giovedì 26 marzo 2015

Una morale provvisoria?

Accolto da recensioni entusiastiche, il libro del giovane Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privato, fin dall’ossimoro del titolo avvince e incuriosisce: avvince per la scrittura lineare, fluida e pulita, incuriosisce per la trama a poco a poco sempre più avvincente di romanzo di formazione (come? a cosa?), particolarmente impegnativa in questo nostro tempo post-ideologico, dai valori traballanti e dalle strutture, come oggi si ama dire, fluide.
L’autore e io narrante ci presenta nel modo più diretto e impudico le varie tappe della propria maturazione, passando dalla frenesia onanistica adolescenziale alla ricerca di femmine con cui sperimentarsi nella speranza di «riavvicinarsi al sodalizio con Venere», ma senza riuscire ad andare oltre esperienze angosciosamente dissipative. I personaggi al contorno sono un po’ delle ombre cinesi, senza spessore e senza meta, amici coi quali non si stabiliscono dei veri legami sociali, per cui quello che sorprende è la progressiva affermazione, nella coscienza dell’autore, del valore delle figure genitoriali che, post-moderne, imprevedibili, mai depresse e assenti, restano per il protagonista gli unici modelli e riferimenti positivi ai quali egli cerca di avvicinarsi e coi quali, finché in vita ma anche oltre, si capisce che ha costruito dei veri, solidi, insostituibili rapporti.
Infatti, seguiamo gli attraversamenti di varie esperienze lavorative, precarie e inconsistenti, tranne quella (omaggio al buonismo del pensiero dominante!) dell’insegnamento in una scuola per immigrati, finché il vero approdo (trovata una compagna docile e solida) sarà non tanto quello di una stabilizzazione professionale, ma quello della paternità, mentre il grande mondo rimane un fondale presente, ma sbiadito.

Bombardati come siamo da analisi della famiglia in crisi avanzata, dalle discussioni sull’identità di genere e sulla ormai consolidata scomparsa dei padri, il libro ha un carattere che si potrebbe dire “reazionario”, ma che, nella sua onestà non giudicante, è una confessione controcorrente e probabilmente sincera, che invita a riflettere su e a valorizzare quanto è riuscito a resistere ai progressivi tsunami che devastano la nostra civiltà e che potrebbe costituire un’àncora a cui afferrarsi per far andare avanti il mondo in attesa di tempi migliori, se è mai dato immaginarli.

lunedì 16 marzo 2015

Papa Francesco e le stragi dei cristiani (e non solo)

Di fronte alle stragi di cristiani (e non solo) Papa Francesco sembra in difficoltà a esprimere una forte condanna e una precisa indicazione  di intervento nei casi in cui la linea della preghiera e della misericordia a tutti i costi rischia di diventare o almeno di apparire come una forma di complicità con gli aggressori.

Sarebbe per questo opportuno ricordare come papa Giovanni Paolo II, un papa che non ha mai cessato di affermare che la guerra non può essere la via per risolvere i conflitti internazionali, di fronte a quanto stava negli anni Novanta accadendo nei Balcani e in Medio Oriente, non aveva esitato a operare la definitiva assunzione del concetto di “ingerenza umanitaria”, abbandonando la dimensione profetica e collocandosi sul piano della concretezza storica: «Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli stati non hanno più il “diritto all’indifferenza”. Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore» (al Corpo diplomatico, L’Osservatore romano, 17.1.1993). E ancora (nell’Udienza gen., del 120194): «La Sede Apostolica, da parte sua, non cessa di ricordare il principio dell’intervento umanitario. Non in primo luogo un intervento di tipo militare, ma ogni tipo di azione che miri a un “disarmo” dell’aggressore. È principio che nei preoccupanti avvenimenti dei Balcani trova una precisa applicazione. Nell’insegnamento morale della Chiesa ogni aggressione militare è giudicata come moralmente cattiva; la legittima difesa invece è ritenuta ammissibile e talora doverosa. La storia del nostro secolo ha fornito a tale insegnamento numerose conferme».

giovedì 12 marzo 2015

Libero arbitrio: onore delle armi?

È ormai da considerare conclusa la travagliata storia del “glorioso” libero arbitrio o è ancora possibile individuare uno spazio, compatibile con gli sviluppi della psicologia e delle neuroscienze, in cui il soggetto possa riconoscere l’estrema dimora di quelle che usiamo chiamare libertà e dignità (pur senza maiuscole)? Sembra venuto il momento di ritornare proprio alla visione (hegeliana) della libertà come coscienza della necessità, una necessità per la quale il soggetto, riconosciutosi parte di una realtà più grande (dio, inconscio, mistero) possa perfino dire «Sia fatta la tua Volontà», senza tuttavia porsi in atteggiamento di passiva sudditanza e rassegnazione, e rivendicare, quando tutto è perduto (ma anche, in tono minore, nel quotidiano) la propria dignità di martire davanti a un destino di sconfitta e di morte. 
Scoprendo di essere stato indotto a macchiarsi di colpe “oggettive”, in realtà solo “errori” commessi per ignoranza (=limite) e per desiderio (=inconscio), l’autonomia del volere viene a ridimensionarsi alla possibilità di effettuare scelte intelligenti, cioè informate dall’esperienza, e, pertanto, più appropriate di quanto non sarebbero state se effettuate in uno stato “precedente”. Le attuali conoscenze psicofisiologiche inducono, infatti, sempre più a riconoscere che noi siamo, ad ogni istante, il risultato del patrimonio genetico e della nostra storia, avendo l’evoluzione prodotto, coi cervelli, macchine programmate per compiere scelte controllate e modulate dalle stesse scelte compiute. Senza predisposizione genetica e senza apprendimento non potremmo effettuare nessuna scelta né prendere alcuna decisione perché non saremmo in alcun modo motivati a compierla, come insegnava il famoso apologo dell’asino di Buridano, che morì di fame non avendo nessun motivo per scegliere tra due cumuli di fieno perfettamente eguali: una volontà che volesse essere assolutamente “libera” verrebbe a trovarsi, analogamente alla colomba di Kant che, desiderando volare senza incontrare la resistenza dell’aria, non potrebbe più volare in un vuoto senz’aria. Parleremo, pertanto, di libertà di scelta o di scelta libera quando il soggetto chiamato a scegliere si trovi esposto a una pluralità di proposte, offerte, possibilità, nel mondo degli oggetti (prodotti di provenienza, marche, confezioni diverse), in quello politico (partiti per storia, ideologia, personale differenti tra loro) o in quello delle proprie attività, opinioni, impegni; a differenza da situazioni in cui non vengano offerte opportunità molteplici (economia regolata e senza mercato, dittature politiche, società chiuse, disagi psichici vincolanti...). Al contrario, quando non  sia possibile operare selezioni in base alle proprie  preferenze, frutto della eredità biologica e della storia educativa diremo di essere in una situazione di limitazione o di mancanza di libertà. Il criterio non farà più riferimento a una ipotetica e astratta autodeterminazione, indipendente dalle leggi della natura, dai condizionamenti sociali, dalla propria “eredità”, per cui con libertà del volere intenderemo l’agire con la massima cognizione di causa e consapevolezza delle radici delle nostre motivazioni, utilizzando la conoscenza della necessità al fine della trasformazione della realtà.
Va anche aggiunto che, per i nostalgici della vecchia concezione del libero arbitrio, non risulterebbe proficuo il tentativo di ancorare questo al principio di indeterminazione (formulato negli anni Venti del secolo scorso da Werner Heisemberg): infatti, l’esistenza di un indeterminismo nel comportamento di particelle elementari in seno ai neuroni resterebbe comunque al di fuori della “responsabilità” dell’individuo, il quale non rafforzerebbe di certo la sua capacità di autodeterminazione se dovesse riconoscere che le sue decisioni sono frutto del caso anziché essere rigidamente determinate.
Se il libero arbitrio, tradizionalmente inteso, si rivela dunque soltanto un’illusione (Spinoza: «Coloro dunque che credono di parlare o tacere o di fare qualsiasi cosa per libero decreto della Mente sognano ad occhi aperti», Etica, parte III, prop. II), si può, tuttavia, riconoscere che si tratta di una illusione evolutivamente e socialmente “utile”, in quanto, a un basso livello di consapevolezza, credere di avere una volontà libera è condizione per impegnarsi nel controllo della realtà, mentre il fatalismo può arrestare l’impegno (volitivi vs abulici e depressi), come, d’altra parte, formulare regole, leggi, comandamenti migliora il nostro sentimento di “responsabilità sociale” e costituisce il fondamento degli sforzi educativi tesi a formare persone coscienziose e prudenti (vs persone egoiste e sconsiderate).
La consapevolezza che si opera nella tragedia a seguito di una qualche forma di disvelamento, la presa di coscienza che si realizza nella psicoterapia, l’insight meditativo, la perturbazione che si provocherebbe con la comunicazione a una persona di una ipotetica predizione “perfetta” del suo comportamento realizzata da un osservatore assoluto (secondo l’argomentazione del matematico e informatico Donald M. MacKay (Determinism and Free Will, con bibl., in R. L. Gregory, Ed., The Oxford Companion to the Mind, Oxford, Oxford Univ. Press, 1987), sono tutti esempi di “discontinuità” nel susseguirsi degli eventi e base anche di una possibile metafisica del finito e del limite (quella a cui Camus alludeva con le espressioni di “rivolta” o di “Sisifo felice”), discontinuità che, non va dimenticato, se apparirà “libera” nell’immediatezza del vissuto si rivelerà, tuttavia, anch’essa determinata nella successiva descrizione delle scelte effettuate. Come la fisica utilizza, per la natura della luce, sia la teoria ondulatoria che la teoria corpuscolare, psicologia e sociologia continueranno, da un lato, a studiare e indagare i comportamenti ricercandone le “cause”, mentre etica, politica, psicoterapia e pedagogia, dall’altro, eserciteranno sul soggetto la loro influenza educativa, terapeutica, “correttiva”... Molto interessante, in questa prospettiva, è il concetto giuridico di “responsabilità oggettiva”, connesso a una posizione o a un ruolo, e sganciato quindi da insondabili forme di  coscienziosità soggettiva.
I tempi sembrano, dunque, ormai maturi perché, sgombrato il campo da vecchie e illusorie visioni, ci si possa aprire a sperimentazioni di tipo nuovo in ambito pedagogico, psicoterapeutico, criminologico, etc., senza che il passaggio dalla “colpa” all’“errore” debba generare il timore ingiustificato di avallare impunità e di rinunciare a ogni forma di protezione sociale. Anzi, il riconoscimento dell’esigenza di giustizia come equilibrio sociale resta una delle nostre fondamentali motivazioni e non andrà, in questo diverso orientamento, in alcun modo trascurata, pur cambiando il significato di quella che si potrà continuare a chiamare “pena”, ma con il nuovo significato di opera di prevenzione e controllo sociale, rieducazione e cambiamento del destino personale dell’individuo “responsabile”.


giovedì 5 marzo 2015

Cariatidi e dintorni#48/Roma, Palazzo Brancaccio, Museo naz. arte orientale


caminetto
(foto RV)

salone degli specchi
(foto RV)

salone degli specchi
(foto RV)