venerdì 28 dicembre 2012

Schermaglie#28/Tra malattie, simulazioni e poesia


In tempi di rottamazione, va segnalato il film di Michel Azanavicious, The Artist (1012): al di là del rifiuto del grande attore del muto viene affrontato il drammatico confronto col nuovo e il superamento delle “competenze” possedute all’affermarsi di nuove tecnologie/contesti, etc.; happy and e collaborazione tra le generazioni, ma con evitamento del problema. Suggerirei di (ri)vedere anche il Silenzio è d’oro di R. Clair (1947) e Il ladro di Bagdad (1924), interpretato da Douglas Fairbanks, l’originale.
Trattano di vecchiaia, invalidità e handicap: Michael Haneke, Amour (2012), da non perdere, prevalentemente letto come “la potenza dell’amore al di là di vecchiaia e malattia”, mentre a me sembra piuttosto mostrare l’insufficienza dell’amore, che dovrebbe far riflettere i nemici dell’eutanasia col loro messaggio buonista: “c’è solo bisogno di amore”. Buonismo spinto troviamo in E. Toledano e O. Nadache, Quasi amici (Les intouchables; 2012), di grande successo, ma irritante nell’occultare, in chiave umoristica, la tragedia della malattia e i problemi dell’integrazione degli extracomunitari. Di Jacques Audiard è Un sapore di ruggine e ossa (2012), nel quale la bravissima Marion Cotillard, oggi sulla cresta dell’onda del successo, riesce, grazie anche all’abilità dei responsabili degli effetti speciali, a dare un’interpretazione realistica di una giovane privata delle gambe da un infortunio professionale. Anche qui si vuole chiedere troppo all’amore e alle capacità di ripresa e riscatto, forse per rassicurare lo spettatore, sempre con operazioni di rimozione.
Al tema della simulazione sono dedicati: Guillaume Canet, Piccole bugie tra amici (Les petits mouchoirs; 2010), intessante analisi socio-psicologica di in-educazione affettiva, viltà, egocentrismo, impreparazione di fronte agli eventi tragici della vita in un gruppo di “amici” di età media e di buon livello sociale. Quanto sono necessarie le bugie nelle relazioni? E in quali relazioni? E quali sono i costi della simulazione? Di A. de la Patellière e M. Delaporte, Cena tra amici [Le prénom] (2012; Parigi) ci porta in una casa di intellettuali che discutono sul nome da dare a un nascituro. È l’occasione per rivelare le menzogne presenti nei rapporti tra amici e familiari, in una godibile e spiritosa commedia, di chiara origine teatrale, nella quale salta il “finto” l’equilibrio tra due fazioni, quella del professore di sinistra e l’altra dell’immobiliarista sarkoziniano; happy and con ritorno di insuperabili simulazioni.
Si esce rinfrancati, invece, dal delicatissimo film koreano di Lee Chang-dong, Poetry (2010), in cui l’anziana protagonista vive in un mondo incantato alla ricerca dell’ispirazione poetica, ma deve fronteggiare la malattia, un nipote in piena stupidità adolescenziale, le voglie di un cliente invalido, la mancanza di denaro. Il suicidio di una fanciulla sconosciuta (un sacrificio come quello metaforico delle albicocche che cadono sulla strada) che sconvolge la sua vita, ma dà anche senso alla sua fine.

domenica 23 dicembre 2012

Natale [buddhista] in casa Cupiello


La mia scarsa simpatia per il Natale, le festività, ricorrenze e commemorazioni mi aveva fatto lasciare in ombra, tra le commedie di De Filippo, proprio il Natale in casa Cupiello. L’indiretta sollecitazione a riguardarla venutami da un amico mi ha consentito di rivalutarla e farne una lettura addirittura alla luce del Buddhadharma. Mi spiego: voglio dire che ne ho visto almeno tre aspetti che mi hanno richiamato atteggiamenti che possono esprimere la visione buddhista applicata a condotte della nostra più semplice quotidianità.
1. L’inizio è strepitoso! Il “padre” Luca Cupiello, alle 9 del mattino di un 23 dicembre dorme nel letto matrimoniale nella squallida, fredda e disordinata stanza; la moglie, Concetta, già levatasi, si trascina sciattamente ancora assonnata, va ad aprire la finestra, cerca di svegliare Luca portandogli la regolamentare tazza di caffè e chiamandolo ripetutamente con voce monotona, sgarbata, abitudinaria. Intanto, Tommasino, loro figlio “bamboccione” ante litteram, immagine che potrebbe essere di un appartenente a uno dei più bassi tra i mondi buddhici, quello degli spiriti affamati, dorme in altro letto nella stessa stanza.

LUCA (si siede in mezzo al letto e si toglie, svolgendoli dalla testa, uno alla volta, due scialletti di lana e una sciarpa; poi guarda di sbieco la moglie) Ah, songh’ ’e nnove? Già si sono fatte le nove! La sera sei privo di andare a letto che subito si fanno le nove del giorno appresso. Conce’, fa freddo fuori?
CONCETTA Hai voglia! Si gela.
LUCA Io me ne so’ accorto, stanotte. Non potevo pigliare calimma. Due maglie di lana, sciarpa, scialle... I pedalini ’e lana... Te ricuorde, Cunce’, […] Cunce’, te ricuorde? Cunce’...?
(La donna non risponde). Cunce’, te ne sei andata?
CONCETTA (infastidita) Sto ccà, Lucarie’, sto ccà.
LUCA E rispondi, dài segni di vita.
CONCETTA Parla, parla: ti sento.
[…]
LUCA (Prende la tazza, dopo avere inforcato gli occhiali. Sbadiglia) Conce’, fa freddo fuori?
CONCETTA (irritatissima) Si, Lucarie’, fa freddo (Spazientita). Fa freddo! E basta.
LUCA Eh... Questo Natale si è presentato come comanda Iddio. Co’ tutti i sentimenti si è presentato. (Beve un sorso di caffè, e subito lo sputa) Che bella schifezza che hai fatto, Conce’!
[…]
LUCA Non ti piglià collera, Conce’. Tu sei una donna di casa e sai fare tante cose. […] Ma ’o ccafè non è cosa per te.
CONCETTA (arrabbiata) E nun to’ ’o piglià… Tu a chi vuoi affliggere.
LUCA (Posa la tazza sul comodino) Concetta, fa freddo fuori?
CONCETTA (irritatissima) Si, Lucarie’, fa freddo assai: fa freddo! Ma che si’ surdo?
LUCA Cunce’, ma che t’avesse data na mazzata ncapa?
CONCETTA Me l’he addimandato già tre volte: fa freddo.
LUCA Questo Natale si è presentato...
CONCETTA …Come comanda Iddio. Questo pure lo avete detto.
LUCA E questo pure l’abbiamo detto... (Sbadiglia, si guarda intorno per cercare qualche cosa che lo interessi, non sa nemmeno lui precisamente cosa. Poi realizza a un tratto e come temendo una risposta spiacevole chiede allarmato) ’O Presepio... Addó stà o Presepio?
CONCETTA (esasperata) Là, là, nessuno te lo tocca.
LUCA (ammirando il suo lavoro) Quest’anno faccio il piú bel Presepio di tutti gli altri anni […].

Mentre l’atteggiamento di Concetta è di irritazione e di piatto aggirarsi nella banalità quotidiana (mondo umano non illuminato), nell’eloquio di Luca ci sono almeno due aspetti che lo collocano su un diverso livello. Al risveglio, infatti, Luca trema di freddo, si toglie maglie e sciarpe, come una mummia che ritorni alla vita, ma pur lamentandosi intercala espressioni rassegnate «E va be’», «Che c’ho ffa» [espressioni che non compaiono nel testo scritto, ma presenti nella edizione televisiva del 1977, in DVD], «Lo deve fare [il freddo], è il mese suo», «Questo Natale si è presentato come comanda Iddio. Co’ tutti i sentimenti si è presentato» o ripetizioni («Conce’, fa freddo fuori?») che sanno di palilalìa [ripetizione di una parola, di una frase o di una sillaba che si ha in alcuni disturbi neurologici] nella forma, ma che ce lo mostrano consapevole di essere di fronte a un ineluttabile, e l’esperienza dell’ineluttabile «è l’esperienza», come si esprime Jung, «della mia particolare volontà di fronte a quella di un altro di solito più forte, che incrocia il mio cammino con conseguenze spesso apparetemente devastanti, che mi mette in testa strane idee e a volte spinge il mio destino in direzioni del tutto indesiderate o gli imprime svolte favorevoli e inattese, indipendentemente dalle mie conoscenze e dalle mie intenzioni. Questa strana forza che va contro le mie tendenze coscienti o che invece le accompagna mi è ben nota. […] Io mi sforzo di far capire ai miei pazienti che tutto ciò che accade loro contro la loro volontà viene da una forza superiore. Possono chiamarla Dio o demonio, a me non importa, purché capiscano che è una forza superiore. Ecco, Dio non è nulla di più che la forza superiore che agisce nella nostra vita. Si può avere esperienza di Dio ogni giorno»: è questo che mi fa vedere il risveglio di Luca come un’esperienza religiosa.
E poi Luca, rimproverando alla moglie il modo sciatto, avaro e approssimativo della preparazione del caffè, esprime il suo rispetto per le cose («Col caffè non si risparmia»), il suo prenderle sul serio non trattandole in maniera distratta e svogliata («Non lo sai fare e non lo vuoi fare»).
2. Ma la vera esperienza “trascendente” per Luca è rappresentata dalla preparazione del presepio, che ogni anno si ripete e gli consente di vivere e rivivere una elevata esperienza estetico-mistica. Questa esperienza non è però condivisa dai familiari: rifiutata dal figlio Tomassino, trattata con indifferenza annoiata da Concetta, trascurata dagli altri, genera in Luca un sofferto vissuto di solitudine perché, come ormai ben sappiamo, un piacere che non è condiviso non è un vero piacere e l’emozione non condivisa con qualcuno riesce a privarci dell’emozione stessa che proviamo (per quella proprietà che ha la vita di debordare, sovrabbondare, diffondersi…).
3. Il Natale, come spesso accade, si tramuta da festa in occasione di litigio tra  familiari che si incontrano non sempre volentieri. Così accade in casa Cupiello; Luca ne rimane sopraffatto, cade ammalato, non può più parlare. Anche questo silenzio, volendo, possiamo leggerlo come un silenzio mistico, una fuga dalle incomprensioni e dai conflitti, un ritirarsi in una dolorosa interiorità senza comunicazione. Infine, quando grazie al dolore per la malattia del padre, Tommasino dirà per la prima volta che il presepio gli piace, Luca, sulla base di questa raggiunta condivisione, ormai, «perduto dietro quella visione [di un presepe grande come il mondo], annuncia a sé stesso il privilegio, Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!» La “conversione” di Tommasino ci può ricondurre a una parabola contenuta nel Sutra del loto (cap. XVI): quella del padre medico (immagine del Buddha). Questo bravo medico, non riuscendo a curare i figli intossicati dal veleno che avevano assunto, disse loro che stava invecchiando e che presto sarebbe morto, ma che avrebbe lasciato loro una medicina, con la raccomandazione di prenderla. Andò via e poi mandò a casa un messaggero che recava la notizia che egli era morto. I figli, sapendo della morte del padre, si sentirono soli e abbandonati; la tristezza e i sensi di colpa fecero loro realizzare quanto fosse opportuno prendere la medicina lasciata dal padre; la presero e poterono guarire completamente. Udendo che si erano ristabiliti, il padre poté far ritorno a casa. Come il Buddha con il mezzo didattico della sua assenza dal mondo può spingere gli uomini a “curarsi” con la dottrina che ha lasciato e che, grazie a questo espediente, appare loro in tutta la sua preziosità, così Tommasino solo di fronte al padre gravemente ammalato, può asserire che il presepio è bello, portando a conclusione questa favola “religiosa” del grande Eduardo.

mercoledì 12 dicembre 2012

Figure della speranza#2/Ancora l’amabile papa B. XVI: la nascita di Gesù


Nella lista delle sette meraviglie del mondo antico (lista compilata da vari autori a cominciare forse da Antipatro di Sidone, 170-100 a. C.), una delle più celebrate era il Tempio dedicato alla dea Artemide a Efeso (nella Lidia, oggi in Turchia), costruito intorno al 560 a. C., nel quale si trovava, ovviamente, una statua della dea.
Benché abbia i tratti delle arcaiche divinità degli animali selvatici e della caccia, assimila anche tratti di altre divinità. Nell’Artemide efesia troviamo assimilati caratteri di una arcaica signora asiatica della fecondità femminile e il suo simulacro intagliato, che la leggenda voleva caduto dal cielo, la rappresentava con il petto ricoperto da numerose file di ”mammelle” per cui era detta polýmastos in Grecia e multimammia nell’ambito italico, ove era anche identificata con Diana Nemorense. Le molte repliche della statua, eseguite in varie località e tempi diversi, hanno conservato la caratteristica presenza del grappolo di “seni”. A ben guardare, il petto scolpito mostra mammelle nessuna delle quali ha un capezzolo o un’aureola, per cui sono tutti seni, come è stato detto, “ciechi”. Da questo fatto è scaturita una diversa interpretazione, basata su elementi del culto: si sa che il sacerdote della dea doveva essere un eunuco; quindi, per poterla servire, doveva castrarsi; successivamente, al posto dei sacerdoti venivano castrati dei tori e i loro grossi testicoli, conservati in oli profumati, venivano appesi sul petto della statua lignea in occasione delle feste efesie.
Se i seni vistosi e/o numerosi sono un attributo femminile ben evidente nelle rappresentazioni delle veneri arcaiche, è interessante il fatto che il petto dell’Artemide efesia venisse ricoperto coi testicoli dei tori affinché gli spermatozoi in essi contenuti potessero, nella magia del rito, fecondarla, consentendo così ad Artemide di svolgere la sua funzione di madre pur restando vergine. Magia doppia, dunque: fecondazione operata dai testicoli dei tori nel contatto con la statua e dalla statua (potenza del simulacro!) alla dea-Terra-Madre. In un contesto culturale che sentiva la terra come madre e dea, e considerava il maschio come un accessorio del processo riproduttivo, la funzione materna che doveva assicurare la ricchezza dei raccolti e la fertilità, animale e umana, risultava più coerente con la verginità che col ruolo di sposa, per cui possiamo concluderne che la contaminazione delle due figure divine con la trasformazione della virginea Artemide in una Grande Madre è meno bizzarra di quel che in un primo momento potrebbe apparire ai nostri occhi. E non va dimenticato (lo stesso Socrate ce lo ricorda nel Teeteto) che Artemide, la dea la più lontana dalla sfera del matrimonio e del sesso, era quella che proteggeva i parti, veniva invocata dalle partorienti e rivestiva il ruolo archetipico della levatrice.

Una tradizione vuole che Maria, la madre di Gesù, avrebbe seguito ad Efeso Giovanni evangelista è lì avrebbe passato i suoi ultimi anni, in un luogo quasi già “preparato” a conciliare verginità e maternità. Il culto mariano avrebbe poi soppiantato quello della dea madre e la Vergine Maria oscurato le dee madri precedenti, venendo poi fissati come dogmi sia la nascita verginale di Gesù sia la verginità perpetua di Maria (senza cioè altri figli e rimanendo vergine prima, durante e dopo il parto, II Concilio di Costantinopoli del 553 dell’era corrente, per non dire anche del dogma della immacolata concezione, 1854, e di quello dell’assunzione, 1950).

Tutto questo per arrivare all’ultimo volume della trilogia che papa B. XVI ha dedicato a Gesù: L’infanzia di Gesù, Roma, Rizzoli-LEV, 2012. Riprendendo il racconto evangelico sulla nascita di Gesà dalla Vergine Maria che lo avrebbe concepito per opera dello Spirito papa Ratzinger si domanda: «Questo, allora, è vero? O forse sono state applicate alle figure di Gesù e di sua Madre delle idee archetipiche?» Il parto verginale e la resurrezione sono, continua il papa, interventi diretti di Dio sulla materia, a cui tutto appartiene, quindi anche la materia, pur se questi interventi sono uno scandalo per lo spirito moderno. «Ma Egli possiede questo potere e con il concepimento e la Risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova creazione» (p. 69).
Viene così, di fatto, riaperto un dibattito sulla natura del miracolo in generale; su questo in particolare penso vadano fatte due osservazioni. Di fronte a un fatto inspiegabile di cui si abbia certezza (come, ad es. una guarigione “inspiegabile”) la mentalità razionale tecnico-scientifica cerca di trovare nessi causali che possano dare, ora o poi, una spiegazione dell’evento ”misterioso”, mentre la mentalità “magica” fa appello a eventi di natura trascendente il mondo dell’esperienza e al di là delle ordinarie possibilità di verifica: si tratta, dunque, di decidere quale paradigma di indagine e quale criterio di verità si voglia assumere. Tra le due la scelta razionale mette in conto di non avere sùbito risposte, ma evita di utilizzare la non-risposta attuale per legittimare il passaggio da un paradigma all’altro.
La seconda osservazione si riferisce, poi, a eventi — come nel nostro caso — di cui manca un vero riscontro fattuale: non ci troviamo di fronte alla gravidanza di una donna segregata, di cui possiamo avere ragionevole certezza che non abbia avuto occasione di incontrare seme maschile (così come non ci sono stati testimoni della “rianimazione” del crocefisso morto, ma solo racconti da parte di chi avrebbe trovato il sepolcro vuoto). Pur di poter introdurre nell’economia della salvezza elementi che «sono pietre di paragone per la fede» e segnali di speranza ritenuti indispensabili per proporre una determinata dottrina (natura spirituale dell’incarnazione — che si avvale del contributo di un corpo femminile — grande madre! —, ma mette da parte quello maschile; promessa della sconfitta della morte) si ricorre a una giustificazione miracolosa per poter asserire che determinati racconti sono racconti storicamente “veritieri”: non si cerca una spiegazione di un evento “miracoloso”, ma — a rovescio — si usa il miracolo per poter asserire un fatto!

Ancora una volta, la costante preoccupazione di affermare la specificità del cristianesimo e la sua diversità da tutti gli altri fenomeni della storia religiosa dell’umanità si rivela una modalità molto discutibile al fine di incontrare il mondo moderno e procedere alla cosiddetta evangelizzazione dei non-credenti, tentando il dialogo col mondo laico. L’integrazione della storia dei fatti cristiani nella più ampia fenomenologia e storia delle religioni, che consente di lavorare sugli archetipi e sugli universali presenti almeno nell’inconscio di tutti noi, è invece la strada che una moderna ermeneutica ha proposto e cominciato a percorrere. Ciò che potrebbe essere visto come coerente in una rappresentazione simbolico-poetica propria di una diversa mentalità (verginità come purezza e diponibilità, simbolismi della maternità; morte come tappa iniziatica e ritorno alla latenza, etc.), finisce per diventare un cibo indigeribile quando ci si accanisce a portarlo sul piano dei “fatti”. Così, nello scontro di paradigmi, il più debole, nel mondo occidentale avanzato, non può che risultare quello di una fede che si ponga alternativa alla razionalità, col danno non solo per la Chiesa, ma per tutti, di portare sempre più avanti il processo di disincanto del mondo.



mercoledì 5 dicembre 2012

Schermaglie#27/Il cammino per Santiago


Figlio, questo sconosciuto! Una parte di te ma che non appartiene a te, di cui non conosci veramente emozioni, sogni, esperienze… coincidenza di massima vicinanza e massima estraneità in questa relazione paradossale. Quando, tra le massime sventure, un figlio muore e si è messi di fronte, in tutta la sua violenza, a questa lontananza definitiva, nasce il desiderio di rivivere i suoi ultimi momenti di vita, andando a respirare, odorare, toccare, calpestare quello che per lui/lei ha rappresentato la porta dell’eternità e dove tutto si è compiuto.
È il soggetto di Il cammino per Santiago, film di Emilio Estevez (2010), in cui un affermato e atletico professionista californiano, arriva in Francia per recuperare il corpo del figlio, morto proprio all’inizio del pellegrinaggio per Santiago. Con le ceneri in una scatola, l’oculista sente di dover portare a termine quel proposito rimasto incompiuto, compie lui il pellegrinaggio e, mentre a tappe rilascia le ceneri nei luoghi che attraversa, cerca di ricollocare il figlio tra le cose e le relazioni che pensa avrebbe voluto vedere e vivere, confrontandosi ora lui con esse.
Il film si dilunga su tutto quello che può avvenire lungo il cammino, su questa spiritualità on the road, non col cinismo dissacrante del Buñuel di La via lattea (1969), ma con una narrazione condotta su un piano convenzionale, a volte buonistica, in cui è diluita la forte intuizione iniziale, ma che nondimeno riesce a trasmettere il senso del surrender, dell’abbandono a una Potenza superiore che conclude la faticosa e destabilizzante avventura. Un piccolo assaggio di mise en abyme ci è dato nel racconto del racconto che uno scrittore in cerca della sua ispirazione comincia a fare narrando la storia dell’oculista e del figlio scomparso. Ottenuta, con le “credenziali” che testimoniano le tappe del percorso (ahimé! ecco il ricordo del mio Shuin-cho, “quaderno con i timbri rossi” che si “meritano” nei pellegrinaggi giapponesi!), la certificazione finale della “penitenza” effettuata, la ferita è suturata e si può tornare, eguali ma non identici a prima, nel mondo ordinario.