martedì 30 marzo 2010

L'uomo totale o completo#1

Definito il sacro come il “totalmente altro”, l’Assoluto, l’Uno, la Totalità, l’homo religiosus, consapevole della sua dipendenza da una Realtà infinitamente più grande di lui, esprime il suo bisogno (è stato anche detto nostalgia) di Totalità rapportandosi agli eventi o oggetti particolari come a espressioni del Tutto, leggendo l’Uno nel molteplice e l’Infinito nel finito. Per questo, homo religiosus viene a essere sinonimo di uomo totale, insieme storico e metastorico, personale e transpersonale, un uomo che si mette totalmente in gioco, a differenza di quanto accade nelle relazioni profane, parziali, mondane: in relazione con l’Assoluto si fa egli stesso assoluto (ab-solutus). In termini buddhisti, con la dottrina della 10 mondi o stati di esistenza in cui ciascuno include in sé tutti gli altri, si afferma la compresenza di differenze e di unità nella realtà fenomenica e psicologica.

Tuttavia, rintracciare l’origine dell’espressione “uomo totale” ci porterebbe non si sa quanto indietro nel tempo, almeno a S. Paolo e S. Agostino. S. Paolo, in Ef. 4, 13, parla di arrivare all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio ossia «allo stato di uomo perfetto» (e„j ¥ndra tšleion, virum perfectum) e S. Agostino, più esplicitamente (In Evangelium Ioannis Tractatus Centum Viginti Quatuor [Commento al Vangelo di S. Giovanni], 21, 8): «Si enim caput ille, nos membra; totus homo, ille et nos [Se Cristo è il capo e noi le membra, l'uomo totale è lui e noi]». Completo è l’uomo del Rinascimento (v. ad es. il libro, dall’esplicito titolo, Tommaso Moro. L’uomo completo del Rinascimento di Elisabetf-Marie Ganne, 2004) e Friedrich Schiller nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo del 1795 (tr. it., Roma, Armando Ed., 2001) afferma che è nel gioco (romanticamente in atteggiamento anti-intellettualistico e anti-utilitaristico) che l’uomo si esprime in libertà e unità (Ganz Mensch, uomo totale), coniando la fortunata formula: «l’uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca» (Lettera XV, p. 125). Di qui la teorizzazione dell’homo ludens sviluppata da J. Huizinga.

Un’altra affermazione di Totalità è quella dell’idea hegeliana del compimento della Storia, espresso nella Totalità del Sistema. Questo fu poi riaperto, rimesso in discussione e in movimento, com’è noto, da una lato, con l’applicazione marxiana del metodo dialettico all’economia politica (da cui l’utopico concetto dell’uomo onnilaterale opposto all’unilateralità alienata; e ricordiamo L’uomo a una dimensione di H. Marcuse sulla razionalità unidimensionale del “sistema”); dall’altro, con la valorizzazione del negativo come l’altro non più nel ma dal sistema: l’uomo può così essere “totale” se non nega la follia, l’eccesso (Nietzsche) e tutto quanto è capace di disfare la solidità del soggetto: lacrime e riso, estasi e angoscia (Bataille).

Cambiando scenario, dobbiamo ricordare che M. Mauss, in una comunicazione presentata nel 1924 alla Società di psicologia sui Rapporti reali e pratici tra la psicologia e la sociologia, chiedeva agli psicologi che hanno studiato funzioni speciali, come la teoria della sensazione o dell’emozione, di dedicarsi allo studio «dell’uomo completo, non diviso in compartimenti […]. Sia che studiamo fatti speciali o generali, abbiamo sempre da fare, in fondo, con l’uomo completo […]. Ritmi e simboli, per esempio, non impegnano semplicemente le facoltà estetiche o immaginative dell’uomo, ma anche tutto il suo corpo e tutta la sua anima, a un tempo. Nella società stessa, quando studiamo un fatto speciale, abbiamo da fare con il complesso psico-fisiologico totale». Tanto più quando ci si occupa dell’uomo comune che ha, rispetto a quello eccezionale, una minore capacità di controllo delle diverse sfere della coscienza: «L’uomo medio dei nostri giorni — e questo è vero sprattutto per le donne e gli uomini delle società arcaiche o arretrate — è un uomo “totale”: egli è colpito in tutto il suo essere dalla minima percezione o dal minimo choc mentale» (in Sociologie et anthropologie, tr. it. col tit. Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1991, p. 319 ss.).

Riportato il concetto di uomo totale nell’ambito delle scienze umane, Jung ed Eliade sembrano avere raccolto l’invito di Mauss, ma avendo presente la totalità non più dell’uomo medio, ma dell’uomo considerato nella totalità dei suoi bisogni, compresi quelli spirituali. C’è tra questi due autori una notevole corrispondenza e sovrapposizione di idee e di termini, che mostra la loro grande consonanza spirituale e convergenza di orientamenti (Eliade ebbe anche l’occasione di fare una intervista a Jung, pubblicata su Combat nel 1952, ora in Jung parla, a cura di W. McGuire e R. E. C. Hull, tr. it., Milano, Adelphi, 1995, pp. 291-300) (continua)

martedì 23 marzo 2010

Cariatidi#19/New York



Cariatide "imbracata" per ragioni di sicurezza, 22° piano di un grattacielo, 150 Nassau Street
(foto Antongiulio Panizzi)

lunedì 22 marzo 2010

Schermaglie#13/Renoir e il gioco delle regole

Si parla molto, in questi giorni, di regole e di rispetto delle regole: dunque, se non vogliamo ridurlo a uno dei tanti flatus vocis della propaganda politica, il tema meriterebbe qualche approfondimento. E il mio pensiero va al capolavoro di Jean Renoir, La règle du jeu [La regola del gioco], film complesso e dalla vita travagliata: uscito nel 1939, alla vigilia della II guerra mondiale, tagliato, censurato, negativo distrutto in un bombardamento, restaurato da una copia decente, di nuovo commercializzato dal 1965 e ormai fortunatamente disponibile in DVD.
La règle du jeu è una storia d’amore e di morte, di simulazioni e di violenza, in forma di “drame gai” o commedia drammatica: Renoir, maestro della trasfigurazione, teatralizza l’esistenza, travestendola in forma burlesca per suggerirci che solo i simulacri sono reali. E ha, alle spalle, Marivaux (Le jeu de l’amour et du hasard), Beaumarchais (Le mariage de Figaro) e de Musset (Les caprices de Marianne).
Molti sono i possibili livelli di analisi, ai quali posso solo accennare:
Livello del soggetto e dei temi: un “banale incidente”, sulla base di un equivoco e di una malsana gelosia, è occasione per la critica di una società imputridita, anche se il film non va certo ridotto a questo (come ha fatto la solita critica “schierata”, dimenticando che lo stesso Renoir aveva detto: “siamo stati umiliati dalla pratica del realismo”); tra i temi: la donna, la morte, gli ostacoli al desiderio, il voyerismo;
Livello di sistema: le regole devono assicurare la sopravvivenza di un sistema attraverso l’eliminazione (con o senza consapevolezza? con o senza divieti e frontiere palesi? Vedi, nel film, le regole della caccia e dell’adulterio) di ciò che compromette il suo funzionamento (come si dice in Giappone: è il chiodo che sporge quello che prende le martellate); la vita, l’amore e il potere sono giochi di cui non si possono impunemente trasgredire le regole;
Livello religioso: il sistema è una sorta di assoluto, di divinità che va placata perché l’ordine, coincidente con la sua sopravvivenza, venga assicurato; sono necessari sacrifici in suo onore e la vittima deve essere qualcuno o qualcosa che vale;
Livello sociale/teatrale: rituali della caccia e della recita in costume, coi legami di piacere e morte;
Livelli stilistici ed espressivi: l’uso del “piano-sequenza” e il montaggio non-montaggio, la profondità di campo, etc.
Ma qui il mio interesse è quello della riflessione sulle regole del gioco, di cui viene mostrato l’abile uso da parte di chi è più forte contro chi è più debole (Manzoni!), di chi vuole conservare contro chi vuole cambiare, tanto che ci viene fatta intravedere una sorta di passaggio dalle regole del gioco al gioco delle regole, gioco la cui regola (o metaregola) potrebbe essere l’abile uso e l’abile dosaggio delle trasgressioni. Quando, nella conclusione del film, il protagonista La Chesnaye, da provetto illusionista, trasforma un delitto in un incidente, il cinico commento di uno dei presenti sarà: “Questo La Chesnaye non manca di classe...”: l’importante, quindi, non è il rispetto delle regole quanto il trasgredirle con classe! Il particolare mondo rappresentato nel film doveva cadere da lì a poco, ma il gioco delle regole persiste ed è quello che può aiutarci a capire il tragico passaggio che avviene (sempre) nella storia e produce la trasformazione dei rivoluzionari in conservatori.
Film ormai “di culto” (“Il film dei film” secondo Truffaut) ha spinto altri (come Bertolucci) a fare del cinema ed è studiato nelle scuole superiori (in Francia). Chi volesse saperne di più può trovare (col titolo La règle du jeu) la sceneggiatura commentata nella collana “La bibliothèque Gallimard” e varie analisi come quella, di vari autori, pubblicata nella collana “Profil d’une œuvre” delle edizioni Hatier.

domenica 21 marzo 2010

Equinozio di primavera





SHUN, haru = primavera

sbocciare e crescere delle piante sotto l'influenza del sole; metaforicamente, indica anche vitalità e sessualità

giovedì 18 marzo 2010

Cariatidi#18/Parigi


allegre e beffarde (Théatre Montparnasse)


austere e solenni (Faculté de Médecine)


rassicuranti e amabili (rue du 4 septembre)
(foto RV)

sabato 13 marzo 2010

Religione del futuro#2/Parigi, 5, rue Payenne...

Sull’appassionante tema di una possibile religione del futuro vorrei ricordare le suggestive parole di E. Fromm: «In effetti per coloro che vedono nelle religioni monoteistiche soltanto uno degli stadi dell’evoluzione del genere umano, non è troppo difficile convincersi che una nuova religione si svilupperà entro pochi secoli, una religione che corrisponda allo sviluppo del genere umano; il più importante carattere di questa religione sarebbe quello universalistico che corrisponderebbe all’unificazione dell’umanità che sta oggi verificandosi; esso racchiuderebbe gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell’Oriente e dell’Occidente; le sue dottrine non contraddirebbero le conoscenze razionali dell’umanità odierna e l’accento sarebbe posto sulla pratica di vita piuttosto che su credenze dottrinarie. Una simile religione creerebbe nuovi rituali e nuove forme artistiche di espessione tali da produrre uno spirito di riverenza per la vita e la solidarietà dell’uomo. Naturalmente la religione non può essere inventata, essa si affermerà con la comparsa di un nuovo grande maestro proprio come ne sono apparsi nei secoli precedenti quando i tempi erano maturi. Nel frattempo quelli che credono in Dio dovrebbero esprimerre la loro fede vivendola; quelli che non credono vivendo i precetti di amore e di giustizia, e rimanendo in attesa» (The Sane Society, 1955; in it. Psicanalisi della società contemporanea). Se occorresse una giustificazione per dire che non si può “inventare” una religione, vorrei ricordare che, nell’Ottocento, A. Comte avvertiva la necessità di trovare un sostituto agli dèi del passato e pensava di averlo trovato nell’dea di Umanità. Nel 1847 proclamò la creazione di una «Religione dell’Umanità», coi suoi riti, calendario e luoghi di culto: a Parigi, in 5, rue Payenne, nel Marais, ne “sopravvive” uno, la Chapelle de l’Humanité (consideratevi fortunati se la troverete aperta!), costruita nel 1903 dai positivisti brasiliani (dopo il tempio inaugurato a Rio de Janeiro nel 1881) in ossequio ai principî della Chiesa positivista (L’Amour pour principe et l’Ordre pour base, le Progrès pour but). Sul significato e il successo di questa iniziativa, di cui pochi hanno memoria, il giudizio può essere lasciato aperto, ma certo non era a cose di questo tipo che pensava Eliade.

domenica 7 marzo 2010

La tartaruga guercia

Secondo una leggenda indiana (citata nel cap. XXVII del Sutra del Loto), nell’Oceano vive da millenni una tartaruga con un solo occhio, la cui salvezza è riposta nella possibilità di affiorare alla superficie dell’acqua nel momento in cui un pezzo di legno galleggiante con un buco, passando sopra di lei, potrebbe consentirle di arrampicarsi passando attraverso il buco. Ioan P. Couliano [tragicamente scomparso nel 1991], allievo di Mircea Eliade, scrivendo del suo Maestro ricorda questa leggenda: «La tartaruga è guercia la sua possibilità di orientamento è ristretta. La probabilità che il tronco sia bucato è minima. Il tronco naviga a caso, percorrendo tutte le acque del mondo: la probabilità che esso passi giusto sopra la tartaruga è infima. C’è poca speranza di ottenere la liberazione. Ma, giustamente, la funzione del mistagogo [lett.: colui che inizia ai misteri] è quella di gettare in acqua dei pezzi di legno bucati destinati alle tartarughe guercie.

Questo è il ruolo che Mircea Eliade si è dato. La sua letteratura,
 soprattutto i racconti, consiste di questi “pezzi di legno” la cui
 funzione è di attirare le tartarughe guercie ad un esercizio veramente
 inabituale, un esercizio che è stato rappresentato anche in uno dei
 capolavori dello scultore Costantin Brancusi: La tartaruga volante».

Anche noi siamo qui a cercar di afferrare qualcuno dei pezzi di legno gettati da Eliade; non si sa se ci stiamo riuscendo, ma pensare alla sua opera già ci consola...

Di seguito, una foto della Flying Turtle (1940-45; The Solomon R. Guggenheim Museum, New York) dello scultore romeno Constantin Brancusi (1876-1975).



martedì 2 marzo 2010

Gioco ermeneutico#3/L'amore dell'abate di Shiga

Tra la produzione di Mishima mi ha da sempre suscitato grande interesse e mi ha posto molti interrogativi il racconto intitolato L’amore dell’abate di Shiga. È un racconto in cui si tratta del conflitto tra l’amore e la vita religiosa, tra il rifiuto del mondo e il fascino della bellezza.

Un vecchio monaco del buddhismo amidista, ormai vicino alla fine della sua esistenza terrena, un giorno viene colpito, anzi sopraffatto dalla bellezza di una dama di corte, mandando in rovina quello che aveva ritenuto inattaccabile: il “mondo fluttuante” si era vendicato del rifiuto fatto in nome della disciplina spirituale? L’impossibilità di consumare il suo amore era fin troppo chiara all’abate, contemporaneamente consapevole dell’impossibilità di accedere alla Terra pura finché rimanesse schiavo di questo amore. Deciso a rivedere la dama, egli si avvia a chiederle udienza. L’autore sviluppa un’analisi parallela dei complessi sentimenti dei due personaggi e dei loro cambiamenti. Dopo una lunghissima attesa nel giardino della casa della dama, questa invia una cameriera per comunicare di essere disposta all’incontro. “Quando essa ebbe finito, l’abate emise un grido terribile, quasi disumano”. Il resto ha poca importanza: l’abate morì poco dopo l’incontro e la favorita imperiale donò al tempio i rotoli dei sutra da lei copiati.

Il mio interrogativo è sul grido dell’abate: cosa significa un grido e, in particolare, perché quel grido, quando la favorita aveva ormai accettato l’incontro, risoltosi poi soltanto in un contatto delle mani, senza neppure che l’abate vedesse quel volto che aveva causato tanto turbamento?