venerdì 24 febbraio 2012

Modi di dire#15/Piuttosto...

Giorni fa Pietro Citati osservava che la nostra lingua, paradossalmente, si sta impoverendo non solo per quel che viene perduto, ma per il «tentativo di ostentare una ricchezza metaforica inesistente» e ricordava alcune di queste metafore sinistre o ridicole come staccare la spina o fare un passo indietro. E pensare alla ricchezza linguistica veicolata dalle metafore, ad es., in Proust!
Non meno disgustose trovo altre espressioni come grande vecchio o cabina di regìa, con le quali si vorrebbero impreziosire i discorsi con allusività, fantasia, incisività.
Egualmente riprovevole trovo l’impiego che, con la stessa pretesa, si va largamente diffondendo del piuttosto al posto delle corrette, oneste e semplici congiuzioni disgiuntive o, ovvero. Perché piuttosto viene da più e tosto (con significato di rapido, veloce) ed ha intrinseco un valore comparativo (di maggioranza), anche quando è meno evidente. Infatti, ecco esempi molto espliciti, come …pativano la fame piuttosto che mangiare la carne cotta in quelle pentole… (D’Annunzio), soffrire operando il bene piuttosto che fare il male, o come in un’avversativa intercambiabile con una comparativa: piuttosto che migliorare le coltivazioni si stremavano a esigere diritti… (Bacchelli). Comparazioni di preferenza sono nelle frasi conviene prendere il treno piuttosto che l’aereo; voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi (Leopardi). Avversative con un termine implicito, sottinteso o che allude a cose già dette si trovano in: piuttosto compralo!; aiutami, piuttosto!
Infine, riferito a un singolo elemento, piuttosto prende posto in una scala quantitativa, tra niente e troppo, e vale a esprimere una certa cautela o sfumatura nel giudizio, come in: piuttosto stanco, piuttosto autoritario, piuttosto cruda.
Quello che non va è, dunque, l’impiego di piuttosto come congiuzione disgiuntiva, che cioè non vuole esprimere preferenze, al posto di o, oppure, ovvero come in: andrò in vacanza a Capri piuttosto che a Cortina; Linate piuttosto che Fiumicino

Mi conforta il Dizionario Treccani che riporta: «Improprio l’uso di piuttosto seguito da che con il sign. di “o”, “oppure”, per indicare un’alternativa».


(foto di É. Boubat)

lunedì 20 febbraio 2012

Ricordo di Bruno Callieri († 9 febbraio 2012)

La mia conoscenza del prof. Callieri risale al tempo in cui, studente, frequentavo la Clinica delle malattie nervose e mentali, per seguire quelle che allora si chiamavano “esercitazioni”, che Callieri, assistente della cattedra del prof. Mario Gozzano, conduceva introducendoci all’esame del malato psichiatrico e al colloquio clinico. Ne apprezzai fin d’allora la cordialità, l’attenzione, il tono a volte di bonario paternalismo con i quali si rivolgeva ai degenti (allora reclusi).
Le nostre strade professionali successivamente si allontanarono, ma non venne mai meno la reciproca stima e simpatia. Infatti, quando venni a ricoprire la cattedra di Psicofisiologia clinica, sempre alla “Sapienza”, lo invitai più volte a tenere delle lezioni seminariali sull’attenzione, la depressione, il significato della vita. Perché, in tempi di riduzionismo e di invadenza delle cosiddette neuroscienze, Callieri era uno dei pochi con i quali si poteva continuare a fare, in una prospettiva transpersonale, discorsi di interiorità, di spiritualità, di arte dell’autotrascendenza. Benché molto avanti negli anni e con problemi di salute, ancora l’anno scorso, mi volle gratificare partecipando alla presentazione del mio libro Ri-legature buddhiste che aveva molto apprezzato. Fu il nostro ultimo incontro.
Successivamente, in una bella intervista rilasciata poco prima della sua uscita dal mondo, vidi come seppe superare il tabù che ancora a molti impedisce di parlare della morte, soffermandosi appassionatamente  a riflettere sul mistero che circonda la nostra fine e sulla radicale incertezza che riguarda il nostro destino ultimo. Mi ha ricordato le parole di un altro Maestro, Mircea Eliade, che parlava della morte come dell’ultimo rito di passaggio a un nuovo modo d’essere, una prova grazie alla quale l’uomo acquisisce una esistenza dematerializzata, puramente spirituale o “latente”, come dice Saicho (una delle grandi figure del buddhismo giapponese), con la perennità indistruttibile di ciò che una volta è stato, per essere — un giorno — misteriosamente emerso dall’altra, prenatale, latenza. 
Caro Callieri, ora in questa forma “spirituale” rimani per sempre in mezzo a noi, in quel “mondo” e in quel “modo” in cui prima o poi tutti saremo. 

domenica 12 febbraio 2012

Lettres de mon moulin

     Marcel Pagnol (1895-1974) fu scrittore, drammaturgo e regista cinematografico francese, originario della Provenza nella quale passò l’infanzia e l’adolescenza e della quale serberà un perenne ricordo, facendola rivivere nei suoi scritti e nei suoi film. Antifascista al tempo dell’occupazione tedesca, fu eletto menbro dell’Académie française nel 1946.
Autore nel 1928 della famosa commedia satirica Topaze, poi film con un grande Fernandel, Pagnol fu maestro del teatro filmato e delle trasposizioni di opere letterarie che non sono mere riduzioni (i quasi sempre famigerati sceneggiati/scemeggiati!), ma vere reinterpretazioni basate su originali sceneggiature. Tra queste vanno ricordate La moglie del fornaio  (La femme di boulanger), da Giono, e quattro racconti dalle Lettres de mon moulin, da Daudet (traduzione italiana del testo in vecchia edizione BUR ormai irreperibile), entrambi autori provenzali.
Alphonse Daudet (1840-98), fu autore di romanzi e novelle, tra le quali le Lettres de mon moulin (1870), che l’autore immagina di scrivere in un vecchio mulino a vento. Contemporaneo dell’altro grande autore di racconti che fu Guy de Maupassant, come questo fu un po’ oscurato dall’ombra dei tre mostri sacri Balzac-Flaubert-Zola, così Daudet fu distanziato dalla ben più prolifica e variegata narrativa di Maupassant. Ma se Maupassant è stato considerato l’uomo più deluso e amareggiato del mondo, Daudet nelle Lettres rappresenta con garbo e simpatia, nella nostalgia assolata della sua Provenza, un mondo modesto di personaggi goffi e ingenui, ma in fondo privi di cattiveria e grettezza, ai quali peccati di gola, ostinazioni e chiusure sono tutti perdonati con ironia bonaria.
E così, soggettivamente, i fantasmi delle Lettres che, dai tempi del mio ginnasio (sì da allora!) mi chiedevano di riparare l’offesa di disattenzione nei loro confronti, credo siano stati, grazie a Pagnol, soddisfatti e placati, e possano tornare in pace nella loro Provenza…

lunedì 6 febbraio 2012

Quanti siamo (stati)?

La domanda me la portavo appresso da molti anni e sembrava di quelle che non possono mai trovar risposta. Ora, con audaci estrapolazioni, sembra si sia finalmente arrivati alla conclusione (almeno verosimile) che il numero totale di esseri umani comparsi sul nostro pianeta sarebbe di 107 miliardi: 7 viventi, mentre 100 sarebbero coloro i quali hanno popolato la Terra prima di noi.
Soddisfatto di questa risposta, resta la considerazione che appartenere al novero degli umani viventi significa appartenere a una relativamente piccola minoranza: dunque, la condizione maggioritaria, più probabile e “stabile” è quella d’esser morti…

domenica 5 febbraio 2012

Due medici: in "Colpo di Stato" (Maupassant) e "La peste" (Camus)

Nell’anno del disastro e dell’umiliazione di Sedan (1870), in tutta la Francia «si giocava ai soldatini da un capo all’altro del Paese» e cominciava la «follia durata fin dopo la Comune». Nella cittadina di Canneville, dove le notizie tardano ad arrivare e ancora non si sa nulla della proclamazione delle Repubblica, una coppia di due vecchi contadini si era recata dal medico per problemi di vene varicose («il marito che soffriva di varici da sette anni aveva aspettato che le avesse anche sua moglie per andare dal dottore») inizia a raccontare «È principiato proprio con le formiche che mi camminavano sulle gambe» proprio quando arriva il postino col giornale. Il medico, un «omaccione sanguigno, capo del partito repubblicano del circondario» e tipico esemplare della gretta ed egoistica mediocrità dei borghesi odiati da Maupassant, nella sua eccitazione non vuole dare più ascolto ai pazienti, che caccia in malo modo, per abbandonarsi a una sorta di recita rivoluzionaria, ora che per lui il mondo è cambiato, tutto è risolto, e può gridare agli scettici contadini («che lo guardavano senza che nessuna luce di gloria brillasse nei loro occhi») che ora il popolo era libero e indipendente. Quando, il giorno seguente, dopo l’ubriacatura di 24ore di rivoluzione torna a casa, la domestica l’avverte che eran tornati e lo aspettavano fin dall’alba, ostinati e pazienti, i contadini delle varici, e il vecchio ricomincia a spiegare al medico: «È principiato proprio con le formiche che mi camminavano sulle gambe»…
L’astrattezza verbosa e arrogante di chi vuol cambaire il mondo a chiacchiere e non compie i suoi doveri quotidiani è contrapposta alla concretezza della sofferenza che tormenta il vecchio eguale ieri come oggi, sia col secondo impero sia con la repubblica.
Ma viene alla mente un altro medico, quello di La peste di Camus, che, invece, vive la sua opera professionale come rivolta e non complicità col dolore e, come un bodhisattva o un Sisifo, nell’attualità dell’epidemia si confronta con l’irrimediabile, lottando ogni giorno contro la morte nei limiti dell’azione umana, pieno di compassione verso le creature sofferenti e mortali. Egli cerca di salvare le persone, lavora contro la sofferenza e la morte, pur con la consapevolezza che il bacillo della peste non muore ma è soltanto addormentato, che l’ingiustizia non è mai vinta, che gli innocenti continueranno a soffrire e morire.
Perché a noi, al di là delle perniciose illusioni dei totalitarismi teologici e/o politici, è dato di bonificare e redimere solo dei frammenti del mondo e a questo non dobbiamo e non vogliamo sottrarci.