mercoledì 3 dicembre 2014

Colpevoli, non-colpevoli?

Le religioni sono vie di accesso, ma anche sistemi di regole per proteggere l’uomo dai rischi di un contatto troppo ravvicinato col sacro e la Totalità, contatto che non può essere “sopportato” che per brevi momenti: giungendo al mondo dietro il mondo, vedendo ciò che non deve essere visto si potrebbe acquisire un sapere che sconvolge, che fa divenire folli o morire. Nella Torah il divieto è esplicito e categorico: «“Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia”. Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”» (Es 33, 18-20). E numerosi sono gli esempi che sottolineano la temerarietà o hýbris presente nell’essere entrato nella particolare sfera di energia del sacro venendo meno alle norme di prudente separazione, temerarietà pesantemente punita anche quando c’è error e non scelus essendo la trasgressione commessa inconsapevolmente: di qui il valore protettivo dei riti e dei simboli condivisi e consacrati che “regolano” il contatto con la sfera  dell’inaccessibile.
Sempre nella Torah (II Sam 6, 6-8) si racconta di Uzzà che stese la mano verso l’arca e vi si appoggiò perché i buoi la facevano piegare e di come l’ira del Signore si accese contro Uzzà: «Elohîm lo percosse per la trasgressione. Egli morì sul posto, presso l’arca di Elohîm». Davide si rattristò per il fatto che il Signore si era scagliato con tale impeto contro Uzzà. Un altro episodio riguarda i figli di Aronne (Lev 10, 1-2) che «offrirono davanti al Signore un fuoco illegittimo, che il Signore non aveva loro ordinato. Ma il fuoco si staccò dal Signore e li divorò e morirono così davanti al Signore».
Viene poi (Lv 18) dettagliata una serie di proibizioni sessuali legate a visioni e contatti, come le seguenti: «Non recherai oltraggio a tuo padre avendo rapporti con tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità della tua matrigna; è la nudità di tuo padre. Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, sia nata in casa o fuori. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non scoprirai la nudità della figlia della tua matrigna, generata nella tua casa: è tua sorella. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, cioè non ti accosterai alla sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello.
 Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia; né prenderai la figlia di suo figlio, né la figlia di sua figlia per scoprirne la nudità: sono parenti carnali: è un’infamia».
Il mondo classico, analogamente, ci presenta vari casi, tra i quali possiamo ricordare quelli molto significativi di Atteone e di Edipo.
Atteone (v. Callimaco, Ovidio, Nonno di Panopoli), fu trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani per aver visto Artemide nuda, divenuto spettatore «della dea che non è consentito vedere». Così ne narra Ovidio (Metamorfosi, III):

Dumque ibi perluitur solita Titania lympha,
ecce nepos Cadmi dilata parte laborum
per nemus ignotum non certis passibus errans
pervenit in lucum: sic illum fata ferebant.
Qui simul intravit rorantia fontibus antra,
sicut erant nudae, viso sua pectora nymphae
percussere viro, suitisque ululatibus omne
implevere nemus circumfusaeque Dianam 
corporibus texere suis; tamen altior illis
ipsa dea est collooque tenus supereminet omnes.
Qui color infectis adversi solis ab ictu
nubibus esse solet aut purpureae Aurorae,
is fuit in vultu visae sine veste Dianae.
[Mentre là dentro ne vanno come sempre irrorando la figlia del Titano, ecco giungere al bosco il nipote di Cadmo, che ha smesso ogni traffico e ha errato con passi malcerti per forre a lui sconosciute, seguendo la guida del fato. Non s’era ancora affacciato alla grotta stillante di spruzzi che, nude com’erano, le ninfe alla vista di un uomo si batterono il petto e riempirono il bosco di grida stringendosi intorno a Diana e cercando di colpirla col corpo; ma più alta di loro è la dea, di una testa le supera tutte. L’identica tinta che sempre colora le nuvole colpite dai raggi del sole o l’aurora di porpora comparve sul volto di Diana, vista così senza vesti (tr. it. di Ludovica Koch)].

      Diana, nipote del titano Coeo, quindi dotata di un doppio potere divino, arcaico e recente, mostra un rossore espressione più di ira che di virginale modestia e infligge la tremenda punizione ad Atteone, benché (come per Edipo) la sua condotta sia priva di scelus (essendo guidato dal fato: sic illum fata ferebant).
        Il mito di Edipo (e la drammatizzazione tragica che ha ricevuto da Sofocle) ci porta a divieti legati alle relazioni di parentela e alle origini, e quindi al tabù dell’incesto, terreno di scontro tra desiderio di “conoscere” e divieti che proteggono da situazioni “pericolose”. Nel nostro sapere sulle origini di noi stessi c’è, infatti, un punto cieco, un insuperabile non-sapere relativo alla vita dei corpi che generano corpi, al mistero della congiunzione, momento sacro di non-dualità, coniunxio oppositorum dei sessi, dotata del potere magico di “estrarre” una nuova vita dall’abisso della “latenza” prenatale: mistero insondabile del congiungimento (dei genitori, quando i figli ovviamente non c’erano), che non può essere rivelato (ai figli) e la cui “conoscenza”, mediante una esperienza incestuosa, verrebbe a scontrarsi con la proibizione in cui si esprimono norme di convivenza sociale e divieti di diretto contatto col sacro. Edipo si interroga, vuole sapere: rispondendo alla Sfinge, in una sfida in cui conoscere è questione di vita o di morte, lotta per sopravvivere, lotta per la realtà e, passando attraverso il tormento dell’interrogazione, acquista la tragica consapevolezza della condizione umana. Ma egli vuole sapere anche sulla sua propria origine (chi è? di chi è figlio? «Non posso non far luce sulla mia origine»; «devo sapere», Sofocle, Edipo re, v. 1059 e 1066) e sulla natura delle sue azioni (nel sospetto di parricidio e incesto), disposto a pagare tutto il prezzo di sofferenza che quella conoscenza può comportare («attraverso il patimento, il sapere», secondo le parole di Eschilo, Agamennone e «molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore nel Qoèlet, 1,18).
        La tragedia ci fa partecipi del disvelamento a cui giunge Edipo riguardo alla  natura delle sue origini e delle sue azioni («Tutto è ormai chiaro. O luce del sole che io ti veda per l’ultima volta, perché oggi è avvenuta la rivelazione che sono nato da chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso chi non dovevo uccidere», 1182-85): non solo ha ucciso il padre, ma con la “nudità” di sua madre anche lui ha visto ciò che non si doveva vedere: nella consapevolezza dell’incesto compiuto, scopre di essere entrato in contatto con la coincidentia oppositorum, col sacro nel sesso, che non consente più di vivere una vita ordinaria. Il sole, il sesso, la morte, il sacro non possono essere visti “a occhio nudo” se non vogliamo rimanerne accecati: chi, come Edipo, ha superato il limite del sapere del determinato e “visto” il Tutto indiviso, non ha niente altro da vedere, perché quel che potrebbe ancora incontrare avrebbe solo valore di simulacro: la cecità di Edipo non è, dunque, una banale, pur se orribile, punizione, ma la dichiarazione dell’impossibilità di vedere la parte dopo aver visto il Tutto. Occorre allontanare per vedere, distanziare per vivere, evitare i cortocircuiti per far circolare la corrente. Con l’atto generativo tra “estranei”, che pur conserva in sé un sentore di peccato, si aggiungono anelli alla catena dell’insondabile, si realizza un distanziamento dal punto iniziale e si attutisce lo sconvolgimento del contatto col mistero originario:  una convivenza con la figura del padre è possibile e, grazie a un incesto simbolico (in ogni donna l’ombra di Giocasta!), lo sguardo sulle origini è ormai protetto da un utile velo per cui si può sopportare la vita. Sublimazione, diluizione, dilazione...
«Apollo fu, Apollo miei cari, che ha voluto questi miei patimenti atroci», dice Edipo. In effetti, la condotta di Edipo è stata priva di scelus, anzi egli ha fatto di tutto per allontanarsi dal destino che aveva intravisto attraverso il messaggio dell’oracolo. L’oracolo aveva “parlato” al padre e a Edipo stesso, ma «il signore, a cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna» (Eraclito), cioè né svela né inganna, solamente allude, mostrando come le azioni siano già disegnate e indirizzate, ma non tanto da impedire l’azione a chi interroga, lasciandogli l’occasione dell’errore e, infine, lo spazio per una presa di coscienza che segna una discontinuità nell’azione degli dèi, in definitiva rispettosa dell’uomo, che può reperire, proprio in questa lacuna, lo spazio della propria dignità. È quanto Edipo ribadisce con forza a Creonte: «Tu sputi dalla tua bocca assassinii e accoppiamenti e calamità che ho subito mio malgrado. Evidentemente piacque così agli dèi, forse adirati da tempo remoto contro la mia stirpe. Sì, perché di certo non troverai da rinfacciare a me personalmente alcuna colpa volontaria, […] se, tramite l’oracolo, arrivò a mio padre la profezia che sarebbe morto per mano di un suo figlio, come puoi ragionevolmente rimproverare a me, che non ero ancora nato, anzi che non ero stato nemmeno concepito da mio padre e da mia madre?» (962 ss.).
     Ciò che dagli dèi (o dal Fato) è stato disposto non può essere deviato o corretto: gli dèi, al fine di (ri)stabilire la giustizia (violata da qualche pregressa forma di hýbris), programmano il corso degli eventi, ma sta agli uomini “interpretarlo” e, quando poi è raggiunta la consapevolezza di essere stati veicolo di una Volontà più alta o più ampia (nello Straniero di Camus, Meursault non sapendo come giustificare l’omicidio che ha commesso dirà «che era stato a causa del sole», in Opere, tr. it., Milano, Bompiani, 1996, p. 179), l’assunzione della “responsabilità” di essere stati via del passaggio del male produce una discontinuità, che il genio tragico mette in luce. Nel caso di Edipo, continuare a vivere nel determinato non poteva significare che percorrere un cammino di espiazione (quello rappresentato appunto nell'Edipo a Colono), divenendo, per questo, un personaggio speciale, capace di portare beneficio e indurre santificazione. Secondo R. Barthes, nella tragedia un fenomeno si tramuta nel contrario: il potere in disgrazia, la fortuna in sfortuna, la ricchezza in miseria… Il  male irreversibile che può colpire l’individuo facendogli commettere degli “errori” agendo contro giustizia, anche se non intenzionalmente, trova un riscatto che non passa attraverso il pentimento o il rimorso, ma, una volta raggiunta la consapevolezza di essere stato strumento della volontà divina («le mie azioni io non le ho decise, ma le ho patite», Edipo a Colono, v. 266) e di essere caduto, «sotto l’impulso degli dèi» (v. 998), in un «abisso di calamità», attraverso un cammino di espiazione e il pagamento di un prezzo di patimento “necessario” (ma che non implica — come il pentimento — una partecipazione soggettiva) per il ristabilimento di giustizia e armonia: coscienza di aver compiuto il male e convinzione di innocenza possono così paradossalmente coesistere. Il disvelamento apporta grande dolore e grande sapere, ma apre a Edipo le porte della redenzione attraverso un martirio che lo trasforma da reietto in eletto. Egli potrà, perciò sentirsi ormai «puro, consacrato agli dèi e aiuto agli abitanti di questa città» (286). A Colono“ egli è santificato” e, questa volta — sempre per effetto di una Volontà superiore —  divenire tramite di interventi divini ri-equilibratori. Come dice la figlia Ismene, «Adesso gli dèi ti risollevano come prima ti rovinarono» (394).
      Le religioni hanno, dunque, stabilito codici di accesso-al e di distanza-dal sacro, ma la modernità secolarizzata considera ormai arcaismi i tabù, i divieti biblici e i miti; la psicoanalisi ha visto in Edipo “il nostro eroe” (poiché nelle fantasie edipiche egli è quello che ciascuno vorrebbe essere) e, nel disincanto generale, la trasgressione finisce per banalizzare sé stessa. Nell’Atteone e Diana di Tiziano qualcuno legge più che la punizione di chi ha osato spiare ciò che dovrebbe restare occulto la felice condizione di chi, almeno per un istante senza tempo, ha potuto godere, costi quel che costi, la contemplazione della divina bellezza: si intravede il rischio calcolato e accettato dal “moderno” che, con Baudelaire, potrebbe dire: «Che importa l’eternità della dannazione a chi ha trovato in un istante l’infinito della gioia?»
In tutte le “creazioni” (del mondo, degli dèi, di noi stessi, delle opere d’arte...) compare una dimensione di Totalità, non-dualità, sacralità, ineffabilità. Potrebbe ritrovarsi qui la possibilità di procedere a un nuovo incanto del mondo e a una nuova disciplina di rapporto con l’inaccessibile?

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