giovedì 27 settembre 2012

Quel che resta del bushido/Schermaglie#26


Il romanzo Quel che resta del giorno, racconta in forma di diario la storia di un maggiordomo inglese, Mr Stevens, e del suo lavoro a Darlington Hall, prima al servizio di Lord Darlington e poi dell’americano Mr Farraday. Sul finire dell'estate del 1956, Mr Stevens sente il bisogno di una pausa e, su proposta del suo stesso datore di lavoro, fa un breve viaggio nella campagna inglese, sperando di rivedere Miss Kenton, molti anni prima governante a Darlington Hall, per esplorare la sua disponibilità a tornare a lavorarvi.
L’ambiente inglese e la figura di un impeccabile maggiordomo sono per Ishiguro Kazuo, autore giapponese trapiantato in Gran Bretagna, il contesto e le metafore adatti per affrontare i temi della dignità, della devozione, del sacrificio della propria vita privata al fine di svolgere un compito “più importante”, tutti elementi fondamentali della cultura giapponese, di cui l’A. sembra voler saggiare la possibile coerenza con un ambiete extra-nipponico. Il maggiordomo Stevens nel suo breve viaggio-vacanza, anche questo una metafora, si concede un tempo psicologico per ripensare alla sua vita, alle rinunce, al significato di fedeltà e dedizione quando si rivelino mal indirizzate.
Cosa rende “grande”un maggiordomo? In che consiste la sua dignità? Questa domanda attraversa un po’ tutto il libro e le risposte che Mr Stevens si dà sono sostanzialmente due: la prima fa coincidere la dignità con la capacità di non abbandonare mai il ruolo professionale, non facendosi «sconvolgere da avvenimenti esterni, per quanto sorprendenti, allarmanti o irritanti questi possano essere», non lasciando mai emergere la dimensione privata e portando su di sé la «professionalità allo stesso modo in cui un vero gentiluomo porta l’abito che indossa: e cioè senza consentire a dei mascalzoni o alle circostanze di strapparglielo di dosso davanti agli occhi di tutti; sarà egli stesso ad abbandonarlo quando stabilirà di farlo e soltanto allora, cosa che invariabilmente accadrà quando egli sarà rigorosamente solo» (p. 54). Per questo, in un’altra pagina, egli dirà, senza che l’interlocutore possa effettivamente comprenderlo, «ho il sospetto che sostanzialmente consista nel non togliersi i panni di dosso in pubblico». Egli prende anche in esame i criteri adottati dalla Hayes Society (che «si vantava di accogliere tra i suoi membri maggiordomi che fossero “solo di primissimo rango”») per ammettere professionisti che mostrassero «quella dignità all’altezza della posizione che si occupa», e qui apprendiamo che un prerequisito fondamentale era che «l’aspirante fosse aggregato ad una famiglia illustre”». Per Mr Stevens e alcuni suoi colleghi (di una «generazione dotata di molto maggiore idealismo» delle precedenti) il riferimento era «lo status morale di coloro presso i quali prestavano la loro opera» (p. 138) e non la collocazione nella scala sociale di quella famiglia. Di conseguenza, il prestigio professionale doveva poggiare sul valore morale del padrone e questo poteva giustificare la totale delega su modi e mezzi attraverso i quali questo svolgeva la sua opera al servizio dell’umanità. Così ciascuno di quei grandi ma umili maggiordomi, col proprio servizio, dice Mr Stevens, «nutriva il desiderio di offrire il suo piccolo contributo alla creazione di un mondo migliore e si rendeva conto che […] il mezzo più sicuro per fare una cosa del genere era quello di entrare al servizio dei grandi personaggi del nostro tempo, alle cui mani era stata affidata la civiltà» (p. 140 s). Qui vediamo messo in luce il fondamento del sistema imperiale e sociale giapponese, in cui ciascuno dà il contributo che gli è proprio e questo acquista significato nella misura in cui partecipa alla realizzazione di un progetto, affidata a chi è al vertice della piramide sociale.
Ma negli incontri con “gente comune” che Mr Stevens fa nel corso del viaggio (un gruppo di abitanti di un villaggio in cui il maggiordomo è costretto a sostare), vediamo affiorare una seconda, diversa risposta in cui mi sembra di scorgere il tentativo di esprimersi di una nuova mentalità giapponese che si interroga su quel sistema, ne scorge i limiti e vorrebbe, pur senza distruggerlo, modificarlo. Nelle conversazioni si affacciano nuovi argomenti, si prospetta una nuova definizione di dignità valida per tutti (essere liberi di esprimere la propria opinione e di eleggere dei rappresentanti), si presentano nuovi criteri di partecipazione alla grande società e sono messi in discussione modalità e limiti della delega, dato che spesso i grandi progetti si rivelano disatrosi (esperienza giapponese della seconda guerra mondiale!). Sembrerebbe giusto, ma la democrazia non può ignorare che la “gente comune” non ha idee chiare e competenze sufficienti per affrontare i problemi della nazione e quindi deve delegare a chi ha maggiori capacità la responsabilità delle scelte. Il libro lascia aperti gli interrogativi e, pur nella consapevolezza degli errori commessi da Lord Darlington a causa delle sue simpatie verso i nazisti negli anni Trenta, Mr Stevens rimane convinto che quegli errori siano stati compiuti nella più grande buonafede e nella limpida convinzione di stare operando, in quel momento e in quel modo, per il bene comune. Se si assume un atteggiamento critico e scontento «nei confronti di un padrone», riflette Mr Stevens, non è «letteralmente possibile […] al tempo stesso fornire un buon servizio», per cui la morale che ne segue è che quando si ripone la propria fiducia in qualcuno che riteniamo «nobile e degno di ammirazione», e ci si consacra al suo servizio, il criterio non sarà rappresentato da bontà e successo dei progetti, ma dal fatto di aver agito ritenendo di operare sempre per il meglio. Così stando le cose, il criterio diviene il leader stesso (in Giappone era l’Imperatore) e agli altri resta la soddisfazione di offrire il proprio contributo a qualcosa di grande. È l’etica della completa dedizione, il codice morale del bushido (la via del guerriero), di cui si tenta una riattualizzazione. «Se alcuni di noi sono pronti a sacrificare molto, nella propria vita, al fine di perseguire tali aspirazioni, ciò sicuramente rappresenta in sé, quali che siano i risultati che ne derivano, motivo di orgoglio e di felicità» (p. 293). Il libro non offre soluzioni, né è certo “obbligato” a farlo!, ma non prende in considerazione il fatto che le democrazie occidentali avevano individuato una risposta al conflitto tra democrazia diretta e assolutismo (che possono rivelarsi entrambi rovinosi), una soluzione “mediana”, contando su partiti politici capaci di svolgere la funzione di “intellettuale collettivo”: il “popolo” esprime dei bisogni, manifesta degli interessi, esercita il controllo delle élite, ma — sulla base di un rapporto di fiducia che non deve essere tradito — deve lasciare a chi ha le giuste competenze il compito della mediazione e la scelta dei mezzi più adeguati per affrontare i problemi di una nazione o addirittura dell’intera umanità. Oggi la crisi della rappresentanza ha drammaticamente riaperto tutti problemi della direzione politica, in un vuoto che favorisce, da un lato, corruzione, dilettantismi, caccia al potere e ai privilegi, e, dall’altro, le espressioni del più individualistico e localistico populismo, per cui le domande del libro (scritto circa 25 anni fa!) sono tornate brucianti per noi che stiamo vivendo l’erosione generale di valori e norme, e la difficile individuazione di leadership credibili verso le quali orientare quei bisogni di autolimitazione, dedizione, obbedienza che — come aveva ben visto Fromm — fanno parte dei bisogni autenticamente umani. In una democrazia contraffatta anche l’etica del bushido risulta quindi compromessa e impraticabile: se l’obbedienza irragionevole non è più una virtù potendosi tramutare in complicità, la cosiddetta democrazia diretta si rivela attrettanto irragionevole, caricando l’individuo della responsabilità di tutte le scelte, anche di quelle in cui sa di non avere le giuste competenze per decidere.
Nel libro, infine, viene toccato un altro tema, connesso al primo, ma anche più generale, quello del bilancio di vita che, dolorosamente, nell’età avanzata può portare a domandarsi: «Era questa la mia vita?», per magari concludere, con Miss Kenton, «“Che terribile errore è stata la mia vita”. E allora si è indotti a pensare ad una vita diversa, una vita migliore che si sarebbe potuto avere» (p. 286). Rinunce, sacrifici, illusioni: quanti “errori”! In sede di bilancio ci si accorge che forse nessuna vita si è vissuta come si desiderava vivere. Ma l’orologio non si può portare indietro, gli “errori” non si possono più “correggere” e forse va spezzata la catena (illusoria) che lega libertà, responsabilità e colpa. E cosa va considerato “errore”? L’A. fa dire, a uno sconosciuto che Mr Stevens incontra dopo aver lasciato la sua vecchia collega di lavoro, che «la sera è la parte più bella della giornata. Hai concluso una giornata di lavoro e adesso puoi sederti ed essere felice». Così, pur «accorgendosi che le nostre vite non sono state proprio quello che avremmo desiderato» (p. 292), si può cercare di trarre il meglio da quel che rimane da vivere. Ma, probabilmente, tutto questo non basta, perché si continuerà con altri “errori”, delusioni, inganni e autoinganni, cosa che mi fa tornare alla mente un pensiero di R. Badinter (docente, avvocato, saggista), che esprimeva la tenera “speranza” che, quando la sua anima fosse giunta alle porte del Paradiso per incontrare il Signore del mondo, questo gli potesse dire: «Hai fatto quel che potevi: entra!». Quell’incontro probabilmente non lo avremo mai e allora sta a noi costruire, qui, con quelle che chiamiamo “le nostre forze”, un equilibrio accettabile tra disimpegno assolutorio («è andata com’è andata, ma non è dipeso da me») e mortificazione colpevolizzante («è tutta colpa mia»): ancora un invito alla difficile pratica della Via di mezzo?
Nel 1993 il regista James Ivory ha realizzato una trasposizione cinematografica di Quel che resta del giorno non meno pregevole del romanzo, con le eccellenti interpretazioni di Anthony Hopkins ed Emma Thompson. Vorrei ricordare anche che, sul tema del bushido oggi in Occidente, nel 1999 uscì un altro notevole e drammatico film: Gost Dog-Il codice del samurai, di Jim Jarmusch.

venerdì 21 settembre 2012

Schermaglie#25/Monsieur Lazhar


Una maestra che si suicida e alcuni bambini che la vedono ancora impiccata nell’aula dove fanno lezione: una profonda ferita nella maggior parte di loro, sensi di colpa, interrogazioni silenziose sulla vita degli adulti.
L’elaborazione del lutto mette al lavoro preside, insegnanti, psicologi, ma forse quello che dà un vero aiuto a risolvere la situazione è l’arrivo, come supplente, di Monsieur Lazhar, un “rifugiato” in Canada dall’Algeria. Lazhar ha perso tutta la sua famiglia in uno dei tanti attentati che si verificavano/si verificano nel suo Paese; è fuggito e ora le ferite che ha subito, la solitudine, il timore dell’espulsione lo mettono in condizione di costruire un vero rapporto con gli alunni, nonostante i vincoli dati dai nuovi tabù pedagogici (pedofilia, rispetto dei diritti e della privacy che impongono di trattarli quasi “come scorie radioattive”). Sulla base della reciproca fiducia è possibile così affrontare senza rimozioni anche il tema della morte e della precarietà della condizione umana, superando — almeno per frammenti — gli ostacoli posti dalla rigidità della scuola e delle famiglie alla comunicazione e all’educazione affettiva. Un abbraccio vale a volte molto più di un discorso, ma in quali circostanze può essere permesso?
Tutto questo in un film (del canadese Philippe Falardeau, 2011), se non straordinario certamente non-ordinario, che sa essere insieme drammatico e lieve, ben condotto e recitato in modo eccellente.

venerdì 14 settembre 2012

Roma barocca#16/Borromini in Oleo


La chiesetta di S. Giovanni in Oleo è dedicata a San Giovanni evangelista e sarebbe stata eretta sul luogo in cui egli subì il supplizio per immersione in una vasca di olio bollente (persecuzioni del tempo di Domiziano). Il santo resistette e visto come mago fu liberato e inviato a Patmos (dove si ritiene abbia scritto l’Apocalisse). L’attuale tempietto ottagonale con lesene doriche, di epoca cinquecentesca, da oratorio divenne cappella del card. Francesco Paolucci de’ Calboli che lo avrebbe fatto restaurare, anche dal Borromini (come testimonierebbe un disegno conservato all’Albertina di Vienna). Probabilmente a lui sono da attribuire il tamburo con fregio a stucchi, la copertura conica e il fastigio terminale. Comunque, da non dimenticare per i cultori di Borromini


(foto da Wikipedia)
(foto RV)

venerdì 7 settembre 2012

Schermaglie#24/Incontri "misurati"


Molti aspetti avvicinano due film nati lontani e con motivazioni diverse, A Simple Life [Táo Jie, di Ann Hui, 2011] e Tutti i nostri desideri [Tous nos envies, di Philippe Lioret, 2011]: incontri con la vecchiaia o la malattia, morte annunciata e poi giunta, relazioni umane intense e trattenute.
A Simple Life nasce da una storia vera, quella di un produttore cinematografico di Hong Kong che si prende carico dell’anziana donna che per sessant’anni aveva servito varie generazioni della sua famiglia. Ora tocca a lui, ultimo rimasto a Hong Kong, di occuparsi di lei, quando sopraggiungono i danni della vecchiaia, accompagnandola fino alla morte. Il produttore Roger, apparentemente freddo, svolge il suo compito con grande impegno e dedizione nello spirito orientale dello scambio, della restituzione e del pagamento di un debito contratto con chi, in altri momenti, ci ha aiutato e si è preso cura di noi. Tutto è vissuto con semplicità (quella incarnata nell’esistenza della vecchia domestica) e con misura (anche nella difficile narrazione di infarti, ospizi, demenze senili).
 In Tutti i nostri desideri c’è, invece, la bella e giovane magistrato che scopre di avere un cancro proprio quando è impegnata in una causa nella quale cerca di contrastare l’arroganza e le soperchierie del mondo bancario verso i clienti più indifesi. Si rivolge per aiuto a un collega più anziano che si dà carico della continuazione appassionata del lavoro, e col quale nasce una solidarietà fatta non di sesso e neppure delle memorie e dei sedimenti affettivi delle consumate amicizie, ma dalla completa intesa su un progetto condiviso che nasce da un comune sentire. Claire nasconde fino all’ultimo alla famiglia la sua malattia e sarà il collega a saperlo per primo. La situazione drammatica non si fa mai melodrammatica, la reticenza di Claire non viene dall’introversione orientale, ma semmai dal segreto orgoglio di una esistenza ferita dalla condanna a lasciare anzitempo una vita incompiuta .
In tutti e due i film non ci si occupa di quel che ci aspetta “dopo”, ma di come impiegare il tempo che resta nella sofferta riflessione sul presente e sui tentativi di completamento dell’opera: la domestica farà in tempo a vedere l’ultimo rampollo della famiglia e a dare qualche oggettino in regalo alla madre del bambino; la magistrato porta avanti il suo compito fino all’estremo per poter cogliere il frutto del comune impegno, cercando nel contempo di organizzare il futuro dei suoi bambini per quando non ci sarà più.
Sentimenti asciutti, niente retorica dell’amore, comunicazione delle coscienze, comportamenti misurati, niente accanimenti terapeutici, sguardi benevolenti al futuro mondo senza di noi piuttosto che al destino dell’anima. «Non c’è nessuna strada che porti alla montagna magica», dice una poesia recitata (in A Simple Life): anzi, aggiungiamo, non c’è nessuna montagna magica da raggiungere. Ci troviamo forse di fronte a qualche segnale di un’etica del finito, all’inizio di un’era post-psicologica, post-cristiana e post-tecnologica?

martedì 4 settembre 2012

Giorno di pre-autunno

Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
Deponi l’ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura. 
Fa’ che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore.
Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell’aria fluttuano le foglie.

Rainer Maria Rilke [Giorno d’autunno; tr. di G. Pintor]

sabato 1 settembre 2012

Finis vitae#3/Tra le due latenze...


L’insegnamento fondamentale e peculiare che il buddhismo ci ha dato è quello relativo alla consapevolezza dell’impermanenza di tutti i fenomeni («tutto ciò che è determinato ed escogitato è impermanente e destinato a finire», Culasuññatasutta [Piccolo discorso sulla vacuità], M.N., n° 121), per cui «proprio come i vasi di coccio fabbricati dal vasaio finiscono sempre per rompersi, così avviene con le vite dei mortali» (Suttanipata, 8, 3-4). Questa legge è ineluttabile e, afferma il Buddha, «Vi sono cinque cose che nessun asceta, nessun bramano e neppure un dio né Mara né Brahma né alcun altro al mondo è in grado di fare. Quali sono queste cinque cose? Ottenere che quanto è soggetto a invecchiare non invecchi, che quanto è soggetto a malattia non si ammali, che quanto è deperibile non sia distrutto, che quanto è soggetto a finire non finisca; ecco quanto nessun asceta, nessun bramano e neppure un dio né Mara né Brahma né alcun altro al mondo è in grado di fare» (Anguttara Nikaya, III, 58). Vano, quindi, sperare di sottrarsi alla morte: «Non in cielo né nelle profondità dell’oceano né all’interno dei crepacci nelle montagne: non v’è luogo al mondo nel quale la morte non vinca il mortale» (Dhp., 128).
Questo insegnamento è stato elaborato in vari modi dalle differenti scuole buddhiste sviluppatesi nel corso dei secoli, dando luogo a pratiche e atteggiamenti diversi. Per limitarci alla Scuola Tiantai/Tendai, vediamo come Nichiren, che in quella scuola si era formato, ne parli nel suo scritto L’eredità della Legge fondamentale della vita (in Gli scritti di Nichiren Daishon, tr. it., vol. 4, Firenze, Ass. it. Nichiren Shoshu, 1991, p. 221 s.). Citando Saicho [Dengyo Daishi], fondatore del Tendai giapponese, egli scrive: «Il Gran Maestro Dengyo disse: “Nascita e morte sono le funzioni misteriose dell’essenza della vita. La realtà fondamentale della vita sta nell’esistenza e nella non-esistenza”. Nessun fenomeno — cielo o terra, yin o yang, il sole o la luna, i cinque pianeti o qualsiasi condizione vitale da Inferno a Buddità — è libero dalla nascita e dalla morte. […] Nel Maka shikan, T’ien-t’ai [Chih-i] dice: “L’apparizione di tutte le cose è la manifestazione della loro natura intrinseca e la loro estinzione è il ritiro di tale natura nello stato di latenza”».
Il concetto di latenza può risultare molto utile per interpretare in modo corretto quanto viene detto dei fenomeni, i quali, non essendo dotati di esistenza inerente, propriamente “non nascono e non muoiono”, ma sono trasformazioni di una più profonda, noumenica realtà (quella qui denominata “essenza” o “natura intrinseca”). Tuttavia, essi sono “convenzionamente” esistenti per una mente come quella umana, anch’essa “convenzionalmente” esitente. Se poi consideriamo la catena di causa-effetto, il fenomeno “nascendo” esce dallo stato latente in cui si trovava ed entra in una serie di relazioni e di esperienze. Il fenomeno si manifesta perché tutto era pronto perché esso potesse apparire: privo di esistenza inerente, senza quelle pre-condizioni e condizioni come potrebbe, infatti, venire a essere? La latenza pre-nascita possiamo considerarla non diversa da quella in cui il fenomeno entra quando cessa di avere una esistenza individuale e diciamo che scompare, “muore”, tornando a immergersi nella sconfinata realtà universale. In questa nuova latenza non potrà più avere relazioni ed esperienze come quando era “in vita”, ma la totalità del mondo, tuttavia, dovrà “registrare” quella avvenuta presenza, risultandone inevitabilmente “cambiata”. Due latenze, dunque, fra le quali si colloca l’“assurdo” dell’esistenza, nella quale si entra e dalla quale si esce senza poter dare risposta né al perché della chiamata né a quella del licenziamento.
Facendo un salto di secoli, ritengo particolarmente suggestivo arricchire la nostra comprensione con pensieri ed espressioni di pensatori del nostro tempo, come ad es. lo storico e fenomenologo delle religioni Mircea Eliade o il filosofo Vladimir Jankélévitch che, pur collocati in contesti e tempi tanto differenti, sembrano muoversi nella stessa direzione degli antichi insegnamenti Tiantai.
Eliade, osservando come noi siamo «inseriti nella realtà del cosmo, anche se condizionati da linguaggio, società, interessi», ritiene necessario assumere «la condizione umana a partire da questa condizione fondamentale in cui i ritmi e i cicli sono dati» (La prova del labirinto, tr. it., Milano, Jaca Book, 1979, p. 108) e considerare particolarmente quel circuito eterno della vegetazione e della vita, in cui si mostra l’unità di vita e morte (p. 123). Per questo, egli osserva, «in tutte le società tradizionali la morte non era considerata come la fine assoluta, ma solo come un rito di passaggio a un nuovo modo d’essere; si potrebbe dire che la morte costituiva l’ultima esperienza iniziatica, grazie alla quale l’uomo acquisiva una nuova esistenza, puramente spirituale» (Le messi del solstizio, tr. it., Milano, Jaca Book, 1995, p. 140), una esistenza dematerializzata, priva cioè della sua evidenza corporea e, dunque, da questo punto di vista, “latente”.
Jankélévitch (1903-85), interessante figura di filosofo, titolare della cattedra di filosofia morale alla Sorbonne, ma per nulla “accademico” e sempre attento ai problemi dell’esistenza (su di lui tornerò), nella sua analisi dell’irreversibile (quel che impedisce di ritornare sui propri passi o rivivere nella sua forma primitiva un’antica esperienza) e dell’irrevocabile (ciò che impedisce che il passato sia annullato), sottolinea come il fatto d’aver fatto, il fatto che si è fatto, il fatto d’esser stato segna per sempre con la sua impronta la totalità di una vita e della vita. «Qualunque cosa succeda, nulla sarà più come prima… La storia del mondo è segnata per sempre da ciò che è avvenuto. Ciò che è avvenuto non può, non può più non essere avvenuto; quel che ha avuto luogo non può, non può più non aver avuto luogo». Di fronte a questo supermiracolo, lo stesso «miracolo della resurrezione sarebbe il più banale dei fatti di cronaca» (L’irréversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1974, p. 336). Pertanto, egli conclude, «quando la morte, consacrando il fatto compiuto dell’aver-vissuto, ha messo il sigillo finale all’irreversibile-irrevocabile della nostra vita è, con l’impossibilità di rivivere, il mistero indistruttibile dell’esistenza che ha avuto il suo corso che è affermato per sempre. Ci si chiede: perché questa assurda successione di avvenimenti senza una finalità trascendente che viene chiamata la vita umana e il cui unico fine sembra essere il nulla? Paradossalmente è la morte stessa, decidendo per l’eternità, che ci salva dall’inesistenza. Tra il non-essere e il non essere più c’è tutta la distanza infinita dell’esser-stato; e nulla al mondo può ormai annullare una tale distanza. Colui che è stato non può più ormai non essere stato: ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro d’essere vissuto è il suo viatico per l’eternità» (ivi, p. 338 s.).
Ogni fenomeno che è esistito, che è stato chiamato dalle forze oscure della Vita a emergere dalla latenza, quando scompare, per l’azione di quelle stesse forze, lascia un segno, una traccia, un’increspatura pur minima sulla superficie del mondo… Ma questo ritengo debba valere solo come risposta al ricorrente quesito su cosa ci sia dopo la morte, non per costruire un’altra ontologia ansiolitica, una forma di “consolazione” di fronte alla tragicità della fine della capacità di sentire, di desiderare, di patire. Diceva Pavel Aleksandrovič Florenskij (Non dimenticatemi, 12 aprile 1935): «Niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo». Perché qui è il punto: l’uomo, quando ha pensato a una vita eterna per sé, ha desiderato la possibilità di conservare il suo mondo esperienziale, la sua capacità di sentire, la sua memoria, la sua identità. Questa traccia, memoriale senza memoria, in che modo si conserverà, lui spento, se non sarà più ricordata, scomparse anche la coscienza collettiva e la storia umana? Siamo ancora una volta di fronte a quel rapporto ultimo, misterioso e inafferrabile tra realtà e coscienza, tra essere ed essere conosciuto, tra priorità dell’Anima mundi o priorità del “corpo” del mondo; e ancora, si tratta di una dualità o di una inestricabile, inseparabile, coeva ed eterna unità? Dalla natura di quel rapporto tutto dipende, compresa quindi la possibilità o l’impossibilità di dare qualche risposta alla domanda fondamentale sulla nostra esistenza…