sabato 20 febbraio 2010

Vecchia e nuova teodicea

Nella lectio divina tenuta ai seminaristi del Pontificio seminario romano maggiore il 12 febbraio scorso, Benedetto XVI ha fatto una serie di riflessioni su un passo del Vangelo di S. Giovanni, come sempre suggestive e attente alla cultura di oggi. Volendo affermare che la «ragione eterna è amore e così crea», il papa prende spunto da una lettera scrittagli da un fisico di Regensburg sulla concezione del Dio-amore cristiano. Dice il papa: «Poco tempo fa mi ha scritto un professore di Regensburg, un professore di fisica, che aveva letto con grande ritardo il mio discorso all’Univerisità di Regensburg, per dirmi che non poteva essere d’accordo con la mia logica o poteva esserlo solo in parte. Ha detto: “Certo, mi convince l’idea che la struttura razionale del mondo esiga una ragione creatrice, la quale ha fatto questa razionalità che non si spiega da se stessa”. E continuava: “Ma se può esserci un demiurgo — così si esprime —, un demiurgo mi sembra sicuro da quanto Lei dice, non vedo che ci sia un Dio amore, buono, giusto e misericordioso. Posso vedere che ci sia una ragione che precede la razionalità del cosmo, ma il resto no”. E così Dio gli rimane nascosto. È una ragione che precede le nostre ragioni, la nostra razionalità, la razionalità dell’essere, ma non c’è un amore eterno, non c’è la grande misericordia che ci dà da vivere». Benedetto XVI osserva che «l’eterna tentazione del dualismo, che si nasconde anche nella lettera di questo professore, si rinnova sempre, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male; che il mondo è diviso e sono due realtà ugualmente forti: e che il Dio buono è solo una parte della realtà. Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?»

Di fronte a questa nuova (?) forma di teodicea, per sciogliere la contraddizione tra onnipotenza e amore, papa Benedetto afferma la loro coincidenza, sottolineando l’onnipotenza dell’amore: «Nel volto del Cristo Crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. Per noi uomini potenza, potere è sempre identico alla capacità di distruggere, di far il male. Ma il vero concetto di onnipotenza che appare in Cristo è proprio il contrario: in Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire: qui si mostra la sua vera onnipotenza, che può giungere fino al punto di un amore che soffre per noi».

In verità, ci sentiamo più vicini al ragionamento del professore che all’argomentazione del papa. Possiamo concordare sul fatto che Dio non giochi a dadi col mondo e che ci sia un certa razionalità nell’Universo (una razionalità con la quale noi, parte del mondo, siamo in una qualche sintonia), quella che ha consentito alla scienza di formulare i princìpi della termodinamica, le leggi della genetica o della percezione..., ma questa razionalità è anche quella che, per valide relazioni di causa-effetto, genera terremoti, handicap, polmoniti, guerre e abbandoni...: razionalità sì, ma amore non sembra! Il Dio sofferente, Gesù, che per illimitata compassione viene a subire le iniquità prodotte da questa Legge/razionalità e, paradossalmente, per non farsene complice — se rimanesse spettatore indifferente del dolore delle creature — sceglie, per contraddirla, la via della condivisione: ama nel dolore e perché c’è il dolore, il quale, miracoli a parte, non è eliminato (dolore da Lui stesso prodotto o da chi?). Viene sottolineata così proprio la forza di un principio avverso e quello che dovrebbe essere il fulcro dell’argomentazione finisce per dimostrare il contrario, in quanto l’affermazione dell’amore è, ad un tempo, l’affermazione dell’universalità e della persistenza del male e del dolore. Nel mondo finito, quello in cui, limitandosi, si è incarnato, si incontra ineluttabilmente la sofferenza (la finitudine è la sofferenza) e a essa anch’Egli si è sottoposto, sia pure per solidarietà. Dunque, siamo di fronte a un potere che qualcuno che voglia ragionare in termini di princìpi divini può anche non avere tutti i torti a chiamare dio del male, dualisticamente contrapposto al Dio buono.

lunedì 15 febbraio 2010

Schermaglie#12/A Serious Man

Chi pensasse che quello della teodicea sia un vecchio tema, ricordo degli studi liceali, lontano dalla nostra vita e dai nostri problemi (ma vedi, in questo blog, i post in data 17 gen. 2010 e 8 apr. 2009), dovrebbe andare a vedere l’ultimo film dei fratelli Cohen, A Serious Man.
Larry Gopnik è un tranquillo ebreo americano, che vive nel Midsex anni Sessanta, insegna fisica all’università e ha una famiglia scombinata come tante. Ma, ad un certo punto della sua modesta esistenza, incontra una serie di sventure che ricodano, siamo in un contesto ebraico, le piaghe d’Egitto o le disgrazie di Giobbe: la moglie lo abbandona per un obeso sentenzioso e carismatico nella sua formale osservanza, i figli esibiscono tutto il loro egoismo adolescenziale, il fratello disoccupato e disadattato si installa nel suo appartamento ed è coinvolto in una serie di vicende antisociali, uno studente cerca di corromperlo e ricattarlo, un collega senior gli fa discorsi destabilizzanti, il vicinato gli offre il sex-appeal inquietante di una prorompente quarantenne fumatrice di marijuana e i comportamenti aggressivi di un cripto-fascista... Ce n’è abbastanza per metterlo in crisi e liquefare le sue poche superficiali certezze di intellettuale piccolo-borghese. Ricorrere ai tradizionali rappresentanti dell’autorità religiosa comunitria per tentare di dare un senso alle sue disgrazie è comico e disperante. Nessuno sa più dire una parola sensata e bisogna prendere atto che non ci sono sicurezze da nessuna parte, come emblematicamente mostra la conclusione di una lezione nella quale Larry ha riempito la lavagna di calcoli micidiali: l’esibizione di tutta quella certezza matematica esita nel principio di indeterminazione di Heisenberg che, portato nella nostra vita, equivale a dire che non possiamo esser sicuri di niente.
Il film inizia con un prologo costituito da una storia ambientata in Europa orientale, in bianco e nero a significare “tanto tempo fa”, recitata in yiddish, una storia di spettri, di peccato, di mancanza di fede: qualcuno, tornando a quella storia, potrebbe insinuare che l’incertezza di oggi è generata dall’abbandono della tradizione e delle regole, qui quelle ebraiche, ma il discorso è ovviamente di carattere generale. L’aspetto più drammatico è proprio che, ogni volta che le strutture di senso sono assoggettate a una perdita dei significati e dei valori originari, i vecchi riferimenti non aiutano più: di fronte al dolore, individuale e collettivo, non serve dire che non capiamo i misteriosi disegni di Dio, non va più cercata una relazione di causa-effetto tra peccato e punizione, non ci rasserena affatto parlare di casualità. Le nicchie idenditarie isolano più che difendere, ma siamo ancora lontani da nuove comunità di destino; va sgombrato il campo dai rottami dei significati smarriti, ma non è facile inventarne di nuovi sotto un “cielo deserto” (Sartre), un cielo su cui si chiude il film annunciando, a una comunità impaurita, l’arrivo di nuove minacciose tempeste...

sabato 6 febbraio 2010

Religione del futuro#1

Nel 1797 Hegel redasse una sorta di lettera/progetto filosofico, che rispecchiava anche le idee di Hölderlin e di Schelling, in cui si prospettava un rinnovamento della religione e della società mediante una nuova concezione del mondo basata su una «mitologia della ragione» capace di unificare intelletto e sensibilità. La dimensione estetica non è qui vista come una sfera separata, accanto se non in contrasto con la ragione, ma come il possibile fondamento di una visione del mondo in cui a tutti sia possibile riconoscersi, in quanto espressa in forme artistiche. Si prospetta così la costruzione di una «religione sensibile» che possa essere universalmente partecipata, nel suo fare appello a una comune sensibilità. La promozione della bellezza a fondamento e cemento dell’etica e della conoscenza, e la capacità di risposta che la pienezza della forma offre alla domanda di senso è ancora “estranea” a molta parte della nostra cultura politica, filosofica e religiosa, per cui quello scritto illuministico e romantico merita di essere riportato alla nostra attenzione.

Da Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco (in F. Hölderlin, Scritti di estetica, a cura R. Ruschi, Milano, Oscar Mondadori, 1996):

[…] Ho la certezza che il supremo atto della ragione, quello con cui essa comprende la totalità delle idee, è un atto estetico, e che verità e bontà sono intimamente fuse soltanto nella bellezza. Il filosofo deve dunque possedere un’attitudine estetica pari a quella del poeta. […] Si conferisce così alla poesia una dignità superiore, e ridiventa alla fine ciò che era all’inizio — educatrice dell’umanità; infatti la filosofia e la storia scompariranno, e solo l’arte poetica sopravviverà a ogni scienza e a ogni altra arte. Assai spesso sentiamo anche dire che la massa deve possedere una religione sensibile. Non solo alla massa è necessaria, ma anche al filosofo. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: è questo ciò di cui abbiamo bisogno! Esporrò ora un’idea che, a quanto mi risulta, non è ancora divenuta cosciente in nessun uomo — è necessario possedere una nuova mitologia, ma essa deve porsi al servizio delle idee, deve divenire una mitologia della ragione. […] Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare tra noi questa nuova religione; sarà l’estrema, la più alta opera dell’uomo.