domenica 31 luglio 2011

Roma barocca#12 ...alla frescura!/Cariatidi e dintorni#33

Il termine “ninfeo” da bosco, fonte o tempio dedicato a una ninfa nell’antichità, indica, nelle ville rinascimentali e barocche, le costruzioni ornamentali dei cortili con fontane, getti d’acqua, grotte artificiali, colonne e altri elementi che realizzano spazi di frescura all’interno dei palazzi, particolarmente gradevoli nei periodi più caldi dell’anno. Tra i più suggestivi, ampi, preziosi ninfei romani v’è quello situato all’interno del Palazzo Borghese, progettato per realizzare uno scenario “teatrale” semicircolare, prospiciente l’appartamento della principessa (Eleonora Boncompagni Borghese), che, con la sua scala circolare, scende al giardino. Lo scenario è costituito da tre magnifiche fontane inserite nel muro di cinta, poste in nicchie all’interno di edicole arricchite da telamoni e cariatidi. Al centro, rispettivamente, sculture rappresentanti Flora (a sn), Venere al bagno (al centro), Diana (a dx).

Flora, di F. Cavallini

Bagno di Venere, di L. Reti
Diana, di F. Carcani
(foto RV)

venerdì 22 luglio 2011

La penna, l'angelo (e Lorenzo Lotto)



La Madonna presenta il Salvatore e col gesto della mano sinistra asserisce. L'angelo ai suoi piedi ha la penna pronta. Quella penna che una tradizione dice essere stata la prima cosa creata da Dio. Allora Egli le aveva detto: «Scrivi». La penna domandò: «Signore, cosa scriverò?» Rispose: «Scrivi il destino di tutte le cose, sino alla venuta dell'Ora». E la Madonna assicura che il tempo giusto è venuto.

martedì 12 luglio 2011

Ancora su Panikkar (v. post del 31 Ago 2010)

Giornalista, vaticanista, cattolico che interroga e si interroga, Raffaele Luise in questo suo libro su Panikkar (Raimon Panikkar-Profeta del dopodomani, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2011) ricorre all’artificio letterario del giovane ricercatore spirituale che si reca da discepolo in visita al Mestro, artificio che gli consente di parlare in terza persona e lo mette al riparo da possibili critiche e dall’attuale diffidenza e sufficienza verso incontri straordinari, che hanno bisogno di apparati di protezione per essere rivelati e partecipati. Raffaele ci racconta così, con grande freschezza, degli intensi giorni di incontro con questo personaggio eccedente, ambivalente, “teatrale”, per farcelo avvicinare in presa diretta, senza dover attraversare l’estenuante lettura della sua fluviale scrittura. Catalano e indiano, di madre cattolica e di padre induista, sacerdote cattolico che poteva dire di sé “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano”, ossimoro vivente (al punto di conservare la sua qualità sacerdotale pur essendosi sposato, civilmente, ma con benedizione religiosa), attento a costruire un’immagine di sé adeguata alla rappresentazione della propria leggenda, teologo e mistico, Panikkar possedeva il fascino di chi esprime profondamente la vicina e continua presenza del sacro. Luise (il giovane-Raffaele) ci avvicina a lui e ci trasmette, attraverso la toccante narrazione di questa esperienza di devozione, prostrazione, condivisione di spazi, di luce, di cibo sempre tesa verso l’Assoluto, quello che può significare incontrare un Maestro. È ancora possibile oggi? C’è ancora spazio per interpreti, profeti, messaggeri, che vorremmo capaci di sintesi in un tempo in cui le analisi esitano, di risposte quando le domande sono sempre più incerte, di donazioni di verità a chi sa di non poterle più né esigere né accettare?
Il filo che attraversa tutto il tessuto del racconto è l’invito a realizzare quelle comunioni fusionali in cui l’io individuale evapora e si salva perdendosi, come tutte le tradizioni religiose hanno da sempre esortato a fare. E questo dovrebbe anche portare a realizzare una sorta di rivitalizzazione della tradizione cristiana, non più in grado, attualmente, di offrire orientamenti universali, prigioniera di sé e delle strutture che ha edificato, incapace persino di utilizzare lo splendore di un pontificato come quello di Benedetto XVI. Lo strumento fondamentale per questo fine viene individuato nel dialogo interreligioso, quello che dovrebbe far ritrovare elementi di effervescenza spirituale (Durkheim) e di slancio vitale (Bergson), capaci di trasformare il declino in un futuro luminoso e (ci sia consentito) spiritualmente sincretico. Lasciamo doverosamente ad altri il giudizio dall’interno di questo progetto di sdivinizzazione del cristianesimo, presentato come potenziamento universalizzante (Cristo cosmico come Logos o Dharma) e non come conclusione fallimentare di una delle più dense rivelazioni storiche. In un mondo rumoroso e afasico, globalizzato e frammentato, plurale e conflittuale, che simula e dissimula il suo bisogno di senso e di sacro, il ricorso al religioso “altro” (in una magica “inter-in-dipendenza”, dice Panikkar) è forse una via di uscita da ambienti troppo chiusi, ma non sembra promettere un ingresso a mondi e a modi più ricchi e più sani.
Le “risposte” che si intravedono attraverso il racconto di Luise sembrano comunque far ricorso ai vecchi attrezzi dell’Occidente, come l’“intelligenza della Terra” (trascurando lo sgomento di chi resta attonito nel vederla, invece, così sciupona nel disinvolto sacrificare migliaia di coscienze per dare un più comodo assetto alle pietre), l’“amore disarmato” (anche verso Hitler, Bin Laden e i dirottatori delle Torri gemelle?) o dell’Oriente, la solita armonia che concilia bene e male, luce e ombra (sfiorante una complice indifferenza verso il dolore), e ammorbidisce la morte con l’abusata metafora della goccia d’acqua che torna al mare. Il mito del peccato originale, che pur aveva incupito la nostra infanzia, serviva almeno ad affermare l’inaccettabilità radicale di tutto il male della natura e della storia!
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che qui siamo di fronte non a Panikkar ma al racconto che ne fa il ragazzo-Raffaele, e le risposte del Maestro saranno da cercare meno nelle parole e più nella sua vita di testimonianza e di fede, in quel fascino che emana dalle posizioni pretragiche e premoderne (da S. Francesco al Dalai Lama), e che fanno dire al ragazzo “Davvero sei tu il profeta con il quale il mondo dovrà confrontarsi in futuro”, mentre “con la mano accarezza i lunghi capelli di quell’uomo capace di attingere all’invisibile”. Il libro è la storia di questo grande amore spirituale che, come tale, non solo non dobbiamo giudicare, ma che commuove, dà forza e, in qualche modo, risponde a tutti quanti hanno capito ormai che la Verità è nella narrazione, quella a cui, una volta, non si esitava a dare il nobile nome di Mýthos. 

venerdì 8 luglio 2011

Roma barocca#11/all'ombra!

Girare per Roma nei giorni d’estate può esser duro, il caldo diventare «insoffribile, il sole del Leone e della Vergine vi piomba su quasi a picco, accende le strade e le piazze, par che pietrifichi l’aria e l’infochi, ottunde i sensi e i sentimenti del viandante», come scriveva Massimo Bontempelli (1878-1960). Nel racconto L’ombra e la luce,  egli immaginava che un tal «Anselmo Memmi, ch’era dottore in filosofia, quarantenne, benestante, scapolo e umanitario» avesse compilato una Guida di Roma all’ombra, ad uso dei turisti estivi, per insegnar loro a girare evitando gli spazi assolati. Forse è nata così la leggenda metropolitana di questo libro che molti hanno cercato ma, come diceva Pietro Paolo Trompeo, «è una specie d’araba fenice: tutti ne han sentito parlare e nessuno l’ha visto». Probabilmente Bontempelli riattualizzava per Roma la diceria che, un secolo prima, A. Dumas aveva messo in giro per Napoli, raccontando di aver avuto tra le mani e utilizzato una guida scritta da uno sfortunato gesuita, dal titolo Napoli senza sole per camminar di estate per le strade non battute dai raggi solari: libro che nessuno ha mai visto e che nessuna biblioteca possiede.
In mancanza di queste preziose e salvifiche guide, resta fortunamente la realtà del refrigerio che possono offrire le chiese romane. Godiamola accompagnati dalla descrizione che ne faceva il Duca Minimo (Gabriele D’Annunzio) nella rubrica L’estate a Roma su La Tribuna del 24 luglio 1887:
«Il cattolicesimo è una buona religione d’estate: e Roma è senz’alcun contrasto la Gran sede della religione cattolica. Dunque a Roma, specialmente, il cattolicesimo estivo è una fonte di frescura inesauribile. La gente savia, invece d’andar a sguazzare faticosamente nelle acque impure d’uno stabilimento balneario o a contemplare le vacche nei troppo verdi paesaggi artificiali della Svizzera resta a Roma a far professione di cattolicesimo e anche viene a Roma da fuori.
O grandi chiese romane, tutte piene di placida luce aranciata o violetta, così barocche e così belle, gran fortuna che li uomini non ascoltino i miei consigli lirici e che i veri ferventi sieno pochi, altrimenti voi perdereste uno dei vostri incanti maggiori; il quale è, in verità, la solitudine. Nelle ore della siesta tutte le chiese sono deserte e silenziose come le caverne mistiche nel grembo delle montagne abitate dai cervi santi e dagli eremiti. I pavimenti di marmo hanno un luccicare cupo, come di un’acqua stagnante. Nelle cappelle l’ombra è profonda e misteriosa, rotta qua e là da luccicori indistinti. Le volte, tutte ornate di pitture seicentistiche e di svolazzi e di rilievi giganteschi e d’angeli e di cherubini e di chiavi pontificie, s’innalzano e s’incurvano con maggiore ampiezza nei giochi della luce e dell’ombra…» (da Ad Altare Dei).