domenica 17 gennaio 2010

Sul male

Il problema del cambiamento delle mentalità e degli assetti sociali è tema centrale nelle scienze dell’uomo: che la società cambi nel corso del tempo è una ovvietà, ma quali fattori (endogeni, esogeni?) lo determinino, di quale entità, che tipo di resistenze si incontrino, come siano misurabili i cambiamenti sono quesiti di non facili né univoche risposte. Hanno provato, tanto per citare qualche nome, Comte, Spencer, Marx ed Engels, Weber... Più vicina a noi ricordo l’affascinante analisi fatta da J. Jaynes (Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza). Ebbene, di fronte a fatti sconvolgenti come quello di Haiti, è giusto tornare sulle riflessioni già suscitate dal terremoto in Abruzzo (v. in questo blog il post 8 apr. 2009). Come ricordavo, il grande terremoto di Lisbona del 1755 scosse non solo la terra, ma anche le coscienze, facendo vacillare l’ottimismo leibniziano sul migliore dei mondi possibili. Ancor più di fronte a questo evento (che l’Onu ha definito il «peggiore disastro mai affrontato» nella sua storia) sentiamo ormai improponibile ogni discorso di teodicea che voglia mettere la divinità al riparo dalla nostra indignazione, dallo sdegno che Stendhal aveva espresso con la famosa frase «La seule excuse de Dieu c’est qu’il n’existe pas [Dio ha la sola scusa di non esistere]» (frase della quale Nietzsche diceva: «Che sia io stesso invidioso di Stendhal? Mi ha portato via la più bella battuta da ateo, che avrei potuto dire proprio io»). Se l’idea che il peccato sia l’origine di tutti i mali del mondo non regge più, anche chi è lontano dal Dio creatore, buono e onnipotente, non può, al fine di sottrarre “colpe” e “responsabilità” alla Legge (Dharma) che struttura e governa il reale, attribuire all’uomo e ai suoi “attaccamenti” l’origine del male e del dolore («Qual è, amici, la nobile verità dell’origine del dolore? La brama, che porta ad un’ulteriore esistenza, accompagnata da piacere e attaccamento, che si diletta di questa o quella cosa, ovvero la brama dei piaceri sensuali, dell’esistenza e dell’annichilimento»): avremmo, analogamente a quanto è accaduto nella tradizione giudaico-cristiana, una forma di teodicea, in questo caso “ateo-dicea”, concezione che non risolve ma soltanto sposta il problema dell’origine della sofferenza. Qualcuno potrebbe avere la sfrontatezza di dire ai superstiti di Haiti, uno dei Paesi più desolati del mondo, che il dolore viene dall’attaccamento? Se questo tipo di analisi della sofferenza si riduce, invece, soltanto a un invito all’equilibrio e alla misura, ben venga e trovi ormai il suo posto nelle scienze umane, nella psicoterapia e, ci augureremmo, nella politica. Ma una cospicua parte dell’umanità (almeno dell’Occidente) è ormai matura per compiere, collettivamente, un grande passo avanti spirituale e affrontare il problema del male in tutta la sua tragicità, abbandonando i venditori di illusioni e assumendosi la responsabilità di creare umilmente, con le proprie mani, quel tanto (o quel poco) di bene, di vero e di bello di cui saprà dimostrarsi capace.

3 commenti:

luigi de salvia ha detto...

Grazie, Riccardo, per le tue lucide e ferme considerazioni, con le quali mi sento in perfetta sintonia.
E' così importante non illudersi di esorcizzare il male con una misantropia declinata in vari modi, magari dichiarando in astratto di amare l'umanità con tutto se stessi ...
Un abbraccio
Luigi

Armando Menicacci ha detto...

Grazie Riccardo. Il suo commento mi fa ricordare la parabola della freccia. Dire che la colpa é di DIo (la frase di Stendhal puo' anche essere letta cosi', per rovesciamento) significa prendersela con l'origine. E credo che la freccia si tolga prima e meglio se non se ne cerca l'origine....

Riccardo ha detto...

Sì, come ha insegnato il Buddha, quando la freccia ha colpito bisogna cercare di toglierla senza indugiare. Ma una volta estratta la freccia, superata l’urgenza di un pronto-soccorso non so se sia lecito per l’uomo ignorare la domanda; comunque, vorremmo almeno non ci fossero più riproposte “giustificazioni” del male in termini di peccato o di attaccamento, né che si parlasse di Dharma compassionevole o di Dio-amore o si cercasse di intenerirci con l’immagine di un Dio-sofferente. Accettiamo, dunque, il nostro lavoro (Sisifo!) contro il male e la sofferenza (e il falso e il brutto) in termini di ragionevole impegno. A proposito di ragione, mi viene in mente quel che ebbe a dire uno scrittore (G. Greene): “Il cuore è una bestia di cui è prudente non fidarsi. L'intelligenza è un'altra, ma almeno non parla d'amore”.