giovedì 27 febbraio 2014

Spiritualità del finito#3/Sulla pratica incessante

Sulla pratica incessante
Una volta che, in un itinerario spirituale, si sia raggiunta la realizzazione del “totalmente altro”, è abbastanza comprensibile che nasca l’esigenza di dedicarsi completamente, continuamente ed esclusivamente al rapporto con quella “vera” realtà, praticando una diversa forma di attenzione: esigenza connessa a quella di fuggire il mondo effimero (un «mondo che non merita neppure un addio», Shakespeare), di vivere con e di Dio, con una preghiera/meditazione incessante, attestazione di un amore esclusivo e assoluto (v. R. Venturini, Coscienza e cambiamento, §§ 5.8, 5.9.3)
Nell’ambito della tradizione giudaico-cristiana, la convinzione che la lode di Dio è praticata incessantemente dagli angeli è fondata sulla “visione” di Isaia (6, 1-3). Il profeta, nell’anno della morte del re Uzziah, vide infatti «il Signore seduto su un trono alto ed elevato»; «attorno a lui stavano dei serafini» che «proclamavano l’uno all’altro “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”» (parole che troviamo  conservate  nel Sanctus della messa cristiana).
Nel Salmo 55, 18-19, a proposito dell’invocazione continua del Signore, è detto: «Di sera, al mattino, a mezzogiorno gemo e sospiro. Ed Egli ascolta la mia voce; mi salva, mi dà pace da coloro che mi combattono» e nel Vangelo di Luca (2, 37) viene ricordata, in occasione della presentazione di Gesù al Tempio, l’anziana profetessa Anna che «non si allontanava mai dal Tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere». Nelle parole di Gesù troviamo l’esortazione: «Vegliate e pregate ogni momento» (Lc 21, 36), ribadita da S. Paolo: «Pregate incessantemente (sine intermissione)» (1 Ts 5, 17).
Ma la preghiera incessante non è senza costi e difficoltà. Perfino molti angeli risultarono estenuati e insofferenti di questa pratica, motivo per cui furono scacciati dal paradiso e dalla beatifica visione di Dio di cui godevano («[gli] angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli», Mt 18, 10). Con lo sviluppo del monachesimo i monaci si sentirono investiti di una funzione di supplenza, tesa a rimpiazzare gli angeli decaduti nel compito della preghiera incessante che, in una certa misura,  avrebbe anticipato il regno celeste già nel mondo terreno («L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio Nostro Signore», come dirà secoli dopo S. Ignazio). Per realizzare questo scopo gli “acemeti” o, per iotacismo, “achimiti”, cioè gli “insonni” (asceti seguaci della regola di Alessandro, V sec., che fondò un monastero o Eirenàion, luogo di pace, sull’Eufrate, poi a Costantinopoli), dovevano essere svegli per cantare continuamente le lodi del Signore: a tal fine, essi si davano dei turni, in modo che ci fosse sempre qualcuno in preghiera, senza interruzione. In seguito, anche in altri monasteri, questa modalità venne seguita, ad es. nel grande monastero di Cluny, assicurando così una preghiera  perenne.
Altra procedura fu quella seguita dagli “esicasti”. L’esicasmo (dal gr. hesychìa = quiete) è la grande corrente di spiritualità che, sviluppatasi nell’Oriente cristiano e accolta poi sul Monte Athos, si diffuse successivamente anche in Russia. Va ricordata l’enorme importanza che ebbe la pubblicazione della Philokalia (antologia di testi dei Padri e degli autori esicasti), avvenuta per la prima volta a Venezia, nel 1782, nonché del libro anonimo intitolato Racconti di un pellegrino russo, fonte di grandissimo valore per la conoscenza dell’esperienza di vita improntata alla pratica della preghiera esicasta. Fuge, tace, quiesce sintetizza il programma di vita che S. Arsenio il Grande (†455) è invitato dal cielo a seguire, e che tutti gli esicasti devono attuare, al fine di raggiungere l’unione contemplativa con Dio: fuge è, infatti, l’isolarsi per evitare il contatto con gli altri, i rumori, le situazioni che impediscano l’unione con Dio e la conservazione di tale unione; tace è rappresentato dal silenzio o solitudine verbale, che evita le parole inutili, le chiacchiere, i pettegolezzi; quiesce è la tranquillità, lo star seduti in serenità e pace, nel silenzio del cuore e della mente, non avendo quei molesti interlocutori interiori rappresentati dai “cattivi” pensieri. L’esychia viene a coincidere quindi con l’eremia, con la vita solitaria, nella sua accezione più ampia. Al  monaco che si sia ritirato in solitudine e concentrato sul cosiddetto “luogo del cuore”, Niceforo (del Monte Athos; †1300?) raccomanda: «tu non devi tacere e stare inattivo, ma avere come opera e invocazione incessante, la preghiera: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, pietà di me”». Così egli rimarrà stabile nel desiderio di Dio e inaccessibile agli assalti del nemico, cioè dei demoni, intenti a ostacolare coloro che si erano assunti il compito da essi svolto prima della caduta.
Ma, come ha ben evidenziato il Buddha nel Culasunnatasutta [Piccolo discorso sulla vacuità], neppure l’esperienza mistica può sottrarsi, in quanto fenomeno privo di esistenza inerente, alla “transitorietà”: anche la concentrazione mentale più elevata è, infatti, “determinata ed escogitata” e tutto ciò che è determinato ed escogitato è impermanente e destinato a finire. I metodi a cui si è accennato sopra cercavano appunto di tenere conto dei limiti che si incontrano nell’esercizio di una pratica che si vorrebbe incessante.

Come si presenta poi questa esigenza nella prospettiva del buddhismo mahayana, secondo il quale il Nirvana coincide col nirvana e si pone al di là del dualismo egocentrismo-distacco? Abbiamo visto come Dogen ribadisca l’importanza della pratica incessante e come, nello zen e in altre scuole, venga esercitata un’attenzione la più spinta possibile a tutto ciò che accade nel trascorrere della giornata: attenzione continua al fenomeno, eventualmente sostenuta dalla tecnica del “nominare” e dalla ripetizione di formule. Ma per sottrarsi alla secolarizzazione dell’attenzione e perché la consapevolezza possa tramutarsi in saggezza, il “segreto” sarà quello di vedere l’infinito nel finito
, l’illimitato nel circoscritto, la totalità nel frammento
...: in una parola, nel vedere il fenomeno come “ierofania”, nel sentimento transpersonale della trascendenza: era anche il percorso platonico della “seconda navigazione”, che conduce al trascendimento della sfera del sensibile e porta al soprasensibile («Anche l’uomo illuminato resta quello che è e che non è mai nulla di più del suo Io limitato di fronte a Colui che vive in lui e la cui forma non ha frontiere riconoscibili, che lo racchiude da ogni lato, profondo come le fondamenta della terra e spazioso come l’immensità del cielo», Jung), in quella che mi piace chiamare “spiritualità del finito”, dotata di una mente come quella che crea gli haiku, guarda all’emergere del quotidiano e, tra detto e non-detto, ne coglie l’essenziale. Pur soggetta alla “intermittenza del cuore” (e del corpo), la pratica dell’attenzione riporterà alla totalità il particolare, abbandonando la (ingannevole) sequenza libertà-responsabilità-colpa (tutto viene “da lontano”), consapevole del mistero e impegnata nella costruzione di momenti di “compiutezza” (valori), pur se costruiti con i “materiali” del finito, nella prospettiva di un umanesimo, “tragico” nella sua mancanza di “provvidenziali” rassicurazioni esterne, ma capace di offrire un fondamento alla dignità e al senso della vita, nel riconoscimento della funzione che il soggetto ha nel macrocosmo («Per quanto ci è dato conoscere, l’unico significato dell’esistenza umana è di accendere una luce nelle tenebre del puro essere», Jung). Riuscire a vedere “diversamente” le cose è fare “l’esperienza di Dio” ogni giorno. “Vedere”, diceva poeticamente Henri Matisse: «Avete visto gli acanti, nella scarpata che costeggia la strada?»

giovedì 20 febbraio 2014

Modi di dire#20/Non c’è trippa per gatti

Non c’è trippa per gatti

La frase, di uso corrente e generale a Roma, si riferisce a un provvedimento preso dal rigoroso sindaco (1907-13) Ernesto Nathan. Nel tagliare la spesa per l’alimentazione dei gatti, abitanti abituali di luoghi storici, alla quale provvedeva il Comune, scrisse la frase in questione. Se non fu il primo a impiegarla contribuì certamente a darle la notorietà che ancora conserva.

giovedì 13 febbraio 2014

Schermaglie#34/Bergman e il silenzio di Dio

La fontana della vergine di Ingmar Bergman (1959): in una Svezia medioevale due pastori e un bambino violentano, uccidono e rapinano la fanciulla Karin, fiduciosa e indifesa nella sua purezza, che si stava recando alla chiesa fuori del suo villaggio per portare delle candele. Bergman ci fa assistere alla progressiva coscienza del male ineluttabile che si dipinge sul volto della vittima e, successivamente, alla consapevolezza nei genitori della ragazza del delitto che è stato compiuto. Il padre Töre opererà la vendetta e griderà a Dio: «Non ti capisco. E come si potrebbe capire un Dio che vede il male e non lo impedisce?» Ma egli ha, tuttavia, bisogno di riconciliarsi con le sue mani sporche di sangue, mutando la vendetta in opera di giustizia. Il Dio che non interviene e non risponde è realtà necessaria per una triangolazione che renda possibile il passaggio dal male al bene mediante il rapporto con un vertice transindividuale, qui rappresentato dal dio della trazione cristiana. Infatti, nel film, realizzato questo passaggio, una fonte comincerà a zampillare nel luogo della violenza e del male, consentendo a tutti di purificarsi, segno più che di una risposta di Dio, del cambiamento di coscienza del protagonista.

martedì 4 febbraio 2014

Pensieri di malattia#10

Ogni giorno ha già la sua pena; continuo, disciplinatamente, la terapia, senza guardare oltre: Sufficit diei malitia sua (Mt 6, 34). Addirittura l’unità di tempo si riduce, a volte, dal giorno a un’ora: fermarsi lì senza andare oltre... Dietro la decantata nobiltà della presenza mentale nel qui e ora, avverto il côté “difensivo” dell’attenzione circoscritta e vi scorgo una dimensione di viltà a cui non avevo in precedenza pensato.

Giornata della memoria: nonostante tutta la nostra buona volontà quanto rimaniamo inevitabilmente lontani dall’esperienza di chi ha subito violenza, sopraffazione, umilianti sofferenze per persecuzioni, sventure, nelle calamità naturali, nelle malattie, nelle persecuzioni, fino alla shoah! Conoscenza non è esperienza e la divisione dei nostri vissuti, biologicamente “protettiva”, ci consente, nel migliore dei casi, la nostra azione etica solidale, sempre tuttavia inadeguata e che mi pare dovrebbe essere accompagnata da una richiesta di perdono per sfuggire al senso di vergogna e di colpa per tutti i patimenti inflitti ad altri e che ci sono stati, non sapremo mai perché, risparmiati.


Non possiamo sceglierci neppure le sofferenze: ci crediamo pronti a sopportare dolori considerati “nobili” e veniamo invece confrontati con la elementarità di sofferenze che non erano nelle previsioni, fatte di vissuti faticosi, sgradevoli, umilianti... Tuttavia, la malattia mi consente di guardare ormai con tenerezza e nostalgia anche alle aborrite festività e alle piccole quotidianità sottovalutate se non disprezzate. Ricordo il bel film di Walter Ruttmann (Berlino-Sinfonia di una grande città, 1927), in cui un treno arriva al mattino a Berlino, la città si risveglia, la giornata “ordinaria” viene seguita nel succedersi delle ore e la narrazione (qui la particolare “visione” del cinema): un modo efficace per sottrarre il semplice al banale...