sabato 12 luglio 2014

Figure della speranza#4/Pulita o sporca?

In un intervento del coro, nell’Antigone, Jean Anouilh (1942) presenta un interessante parallelo tra dramma e tragedia. Mentre il dramma lascia la strada aperta agli eventi, agli imprevisti, ai rovesciamenti delle situazioni, la tragedia è pulita, riposante, sicura, perché tutto si svolge per una necessità assoluta e ineluttabile e Anouilh fa dire qui al Coro quella frase che sarà cara agli esistenzialisti francesi: «C’est reposant, la tragédie, parce qu’on sait qu’il n’y a plus d’espoir, le sale espoir [Perché si sa che non c’è più speranza, la sporca speranza]». Antigone, contrapponendo la sua etica a quella di Creonte, ripete anche lei: «Noi siamo di quelli che pongono gli interrogativi fin in fondo. Fino a che veramente non resti più la minima possibilità di speranza vivente, la più piccola possibilità di speranza da strangolare. Noi siamo di quelli che saltano oltre quando la incontrano, la vostra speranza, la vostra cara speranza, la vostra sporca speranza». E viene sottolineata la gratuità dell’azione tragica, che porta solo alla attualizzazione del destino, con un’azione elitaria, nobile, aristocratica, nella quale non c’è da gemere, da lamentarsi, ma da gridare «a piena voce quello che si doveva dire, che non si era mai detto e che forse non si sapeva ancora. E per niente: per dirlo a sé stessi, per capirsi. Nel dramma, ci si batte perché si spera di venirne fuori. È ignobile, utilitaristico. Là è gratuito. È per i re. E non c’è più niente da tentare, alla fine». Si realizza così un salto di livello, una consapevolezza che tutto è giocato altrove  (in un destino programmato dagli dèi e agito dagli uomini) per cui «si è tutti innocenti, insomma! Non è perché uno uccide e l’altro è ucciso. È [solo] una questione di distribuzione [di ruoli]».

martedì 8 luglio 2014

Roma#18/Borromini


sulla tomba del sommo Maestro (chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini)
(foto RV)

giovedì 3 luglio 2014

Spiritualità del finito#7/Il Daimoku, ieri e oggi

La parola Daimoku in giapponese designa il titolo di un sutra e, per estensione, la recitazione di esso, con particolare riferimento al titolo del Sutra del Loto: Myo-ho renge-kyo. L’aggiunta del Namu (dal sanscrito namah) iniziale ha il significato di omaggio, venerazione, consacrazione.
Assimilato il Dharma [Legge, Insegnamento] al SdL e stabilita l’ equivalenza tra esso e «l’intero corpo del Buddha» (cap. X) è facile comprendere che vengano attribuiti al sutra i poteri divini e salvifici del Dharma stesso. «Fra coloro che ascoltano il Dharma  nemmeno uno mancherà di conseguire la buddhità» è detto nel cap. II del SdL e, nel cap. XXII, «come il Buddha è il re delle leggi così questo sutra è il re dei sutra. […] Questo sutra può salvare tutti gli esseri viventi; questo sutra può liberare tutti gli esseri viventi dai dolori e dalle sofferenze; questo sutra può arrecare grandi benefici a tutti gli esseri viventi ed esaudirne i desideri. Come una limpida e fresca fonte è in grado di soddisfare tutti gli assetati, come un fuoco per chi ha freddo, una veste per chi è nudo, una guida per una carovana di mercanti, la madre per un bambino, una barca per chi deve attraversare le acque, un medico per un ammalato, una lampada nell’oscurità, un gioiello per un povero, un sovrano per un popolo, la via per il mare per un mercante in viaggio, una torcia che fa svanire l’oscurità così è il Sutra del Loto, capace di liberare tutti gli esseri viventi da ogni sofferenza e da ogni malattia, e di sciogliere tutti i vincoli della vita mortale» (cap. XXII).
Sulla base della valorizzazione di questa scrittura, si è nel corso del tempo venuta a costituire la pratica della preghiera del sutra, consistente nell’accogliere, leggere, recitare, diffondere, copiare il SdL, intero o soltanto pochi o anche un singolo verso o il suo “nome” (XXVI) o titolo, visto come il più adeguato “riassunto” del testo ed essenza stessa dell’insegnamento (analogamente al peso che veniva dato e continuiamo a dare al nome delle persone). Va comunque ricordato, come fa notare G. Jenner (1994) che questo non è esclusivo del SdL in quanto, nei capitoli di dedica con cui termina la maggior parte dei sutra Mahayana, viene spesso sottolineata, al fine di fornire una garanzia di legittimità, proprio l’importanza del titolo. Nell’autorevole A History of Japanese Religion, curata da K. Kasahara, viene riferito che, dalle agiografie dell’ultimo periodo di Heian (periodo che va dall’VIII al XII sec.), si apprende che molti dei devoti sostenitori del SdL [jikyosha] cominciarono in Giappone un’opera di proselitismo per la salvezza di tutti gli esseri senzienti. Secondo tali scritti, molti preti e devoti laici del Loto erano considerati capaci di ottenere una rinascita in una delle Terre pure recitando qualche verso del Loto o il Daimoku nell’ora della morte e i pretesi effetti positivi ottenuti recitando o copiando il SdL sono stati all’origine di tutta una letteratura di racconti di miracoli, redatta a gloria di questa scrittura. Al pari del latte, nutriente per il bambino anche se questo non ne conosce le ragioni, la recitazione di mantra è stata ritenuta capace di produrre effetti anche su chi non ne conosca tutti i significati (efficacia ex opere operato). Anche nelle narrazioni degli ultimi momenti della vita di Chih-i (538-597), patriarca del Tiantai, viene menzionata, pur senza troppo enfatizzare l’importanza di questa pratica, la recitazione del titolo del SdL. Il pietismo del Loto, nella forma della recitazione del titolo, raggiunse il culmine del suo sviluppo nell’insegnamento di Nichiren (periodo di Kamakura, 1185-1333). Chih-i non considerava il titolo come una “sintesi magica” del contenuto del testo, ma ne analizzava le parole che lo compongono per dedurne una rappresentazione mistica dell’universo, mentre Nichiren riprese, interpretò e modificò l’analisi di Chih-i attribuendo al titolo un valore salvifico, anche sotto l’influenza dell’amidismo, il popolare movimento “rivale” del periodo di Kamakura, che basava la sua pratica salvifica nella ripetizione del nome di Amida (nella forma di Namu Amida Butsu = Onore/lode al Buddha Amida). La pratica della recitazione di entrambe le due formule, continuò ad avere larga diffusione, sia pure conservando i rispettivi differenti caratteri, essendo quella amidista sostenuta-da e indirizzata-verso una visione di latente monoteismo, quella di Nichiren da una marcata enfasi etico-sociale.
La recitazione del Daimoku è stata, nel Novecento, riaffermata dai tre principali movimenti di massa neo-buddhisti giapponesi (Reiyu-kai, Rissho Kosei-kai, Soka Gakkai), che hanno proposto anche in Occidente la recitazione del Daimoku come forma di preghiera/meditazione, per cui non possiamo non interrogarci sul significato e sul valore di questa pratica nell’ambito del più generale problema dell’inculturazione del buddhismo in Europa e in America. Accanto all’affermarsi delle correnti buddhiste tradizionali e dei “nuovi movimenti”, è infatti maturata in Occidente l’esigenza di un buddhismo “critico” (nel senso che si può attribuire a questo termine nella prospettiva francofortese) che, consapevole di sé e della sua evoluzione storica, si mostri capace di una riformulazione del Buddhadharma adeguata all’attuale contesto culturale sviluppato, complesso, postmoderno, muovendo dall’assunto della centralità della persona. Anche della “preghiera del titolo” sembrano delinearsi pertanto due diverse letture: una devozionale e una “critica” o postmoderna. Da quando Zygmunt Bauman ha reso popolare la metafora della “liquidità” impiegandola nelle sue analisi della cultura in cui viviamo (da cui espressioni come modernità liquida, vita liquida, relazioni liquide...), possiamo affermare l’importanza di una concezione dell’ego che, all’insegna della liquidità, recuperi il più vero significato di un io privo di esistenza inerente, impermanente, insufficiente, ma tuttavia, nella prospettiva mahayana, lo veda come il frutto più maturo dell’albero del samsara-Nirvana, l’espressione più complessa ed elevata dell’evoluzione, il luogo dove si realizza la consapevolezza dell’Essere: versione (post-)moderna dell’umiltà, un io libero da inflazioni egocentriche e caratterizzato da fluidità, scorrevolezza, adattabilità, potrà “diluirsi” in una Realtà più grande, di cui riconoscersi parte, mantenendosi in un difficile equilibrio che lo sottragga, da un lato, alla identificazione col mondo secolarizzato, dall’altro, alla tentazione della fuga dal mondo.
Schematizzando, potremo così avere:

Daimoku
Buddhismo devozionale
Buddhismo “critico”
namu

la devozione, disposizione all’unificazione, a divenire uno con il Dharma, fede nel Dharma,
mi connetto al...
sono consapevole del...
sono illuminato dal...
Myo Ho 
la meravigliosa, misteriosa, mistica, inafferrabile realtà della Legge, Dharma, Vita o, secondo le parole di Nichiren, la “mistica entità della Via di Mezzo che è la realtà di tutte le cose”

Dharma o Legge (Ho) inesprimibile, Mistero ultimo (Myo) che governa il Mondo in tutte le sue manifestazioni: in namu myo ho si realizza il paradosso dell’unità di illuminazione e ignoranza 
renge

il Loto, l’immagine ideale dell’uomo/bodhisattva che conserva puri il cuore e la mente anche nel mondo corrotto
Loto come simbolo del bodhisattva, l’uomo della Via di mezzo, impegnato nella realizzazione dei valori nel modo della sofferenza, essere che “abita poeticamente il mondo” (nella pratica dell’amore altruistico, della bellezza e della verità)
kyo

il sutra, l’insegnamento attualizzato nella consapevolezza della Legge e nella realizzazione che «la tua vita stessa è la Legge mistica» (Nichiren).
insegnamento  e atteggiamento “critici”

Abbandonate le visioni e le interpretazioni devozionali o “magiche”, la ripetizione del Daimoku potrà dunque essere conservata anche in una prospettiva “critica”, quale valido “mezzo abile” per:
1. ottenere, con l’impiego del titolo come mantra, una modificazione dello stato di coscienza (samadhi, concentrazione, rilassamento...),
2. concentrare l’attenzione sui valori universali e sull’impegno nella loro affermazione,
3. praticare, al quotidiano, l’arte della trascendenza,
4. richiamarsi all’insegnamento dell’Illuminato,
5. unificarsi con la comunità transpersonale dei ricercatori spirituali.

Per approfondire:
G. Jenner, Daimoku, in Hobogirin, vol. 7, Maisonneuve-Maison Franco-Japonaise, Parigi-Tokyo, 1994, ad vocem;
K. Kasahara (Ed.), A History of Japanese Religion, Tokyo, Kosei Publishing Co., 2001, p. 97 s.;
[SGK] Dizionario del Buddismo, tr. it., Milano, Esperia, 2006.
R. Venturini, Ri-legature buddhiste, Roma, Edizioni universitarie romane, 2010;
R. Venturini, Address to the Tendai Symposium “Spreading the Dharma Overseas and the Future of Tendai Buddhism”, Tokyo, Tendai Buddhist Sect Overseas Charitable Foundation, 2013, e, in italiano e in inglese, in www.culturabuddhista.it