venerdì 30 agosto 2013

Consolazione#6/Gesù e Buddha consolatori



Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure

Come avevo già rilevato (Consolazione#1) l’azione di consolare si dovrebbe riferire ai tentativi che facciamo per attenuare un dolore dovuto a cause e condizioni che non si possono modificare. Quando una situazione è ormai immodificabile si può tentare di alleviare la pena di chi ha subito una perdita o un danno (tipica, in questo senso, l’espressione e la realtà del “premio di consolazione”, il premio che si dà a chi non ha vinto altri più appetibili premi). La consolazione, nel caso migliore, cerca di ridefinire il problema e allargare la visione del problema con una più ampia considerazione degli eventi, ma debbo confessare che il comportamento dei consolatòri mi appare spesso di tipo manipolatorio vedendo come non esiti a ricorrere all'impiego di meccanismi di negazione e rimozione, risultando, di conseguenza, mancante di rispetto della realtà dell'altrui sofferenza (v. Consolazione#5/Belli e i Confortatori, in questo Blog). Trovo interessante, per questo, ricordare due storie, una che leggiamo nel Vangelo, l'altra della tradizione buddhista.
Nel Vangelo di Luca (7, 11 ss), si narra di come si comportò Gesù,  mosso a compassione dal dolore di una madre vedova alla quale era morto l’unico figlio.

(Luca 7, 11 ss) In seguito si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre.

Gesù, in questo episodio, non perde tempo in vani discorsi consolatori, ma — vista la situazione — fa l’unica azione che libera veramente la donna dalla sua sofferenza: cancella l’evento tragico della morte del ragazzo e restituisce questo alla madre. Sa che quel che la donna, come tutti coloro che dovessero venire a trovarsi in una situazione simile, desidera e fa quello che risponde alla sua attesa, confermando con questo la negatività e la “disapprovazione” del male-morte:  proprio quello che noi non possiamo fare nelle nostre misere attività consolatorie.
L’evangelista aggiunge che

Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione.

L’episodio, dunque, utilizza l’effetto speciale nel quadro delle attività promozionali della missione di Gesù, senza soffermarsi sul fatto che se la morte è il malum mali da cui Gesù vuole liberare l’umanità Egli, tuttavia, permette che si continui a morire e non estende la sua azione a tutti, riservandola solo a questo caso “esemplare”. Forse non poteva, e questo ci rimanda al senso della sua presenza e della sua azione: da un lato, Egli è venuto a “correggere” la Legge del Padre, ma, dall’altro, si fa poi “complice” di tutte le iniquità in essa presenti quando mostra di adeguarsi ad essa, celebrando anzi la esclusiva bontà del Padre stesso («Nessuno è buono, tranne Dio», Lc 18, 19).

In una analoga storia buddhista troviamo la consolazione operata attraversp l’argomento della generalità del dolore.

All'epoca del Buddha, a una donna di nome Kisagotami morì l'unico figlio. Incapace di accettare la perdita, Kisagotami consultò innumerevoli persone per trovare una medicina che riportasse in vita il ragazzo. Si diceva che il Buddha possedesse il miracoloso rimedio. 
La donna allora andò da lui, gli rese omaggio e domandò: “Hai un medicamento che riporti in vita mio figlio?”.
“Ne conosco uno” ripose il Buddha, “ma per prepararlo devo avere determinati ingredienti”. 
Sollevata, Kisagotami chiese: “Di quali ingredienti hai bisogno?”. 
“Portami un pugno di semi di senape”, disse lui.
 La donna promise di procurarglieli, ma prima che se ne andasse il Buddha aggiunse: “Bisogna che i semi di senape siano prelevati da una famiglia in cui non siano morti né figli né coniugi né genitori né servitori”.
 Lei annuì e andò di casa in casa alla ricerca di quanto richiesto. Dappertutto la gente si mostrò disposta a darle i semi, ma quando Kisagotami si informò sugli eventuali lutti, non trovò alcuna casa a cui la morte non avesse fatto visita: in una era deceduta una figlia, in un'altra un domestico, in altre ancora il marito o un genitore. La donna non rinvenne una sola famiglia risparmiata dalla sofferenza della morte. Vedendo che non era sola nel suo dolore, depose il corpo esanime del figlio e tornò dal Buddha, il quale disse con grande compassione: “Credevi di essere l'unica ad avere perso un figlio, ma la legge della morte è che in nessuna creatura vi è permanenza”. 

La sua ricerca insegnò a Kisagotami che nessuno vive libero dalla sofferenza e dal lutto.

La storia di Kisagotami viene solitamente interpretata secondo la prospettiva del buddhismo hinayana. Così, ad ed es., commenta Corrado Pensa (L’intelligenza spirituale): 
Kisagotami comincia ad andare in giro e naturalmente si sente rispondere regolarmente: «In questa casa contiamo un numero di morti maggiore che il numero di vivi». Quindi, a poco a poco, sentendosi rispondere in questo modo, Kisagotami è come se ritornasse in sé, si dà pace e seppellisce il suo bambino. Di nuovo, parla col Buddha che le sottolinea il carattere universale e naturale della morte. E anche qui le scritture dicono: “Kisagotami, ascoltando il Buddha, si trasforma”: di nuovo, dalla disperazione al primo grado della liberazione. La realizzazione dell’universalità, della naturalezza, dell’impersonalità della morte. Perché impersonalità? È diverso il vederla in questa prospettiva che non il viverla, come succede, ossessivamente, come un fatto personale e unico. È il contrario, l’insegnamento dice: “Tutto è fuori di un fatto unico”. C'è, dunque, una realizzazione, […] del carattere assolutamente universale e naturale della morte. Il che è il fondamento di una radicale accettazione della morte.

La constazione che la morte non è qualcosa di personale («non tibi hoc soli») può avere un suo senso come ammonimento a non enfatizzare la propria condizione, a uscire dalla centralità individuale che fa vivere l’evento negativo con chiusura e a volte con senso di punizione, ma la constatazione di un male, di un sopruso, di una sciagura non significa doverli, per questo, automaticamente accettare, automatismo che, come nel caso di Kisagotami, avrebbe portato la donna all’illuminazione. In una diversa prospettiva (mahayana) la consapevolezza che la donna acquisisce potrebbe, invece, renderla cosciente delle restrizioni della vita umana, retta da un Dharma inflessibile che esige il sacrificio dei vivi (colpendo nel mucchio!) per far posto ad altri (senza che sia dato sapere con quale criterio). Da questa visione, può di conseguenza nascere un nuovo e più maturo rapporto col Dharma, e l’impegno alla costruzione (umanesimo buddhista) dei valori nel corso della storia. Ma la prospettiva del buddhismo “antico” non si occupa di questo, la storia è sventura e l’importante è un percorso di purificazione che conduca, finalmente, all’estinzione.

Due storie, appartenenti a contesti culturali e religiosi diversi, due consolazioni una inconsueta, l’altra banalizzata, ed entrambe, a mio avviso, mal utilizzate dai cultori di quelle tradizioni.

domenica 25 agosto 2013

Amélie Nothomb 2013


Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure

Puntualmente, da più di quindici anni Amélie Nothomb non tradisce le attese dei suoi lettori e, fine agosto/primi di settembre, pubblica (editore Albin Michel) un suo nuovo libro. Anche quest’anno l’attesa non è andata delusa: ecco appena arrivato La nostalgie heureuse. Ma c’è del nuovo in questo inizio di autunno letterario: ormai quarantenne, la brillante scrittrice ha probabilmente sentito il bisogno di mettere un punto a capo, di fare i conti con sé stessa, di interrompere una routine che poteva diventare troppo scontata e impegnarsi in qualcosa di più maturo. I prossimi anni daranno una parola di verità su queste esigenze, ma per ora leggiamo che ella ha sentito il richiamo del Giappone che ha per lei un potere di guarigione: «So che ho bisogno di essere salvata. Da che cosa? Da un insieme di cose di cui molte mi sono sconosciute. Se sapessi precisamente quel che mi minaccia, sarei senza dubbio già salva». A tal fine sente l’esigenza di ritornare appunto al Giappone e ritrovare la sua vita giapponese, «che ha il merito di essere meno mescolata alle mie altre esistenze. È anche questo che amo tanto del Giappone: ciò che ho vissuto è sgombro da rumori o giri a vuoto. [...] Qualcuno potrebbe dire che in queste condizioni qualunque Paese andrebbe bene. Io so che avevo bisogno d’essere soggiogata, d’avere fede. Il Giappone suscita questo in me. È il solo». Chi ha conosciuto il fascino e ha assorbito almeno qualche elemento della eleganza, malinconia, delicatezza di quel Paese sa che questo è vero e insostituibile.
Da un lato, dunque, la Nothomb cerca una sorta di salvezza dai suoi problemi attuali (per i quali adopera disinvoltamente le parole di Racine «Il mio male viene da più lontano»), mentre, d’altro canto, sembra sentire che questo deve passare attraverso una sorta di riconciliazione proprio col suo passato giapponese. Strappata da quello che considerava il suo Eden a cinque anni, tornata ventenne con poca consapevolezza, ora i tempi sono per lei propizi per un addio più maturo a questa parte di sé, per cui è questo stesso fatto che diviene salvifico. L’incontro con sua vecchia tata ormai ottantenne, una commoventissima dichiarazione d’amore accompagnata dalle lacrime non versate a suo tempo; rivedere il suo ex ragazzo (col quale aveva vissuto, nel suo secondo periodo giapponese, descritto in Ni d’Ève ni d’Adam, una esperienza di tenerezza, amicizia, complicità, ma non di passione) dal quale era fuggita per la “minaccia” di un possibile matrimonio e che le riconferma, senza più colpe, la giustezza della sua scelta, sono tappe fondamentali per poter ormai guardare a quel passato non più con una “nostalgia triste”, ma con natsukashii, «la nostalgia felice, l’istante in cui il bel ricordo torna alla memoria e la riempie di dolcezza», una nostalgia ormai conciliata, tanto da diventare il titolo stesso del libro.
A questo punto, visitata anche Fukushima per immergersi nei luoghi dell’orrore dello tsunami, Amélie è sufficientemente purificata per ottenere «una ricompensa inattesa, quella che sperano i monaci zen: io sento il vuoto», un satori in miniatura il kensho, in cui si è «col presente assoluto, l’estasi perpetua, la gioia esaustiva», che le fa dire di essere sulla «soglia di qualcosa che sta per cominciare» e, finalmente, «la tristezza, che si sarebbe dovuta abbattere su di me all’idea di lasciare ancora una volta il Giappone, non arriva»: è una guarigione e una redenzione, sottolineata dalla visione estatica dall’aereo, nel viaggio di ritorno, dell’Everest, di fronte al quale si promette di non avere più né dolore né malinconia, ma solo, al massimo, della "nostalgia felice".
Guarita dal Giappone e del Giappone, l’Autrice coraggiosamente ci confida di sentirsi di fronte a un nuovo inizio, con tutto quello che questo vissuto ha di più promettente. E anche Parigi in cui torna («la città dove hai conquistato il diritto di abitare») è vista con occhi nuovi e gioiosi («considero la mia felicità e mi rallegro delle cose fantastiche che mi accadranno»). Ma presto il quotidiano trionfa sull’entusiasmo, ricomincia il canto delle sirene (tornare tra le braccia della tata Nishio-san, sentire il “ragazzo” Rinri...), le persone chiedono di raccontare, ma non si può e tutto suona falso. Nell’ultima tornano due parole che erano comparse nelle pagine precedenti: “indicibile” (come aveva detto l’ex fidanzato) e “sconosciuto” (ciò che minacciava): «Urto contro il muro dell’indicibile. Non so se bisogna grattarlo per ricavare qualche infimo frammento o scavare una galleria. Alla fine, opto per questa soluzione. Poiché sono in una impasse emozionale, decido di partire. Questa volta la destinazione è sconosciuta». Viaggio metaforico o letterale? Per noi un motivo in più per attendere le sue future produzioni, l’anno prossimo o forse più in là, senza una data prestabilita...

venerdì 23 agosto 2013

pensieri di malattia#5


Libri, deposito di sapienza, veicoli di salvezza, messaggeri di Altro: quanto doloroso doverli abbandonare. Era il cruccio anche del cardinale Mazzarino (la cui biblioteca divenne poi la Biblioteca dell’Institut de France, cioè il complesso delle Accademie). Ma a volte, guardandoli, mi sento guardato e sento il loro rimprovero: averli portati e raccolti qui e non averli più e più frequentati, amati, assorbiti... Potrò essere perdonato?

I riferimenti si sgretolano, le attrattive scompaiono, questa la vera infelicità senza desideri. Il corpo sembra sapere come preparare la sua ars moriendi che la coscienza ha tanto (forse inutilmente) faticato a costruire.

il comodino del malato: fazzoletti, lampada, occhiali, un bicchiere, termometro. L'immediato che definisce l'ammalato: orrore...

Impegno a rimanere con voi/tra noi, continuando a cercare di sottrarre all’oscurità frammenti di consapevolezza (di valore), schegge  di coscienza transpersonale...

Prospettive. La malattia e/o il pensiero della fine della vita, col forzato diminuire delle attività e degli impegni, creano un tempo più poroso e riflessivo, quasi monastico anche per chi era giustamente immerso nell’incalzare del samsara. Viene favorita una visione meno puntuale, circoscritta, impegnata nel presente, una visione prospettica che non dovrebbe mai essere dimenticata, ma è, al solito, difficile da attualizzare nel quotidiano. Una visione che colloca il succedersi degli eventi nel più ampio percorso di una biografia, all’interno della quale essi vengono “relativizzati” (messi in relazione) e possono assumere un significato più ricco e più vero nel loro svolgersi e passare. Allargando ancora la visuale, le vicende individuali vanno quasi spontaneamente a collocarsi nel più ampio quadro della vicenda che coinvolge le relazioni che incontriamo, alimentiamo, intrecciamo. Anche queste passeranno, pensiamo a tutte le storie “dimenticate” del passato, anche recente, alle vite delle persone ormai scomparse e “dimenticate”: ma storie e persone che sono state reali e attive nel loro tempo e che hanno così alimentato quella coscienza transpersonale che vive attraverso e al di là delle singole storie: dimenticate, ignorate, ma redente. Con che nuovo rispetto e diversa tenerezza possiamo ora guardarle, o anche solo immaginarle, e apprezzarle! 

domenica 18 agosto 2013

Schermaglie#30: dov'è la felicità?



Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure



Nella grande galassia della nouvelle vague troviamo convivere personalità e temperamenti diversi la cui collocazione risulta non sempre facile e a volte arbitraria. Ma lasciamo agli storici del cinema questo problema per rivolgersi a due film, di ispirazione quasi analoga ma con esiti differenti, nati nella stessa “famiglia” e nello stesso tempo: Les parapluis de Cherbourg (1965) di Jacques Demy e Le bonheur di Agnès Varda (1965).
I due film potrebbero essere considerati come illustrazioni degli Stadi sul cammino della vita di S. Kierkegaard. In Le bonheur, la Varda — regista attenta, sensibile, dalla capacità espressiva ricca e diversificata — presenta la famiglia di François, Thérèse e due bambini, “felice” nella sicurezza degli affetti. François un giorno incontra Émilie, quasi una copia della moglie, tuttavia l’importante è che sia un’altra, un’apertura alla vita al di là del quadretto familiare. François vorrebbe conciliare l’avventura con la stabilità, l’estetica con l’etica. Ma non è il vissuto della moglie che lo sente inaccettabile e si suicida. François finisce con lo sposare Émilie e il film sottolinea come il nuovo quadretto familiare, sia lo stesso del precedente, anche se non il medesimo. Cambia il nome, ma non il ruolo della compagna di François, i tempi del quintetto di Mozart, che fa da colonna sonora, sono diversi, è cambiata la stagione, i colori e l’abbigliamento, ma François, di nuovo inquieto, sembra interrogarsi su dove si trovi ora e se la felicità sia lì. Dunque, o la felicità è nel racconto della felicità che ci facciamo e che non consente di venir messa in dubbio, premiando con la sicurezza e la solidarietà, o è in quell’oltre, imprecisato e proprio perché non dominato è promessa e non realizzazione: due modelli che sembrano non poter convivere (come sottolinea la fine di Thérèse di fronte al possibilismo egocentrico di François). 
Jacques Demy, marito della Varda (al quale ella ha dedicato come omaggio post-mortem, il bellissimo, Jacquot de Nantes, 1991), regista delicato nella forma “impressionistica” e nei contenuti leggeri, ma non privi di ironia, in Les parapluis de Cherbourg (1964, Palme d’or a Cannes), apre un nuovo genere di commedia musicale francese, e mostra, in questo film, al contrario di Le bonheur, due amanti che, dopo avere attraversato vicende complesse e dolorose, e aver costruito ciascuno una propria vita indipendente, si rincontrano casualmente dopo anni, ma non cedono a velleitarie tentazioni di “ripresa” e si salutano convinti (in particolare Guy) di non avere più niente da dirsi. E qui l’etica dell’“assessore Guglielmo” prevale sull’estetica dei vari “Don Giovanni”. Ancora Kierkegaard!