza che non solo uccide la libertà, ma tradisce anche l’esigenza di giustizia in cui doveva risiedere la sua ragion d’essere.


Una spiritualità del finito significherà allora, finita la ricerca dell’alleanza con le potenze (l’Alleanza non è più una virtù!), vivere nella consapevolezza della contraddittoria, limitata, tragica condizione umana, impegnata a riavvicinare quel sacro che era stato allontanato, lavorando umilmente, contando sulle proprie forze e non più sul Pastore «che su pascoli erbosi mi fa riposare» (Sal 23, 2). Si tratterà di una costruzione complessa di cui cominciamo a poter vedere solo qualche abbozzo, perché una “nuova religione”, che porti a riavvicinarci al sacro e a quello che è stato chiamato il “reincanto del mondo”, non potrà essere costruita a tavolino. Vorrei augurarmi che un buddhismo “critico” possa offrire, con le sue accurate analisi della condotta in tutte le sue manifestazioni, un significativo contributo di mediazione e di approfondimento, pur nella consapevolezza di dover compiere anch’esso uno sforzo di modernizzazione per costruire una via occidentale per il Buddha-Dharma. Si tratta di una meta che deve, infatti, impegnare tutti, perché a ogni religione si può dire, come l’Angelo a Maria nelle parole di Rilke (Annunciazione): «Tu non sei più vicina a Dio di noi; siamo lontani tutti». E meritano di essere qui ricordate le considerazioni che Fromm, già vari decenni fa, faceva (in The Sane Society, 1955; tr. it. Psicanalisi della società contemporanea) su una possibile religione del futuro: «In effetti, per coloro che vedono nelle religioni monoteistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano, non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilupperà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più importante carattere di questa religione sarebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’Oriente e dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica di vita piuttosto che su credenze dottrinarie. Una simile religione creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espressione tali da produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano maturi. [Fromm scriveva molti decenni fa e oggi non è detto che si debba necessariamente pensare a una persona fisica, perché potrebbe, ad esempio, trattarsi anche del “Dio digitale” che comincia ad avere una sua esistenza latente nei nostri computer]. Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimere la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa».
Albert Camus aveva visto nella mitica figura di Sisifo l’immagine della condizione umana, quella che ci porta a costruire, perdere, ricominciare e aveva pensato di poter prospettare non il solito Sisifo dannato e sconfitto, ma addirittura un “Sisifo felice”. Quale potrebbe essere la fisionomia di una felicità legata alle fatiche e alle sconfitte di Sisifo? Per calare questa figura archetipica nella nostra realtà quotidiana potremmo immaginare una situazione in cui il mattino, per così dire, ci veda pieni dell’élan vital del costruttore, potremmo dire “pazzi di gioia” nel produrre nuove opere di bene, di bello, di vero, ma ci veda poi, la sera, “saggi di dolore” di fronte ai limiti e alle sconfitte legate alle nostre debolezze, consapevoli di dover ricominciare daccapo il giorno dopo. Ebbene, io credo che Sisifo, cioè noi, possa essere felice realizzando una coscienza che riesca, tenendo insieme la saggezza della sera e la follia del mattino, la tristezza e la gioia, a conciliarsi con l’inconciliabile, sapendo che la felicità (la jouissance), richiamando le parole di Maupassant, non è necessariamente allegra.

mercoledì 30 novembre 2011

Sulla pazienza#9/Contemporanei


I moralisti contemporanei non trattano più volentieri delle virtù e dei vizi; semmai privilegiano vizi e passioni rispetto alle virtù. Fa eccezione Salvatore Ntoli che, nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù, include la Pazienza e la confinante Fortezza. Perché la pazienza è virtù attiva, non semplice rassegnazione: pur tollerando con animo equilibrato le contrarietà della vita, «l’uomo paziente non si adatta al dolore, ma lo governa: soprattutto non lo accetta come una condizione definitiva. Paziente è colui che sa a lungo sopportare, ma è soprattutto colui che sa attendere, che non si lascia vincere dalla tristezza, che nel dolore non è preso dallo sgomento, bensì è capace di discernere altre possibilità». Il che significa anche nessuna debolezza verso disservizi, crisi amministrative, illegalità, che toglierebbero alla pazienza il carattere di virtù trasformandola in connivenza.
La pazienza consente di sopportare i danni che ci vengono dagli altri nella fiducia che l’altro possa cambiare, per cui «la pretesa del giusto risarcimento, non deve escludere la comprensione delle ragioni dell’altro», che anzi dobbiamo aiutare perché possa comprendere i suoi errori. Abbiamo visto come Shantideva, vedi post del 14 10 11, sottolineasse il “determinismo” presente nel comportamento altrui (e nel nostro!), con una catena (karmica) di cause ed effetti che non lo rendono “responsabile” dei suoi atti, catena sulla quale possiamo, tuttavia, esercitare un effetto di cambiamento proprio con la nostra azione educativa e tollerante.
Imparentata con la fortezza e con la perseveranza, la pazienza — nota giustamente Natoli — è «prerogativa di una forma mentis capace di complessità», ma qui egli sembra avere abbracciato un ottimismo “d’ordinanza” che vuole rassicurarci della costante presenza di alternative “positive”, mentre è proprio la consapevolezza della complessità che, collocando i nostri danni e le nostre “disgrazie” nel quadro della sofferenza universale (dukkha, “cià che è difficile da sopportare” nel lessico buddhista), di fronte al male ineluttabile che abbiamo il dovere di non nascondere, ci dà sì una ulteriorità, ma l’ulteriorità rappresentata, in ultima istanza, dalla coscienza e dalla paradossale affermazione di libertà propria del martire.