mercoledì 30 novembre 2011

Sulla pazienza#9/Contemporanei


I moralisti contemporanei non trattano più volentieri delle virtù e dei vizi; semmai privilegiano vizi e passioni rispetto alle virtù. Fa eccezione Salvatore Ntoli che, nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù, include la Pazienza e la confinante Fortezza. Perché la pazienza è virtù attiva, non semplice rassegnazione: pur tollerando con animo equilibrato le contrarietà della vita, «l’uomo paziente non si adatta al dolore, ma lo governa: soprattutto non lo accetta come una condizione definitiva. Paziente è colui che sa a lungo sopportare, ma è soprattutto colui che sa attendere, che non si lascia vincere dalla tristezza, che nel dolore non è preso dallo sgomento, bensì è capace di discernere altre possibilità». Il che significa anche nessuna debolezza verso disservizi, crisi amministrative, illegalità, che toglierebbero alla pazienza il carattere di virtù trasformandola in connivenza.
La pazienza consente di sopportare i danni che ci vengono dagli altri nella fiducia che l’altro possa cambiare, per cui «la pretesa del giusto risarcimento, non deve escludere la comprensione delle ragioni dell’altro», che anzi dobbiamo aiutare perché possa comprendere i suoi errori. Abbiamo visto come Shantideva, vedi post del 14 10 11, sottolineasse il “determinismo” presente nel comportamento altrui (e nel nostro!), con una catena (karmica) di cause ed effetti che non lo rendono “responsabile” dei suoi atti, catena sulla quale possiamo, tuttavia, esercitare un effetto di cambiamento proprio con la nostra azione educativa e tollerante.
Imparentata con la fortezza e con la perseveranza, la pazienza — nota giustamente Natoli — è «prerogativa di una forma mentis capace di complessità», ma qui egli sembra avere abbracciato un ottimismo “d’ordinanza” che vuole rassicurarci della costante presenza di alternative “positive”, mentre è proprio la consapevolezza della complessità che, collocando i nostri danni e le nostre “disgrazie” nel quadro della sofferenza universale (dukkha, “cià che è difficile da sopportare” nel lessico buddhista), di fronte al male ineluttabile che abbiamo il dovere di non nascondere, ci dà sì una ulteriorità, ma l’ulteriorità rappresentata, in ultima istanza, dalla coscienza e dalla paradossale affermazione di libertà propria del martire. 

venerdì 25 novembre 2011

Schermaglie#20/Una separazione

Il film di Asghar Farhadi, Una separazione (Orso d’Oro della 61esima edizione del Festival di Berlino), ha molti motivi di interesse: conoscenza di una cinematografia poco nota nel nostro Paese, sguardo su una società “separata”, rapporto costume-religione, ma soprattutto quello della complessità delle relazioni umane. Non solo dei due coniugi Nader and Simin che stanno per separarsi, ma quelli più estesi tra giovani e vecchi, figli e genitori, poveri e benestanti, cittadini e giudici. 
Il protagonista Nader viene a trovarsi in una rete di menzogne, confronti, doveri in conflitto tra loro; la moglie aspira a un altrove irraggiungibile, spinta dalle sue paure; la figlia adolescente dovrà scegliere con quale genitore continuare a vivere e quale futuro avere; il vecchio nonno con l’Alzheimer è un testimone muto di quanto accade attorno a lui. 
Il film non vuole offrire risposte: sarebbe troppo rassicurante, perché in realtà i confini tra verità e menzogna, sincerità e simulazione, innocenza e colpa sono labili, porosi, attraversati da tutte le nostre incertezze. Asghar Farhadi sembra sapere che le domande fondamentali dell’esistenza non vanno affrontate cercandone la soluzione ma piuttosto la dis-soluzione, sopportando parzialità, compromessi, approssimazioni, con una postura im-parziale come quella suggerita dalla metafora del vecchio nonno: attonita, sospesa, non-giudicante.

mercoledì 16 novembre 2011

Schermaglie#19/Le avventure di Tintin (di Spielberg)

Tutti che presto o tardi nella vita hanno incontrato Tintin non potranno ignorare il film di Spielberg, grati di questa nuova ondata di popolarità offerta al “giovane reporter” e ai suoi amici e antagonisti. Tuttavia il film, semplificando e contaminando tra vari album di Hervé, ha privilegiato gli elementi più “spettacolari”, nei quali usare a profusione effetti 3D, motion capture, etc., mettendo in primo piano l’ubriachezza del capitano  Haddock e le sue spacconate piuttosto che il vero protagonista o il cane Milou o gli indimenticabili Dupond e Dupont.
Gli amanti della “ligne claire” di Hervé e del delicato, ingenuo e generoso personaggio, come lo hanno vissuto proiettandolo sul proprio schermo personale, non potranno non restare delusi e sentirsi lontani dal Tintin di Spielberg, che non so, d’altra parte, quanto potrà affascinare chi non lo avesse ancora mai incontrato, come appunto gran parte del pubblico americano.
Infine, per chi ama il tridimensionale, meglio i seducenti (e costosi!) modelli, realizzati da un artigianato appassionato, che si possono acquistare in rete o, per es. a Parigi, nel negozio di Pixi & C.ie, al 6, rue de l’Echaudé (Saint-Germain des Prés).

Vetrina di Pixi e C.ie 
(foto RV)

venerdì 4 novembre 2011

Roma barocca#14/S. Girolamo della carità

Nella piccola (e quasi mai aperta) chiesa di S. Girolamo della carità (costruita sull’area della casa di una matrona romana di nome Paola, dove nel 382 S. Girolamo sarebbe vissuto, realizzandovi anche una sua ecclesia domestica; la chiesa passò poi all’Arciconfraternita della carità e fu legata nel Cinquecento all’opera di S. Filippo Neri), sita in quella via di Monserrato che è tra le più tipiche e affascinanti della “vecchia Roma”, c’è una cappella (a dx entrando), opera tarda di Borromini (attribuzione da alcuni contestata, anche se vien da dire che si tratta di un’opera che più borrominiana non si può), a lui commissionata dall’oratoriano Virgilio Spada nel 1654 (si ricordi la vicina  “prospettiva” di Palazzo Spada, altro capolavoro sempre di Borromini). La cappella è un tripudio di intarsi marmorei policromi imitanti una tappezzeria, bassorilievi, iscrizioni commemorative di membri della famiglia e, alle pareti, le tombe di Bernardino Lorenzo Spada (opera di E. Ferrata) e di Giovanni Spada (di C. Fancelli).
Ma l’elemento più originale è la balaustra a drappo in diaspro sanguigno sorretta da due angeli inginocchiati (opera di A. Giorgetti). Così ne parla, tra l’ammirato e l’ironico, Marco Lodoli, scrittore di talento, esperto in labirinti romani: «Per i defunti della famiglia Spada, Borromini ha immaginato uno straordinario negozietto di stoffe eterne: un campionario infinito di marmi policromi che fanno pensare a un aldilà gestito da un tappezziere allegro, a un olremondo di sete e tappeti primaverili sui quali rigirarsi e far capriole senza pesi addosso. La morte vista da qui non è più una porta angosciosa da superare pregando e tremando, ma una tenda leggera e colorata oltre la quale sbirciare la vita che verrà. E davanti alla cappella c’è la più bizzarra balaustra che si sia mai vista: niente austere colonnine, nessun gelido pianale su cui poggiare i gomiti implorando il perdono per i mille peccati, ma due angeli simpatici — evidentemente i commessi del negozio — che distendono fra loro lo scampolo di una delicata stoffa marmorea a righe rosse, un drappo che sembra il sontuoso nastro d’arrivo di una esistenza fortunata». 
IMPERDIBILE!






(foto RV)





mercoledì 2 novembre 2011

Non è un giornale del mattino...

Non è un giornale del mattino, ma Orazio (Odi, III, 1, 40):
«Post equitem sedet atra cura» [Siede dietro al Cavaliere il nero affanno]...