venerdì 22 febbraio 2013

Conoscere fa conoscere?


Molti anni fa l’Accademia pontificia delle scienze promosse nella sua sede all’interno della Città del vaticano, una Semaine d’étude sur Cerveau et experience consciente, in cui furono convocati i più illustri rappresentanti della ricerca sul tema. Addetto alla Segreteria del Convegno (guidata dal Cancelliere dell’Accademia, prof. Pietro Salviucci, personaggio di una vivente tradizione papalina belliana), fu per me, giovane assistente universitario, una grande occasione per “avvicinare” tanti premi Nobel, accademici, ricercatori. Tra essi era anche il prof. Donad MacCrimmon MacKay, professore di Communication all’Università di Keele (Stafforshire, G. B.), matematico e informatico che in quegli anni aveva offerto una interessante impostazione della eterna questione della libertà e predittività del comportamento umano alla luce della comunicazione tra il soggetto osservante e il soggetto “descritto”, come nella sua memoria su On the Logical Indeterminacy of a Free Choice. In parole molto (spero non troppo) semplici, l’argomentazione di McKay era questa: se un osservatore conoscesse in maniera “completa” lo stato psicofisiologico di un individuo nel momento T1 potrebbe prevedere in modo sicuro quale sarà il comportamento del soggetto nel momento T2. Tutto bene, ma se la previsione fatta dall’osservatore verrà comunicata al soggetto osservato la perturbazione che questa provocherà renderà invalida la previsione che andrà aggiornata sulla base delle imprevedibili risposte alla comunicazione che il soggetto esibirà e così via in un regresso all’infinito che porterà alla detta “logical indeterminacy of a free choice”  (l’argomentazione si complica, ovviamente, se consideriamo, in partenza, la complessità e gli aspetti quantici e caotici della nostra biochimica e se applichiamo il percorso indicato da MacKay all’interno del processo di autoconoscenza e autorappresentazione che un soggetto fa di sé stesso).

Pensavo, per analogia, all’argomento di MacKay in questi giorni di campagna elettorale, durante i quali viene proibita la divulgazione dei sondaggi che pur vengono fatti, ma debbono essere “consumati” in segreto. I sondaggisti “prevedono”, infatti, quale potrà essere il comportamento di voto del loro campione, ma se questo verrà comunicato finirà per perturbare il comportamento dei votanti, influenzando anche i movimenti dei raggruppamenti: quindi, non si ritiene opportuno comunicare i risultati dei sondaggi. Infatti, perché sprecare il voto per una lista che non supererà lo sbarramento o come muoversi per “inseguire” elettori il cui comportamento potrebbe mettere in discussione un’alleanza fatta con “questo” quando sarebbe più utile farla con “quello”, e via enumerando. Se i risultati venissero comunicati il sondaggista si verrebbe poi a trovare in una situazione sempre nuova e dovrebbe rifare il sondaggio  tante volte quante saranno state le comunicazioni effettuate.

In conclusione, conoscere può significare rendere impossibile la conoscenza se l’oggetto della conoscenza è alterato dal processo del conoscere. Questo ce lo hanno spiegato l’indeterminismo e MacKay, ma chi avrebbe sospettato che i politici che hanno emanato quel divieto fossero così raffinati e attenti gnoseologi?

lunedì 18 febbraio 2013

Modi di dire#16/La parola più adatta


La scelta compiuta da papa Benedetto ha provocato incertezze non solo religiose e istituzionali, ma anche linguistiche, perché non a tutti è (era) chiaro come definire la sua decisione: dimissione, rinuncia, abdicazione?

Il termine più adoperato dai media, in questi giorni, è stato “dimissioni”. Questa parola, dal latino demittere (piegare, abbassare, far scendere di livello, mandare giù) si dice di chi lascia una carica, una “dignità”,  una funzione. Dette al plurale, le “dimissioni”, vengono date, accettate, respinte, ritirate ed è nell’ambito del lavoro dipendente che il termine è maggiormente usato, significando rottura del contratto. Per rimanere nell’ambito liguistico, interessante anche l’uso transitivo, “dimissionare qualcuno”, per indicare una revoca fatta da parte di chi ha il potere di farlo, e quello della variante (con diverso prefisso),  “dismettere”, usata per le privatizzazioni o l’alienazione di beni pubblici. Poco corretto, quindi, parlare di dimissioni per il papa, autorità suprema, per il quale non ci sono “superiori” a cui “consegnarle” né poteri che possano “dimissionarlo”.

Nell’annuncio dell’11 febbraio scorso, più propriamente Benedetto XVI aveva detto «dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma», in ossequio a quanto si trova nel Cod. Dir. Canonico art. 332, §2 che recita: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti». Rinunciare viene da renuntiare (annunciare in ritorno, rinviare; composto da re-, che indica il movimento all’indietro, e nuntiare, annunciare, far sapere; analogo, in latino, ab-renuntio, rinuncio allontanandomi, nella formula battesimale) e significa cessare di rivendicare o far valere il possesso o il godimento di un diritto o di q.c., abbandonare il proprio diritto su q.c. Si può, quindi, rinunciare a un dono, alla successione, ad agire, a lottare, a proseguire in uno sforzo, arrendersi; escludere dalla propria vita q.c. a cui si è attaccati (alcool, caffè,..) e, nella vita religiosa, al mondo, alle donne/agli uomini...; ad esercitare o praticare un mestiere, la letteratura, uno studio...

Meno usato abdicazione, l’atto di abdicare (da ab = che indica allontanamento e  dicare, intensivo di dicere, proclamare), rinunciando, di buon grado o meno, alle funzioni e all’autorità sovrana prima del tempo stabilito; per estensione, rinuncia a una eredità, carica, tutela, esercizio di un potere e anche sottrarsi a doveri o obblighi. Impiegare questo termine per la scelta di Benedetto XVI significa quindi voler ricondurre, intenzionalmente o no, l’importanza del gesto all’ambito del potere temporale piuttosto che a quello spirituale.

martedì 12 febbraio 2013

Dimissioni o, meglio, rinuncia


Siamo rimasti tutti sorpresi, commossi e, in qualche misura, impoveriti da questo gesto estremo compiuto dall’amabile papa Benedetto XVI. Lasciare. Ci sono, evidentemente, differenti modi di lasciare: andando avanti fino all’ultimo tra la rimozione, l’impudicizia e il martirio o umilmente ritirarsi, appartarsi, prefigurare la propria assenza prima che questa sia decisa dai misteriosi imperativi delle forze della natura. Se il rude Giovanni Paolo II poteva proporre una teologia del corpo mostrando il suo disfacimento somatico, il papa delicato, elegante e gentile che è stato Bendetto XVI ha svolto, anzi sta svolgendo, la sua teologia dell’anima con l’affermazione della opportunità del suo ritiro e l’indicazione (specie a questo mondo “distratto”) della bellezza e dell’importanza della meditazione, dello studio e della preghiera, non solo per sé, ma al servizio della Chiesa e dell’umanità. Con la più umile delle scelte, esemplare manifestazione di consapevolezza dell'umana fragilità e finitezza, Bendetto XVI ha così saputo improvvisamente dare alla Chiesa la più profonda delle riforme ci si potesse aspettare e le cui conseguenze saranno certamente più vaste di quanto possiamo immaginare oggi.
È difficile dire quanto abbiano potuto influire sulla decisione di Benedetto XVI da un lato il peso di viaggi, impegni, scadenze del calendario liturgico, l’esposizione mediatica propria del nostro tempo, che non consente più neppure a un pontefice di vivere al riparo delle mura vaticane com’era in un passato anche non troppo lontano, dall’altro l’inquietudine di un’interrogazione sul senso della sua direzione di una Chiesa che non lo capiva più o che Lui non capiva più. Non voglio qui parlare delle “sporcizie” (in primo luogo quello della pedofilia), del carrierismo, degli affari, perché il vero logoramento della Chiesa mi appare, invece, quello della identità e di un messaggio spirituale che non riesce più a evocare Dio in un mondo che pensa di non averne bisogno. Il teologo Ratzinger si è impegnato da sempre a cercare di rendere ragionevoli i contenuti della fede, affinché il mito cristiano sia accettabile per quella mentalità moderna che si è costituita dall’Illuminismo ad oggi, contemporaneamente lottando contro il cosiddetto relativismo, interpretato come anarchia, soggettivismo, assenza di valori, e visto come la sfida principale della Chiesa e dell’umanità. Disse proprio prima di diventare papa: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Vedere in un pluralismo tollerante non una non-posizione o una meta-posizione, ma una posizione tra le altre (la “laicité alla francese”) che imporrebbe la sua verità rischia di compromettere senza appello un vero confronto non solo col mondo laico, ma anche con le altre religioni, almeno quelle non-monoteistiche, sulla base della visione di Cristo unico mediatore di salvezza (ricordiamo la condanna della teologia del pluralismo religioso di Jacques Dupuis e il dispregio per il buddhismo visto come “autoerotismo spirituale”). Analoga, la chiusura verso le nuove sfide della bioetica, le esigenze di genere e la discussione del tema della libertà-responsabilità individuale, con la riaffermazione del diritto naturale e di una immutabile distinzione tra bene e male.
Di fronte a questo fallimento teologico determinato dall’incapacità o non volontà di entrare nello spirito del mondo moderno, il compito di indirizzo che spetterà al futuro pontefice si presenta quasi come una missione impossibile, destinata a un altro naufragio se la navigazione sarà ancora una volta tra gli scogli dell’ortodossia conservatrice o quelli della Chiesa servizio sociale. Possibile andare oltre? Mi sovviene la memoria del caro padre Giovanni Vannucci (dimenticato o non sufficientemente ricordato), quando affermava che, per chi voglia rimanere nell’ambito trinitario, dopo il Vangelo del Padre (ebraismo) e quello del Figlio (cristianesimo) si attende il Vangelo dello Spirito. Ma chi potrà “rivelarlo”? Se sono stati necessari Abramo e Mosè prima e Gesù poi, lo Spirito avrà bisogno di manifestarsi in una persona o nella “comunione dei santi”? Non diceva l’evangelista «E la Parola costruì in noi la sua dimora» (Gv. 1,14, nella trad. appunto di Vannucci)? Si dovrebbe proprio ripartire da quell’esperienza soggettiva guardata con sufficienza e diffidenza, per cogliere la trascendenza a partire dalla finitezza. «Io mi sforzo di far capire ai miei pazienti», diceva Jung, «che tutto ciò che accade loro contro la loro volontà viene da una forza superiore. Possono chiamarla Dio o demonio, a me non importa, purché capiscano che è una forza superiore. Ecco, Dio non è nulla di più che la forza superiore che agisce nella nostra vita» (Jung parla, tr. it., Milano, Adelphi, 1995, p. 317). E allora quali parole, quali racconti, quali gesti, quali comunità potranno essere costruiti, se si vorrà un vero rinnovamento, partendo da questa consapevolezza?

P. S. Vorrei indicare, per chi volesse approfondire e non rimanere alle cronache, alle indiscrezioni e alle dietrologie, la lettura di:
Sergio Quinzio, Mysterium iniquitatis, Milano, Adelphi, 1995 (ove si ipotizza che l' "ultimo" papa con la sua enciclica sancisca il “fallimento” del cristianesimo); Jacques Le Brun, Le pouvoir d’abdiquer, Paris, Gallimard, 2009 (un saggio, che forse ora diverrà popolare, di Le Brun, directeur d’études à l’EPHE, sulla “déchéance volontaire”) e, per incontrare un cristianesimo con un aroma diverso, qualcuno dei libri di Giovanni Maria Vannucci (dell’Ordine dei Servi di Maria, che fu insegnante presso il Marianum di Roma) e di Yves Raguin (gesuita, per lunghi anni direttore dell’Istituto Ricci a Taiwan, centro di studi cinesi della Compagnia di Gesù).