giovedì 28 novembre 2013

Spiritualità del finito#1/Baudelaire e l’infinito

Non eadem est aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure

Come ho avuto occasione di precisare altrove (vedi www.culturabuddhista.it > Spiritualità in psicologia, psicopatologia, psicoterapia) il campo semantico dei termini “spirito” e “spiritualità” è assai ampio e nel linguaggio comune sono definiti da quelli del campo opposto, relativo alla “materialità”, a significare che la realtà non è limitata al mondo fisico o storico, ma che esiste un diverso piano di realtà o un diverso modo (spirituale, appunto) di rapportarsi alla realtà. In termini positivi essi esprimono, pertanto, una attitudine tesa a privilegiare le esigenze dello spirito, caratterizzate dal vivere il presente alla luce delle cose ultime, in riferimento costante al mondo detto dei “valori”, con una lettura dell’attuale in funzione di un “altro” tempo e una considerazione del particolare nel quadro di un più ampio disegno. La spiritualità diviene un’arte della trascendenza dall’immediato, operata nella pluralità dei modi che le diverse culture e tradizioni hanno suggerito, per cui si parla di spiritualità ebraica, cristiana, buddhista, etc. Espressioni connesse sono quelle di esercizi, itinerari, cammini spirituali, indirizzati a una purificazione dalle contaminazioni e dalle “dispersioni” mondane.
Nella maggior parte dei casi la perfezione è stata intesa come negazione di tutte le distinzioni (e quindi delle negatività), un annullamento di sé, un tentativo di approssimarsi o di sciogliersi nell’Uno, personale o impersonale. M. Eliade aveva più volte sottolineato i pericoli insiti nella “tentazione” di un rapporto diretto e immediato, in una sorta di cortocircuito, col “totalmente altro. «Nessun uomo può rimanere ininterrottamente nella sacralità. Perfino il sacerdote si crea una condizione spirituale del tutto particolare, quando compie un rituale o un mistero — e poi ritorna al suo stato di tutti i giorni, profano. Il “sacro” essendo totalmente diverso dal profano, non può essere sopportato dall’uomo in continuità. In alcuni testi indiani si dice che il brahmano che “non discende per tempo dallo stato sovrumano che gli crea il sacrificio”, è ucciso sul posto — è ucciso proprio dalla forza sacra che la sua povera natura creata, limitata non può sopportare» (M. Eliade, Il mito della reintegrazione). Ciò configura le religioni come forme di relazione, ma anche di distanziamento dal sacro, diversamente dal sogno dei mistici che non accettano la separazione originaria e, dimenticando/cancellando il peccato originale, cercano di recuperare il loro posto in cielo: assimilandosi progressivamente alla divinità grazie all’ascesi, all’abbandono del mondo, alla negazione dell’io e delle forme, sperano, nella vertigine del nulla, di poterla finalmente raggiungere. L’uomo spirituale (o religioso o simbolico) è, dunque, “condannato” alla contraddizione di aspirare alla esperienza del “totalmente altro”, ma di non poterla vivere tentando di  abitare il mondo dietro il mondo, dove si diviene folli o si muore.
Esistono, tuttavia, altre forme di spiritualità, quelle che propongono di vivere in “diverso modo” nel mondo, come ad es. hanno fatto il buddhismo mahayana (che origina dalla rivoluzionaria affermazione che il nirvana coincide col samsara) o alcune espressioni della modernità. Questo significa vivere non per annullare i fenomeni, e in essi il soggetto, ma per vederli come ierofanie 
(manifestazioni del sacro, di ciò che è oltre, di ciò che trascende), scorgendo l’infinito nel finito, la totalità nel frammento, 
l’eterno nel transeunte, il supremo nell’umile
, il permanente nel mutevole, etc., lasciando all’uomo, pur irredimibilmente limitato, effimero e continuamente esposto alla verifica della radicale fragilità dell’esistenza il compito di compiere quel miracolo che è la realizzazione dell’armonia, della compassione, della comprensione non fuori, ma nel corso del tempo.
Il nirvana che coincide col samsara, vacuità che è forma, significa consapevolezza che se la gioia della soddisfazione dei bisogni appartiene al samsara, il nirvana, d’altra parte, essendo la sofferenza legata alla determinazione non può mai essere completamente libero dal dolore. Il bodhisattva è confrontato ancora col patimento, suo o degli altri che sente come proprio, e il nirvana in cui vive non è nirvana "separato", assoluto summum bonum da scoprire e adorare: tutto ha il suo contrario, la sua ombra, la sua ambiguità, di cui è lui stesso espressione.

Nella ricerca di alcune forme di questa che vorrei chiamare “spiritualità del finito” cercheremo di incontrarne alcune manifestazioni, forse meno vistose di quelle della negazione, presenti nella cultura antica o moderna: cominciamo da questa “confessione” di Baudelaire.
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Ricordate il Confiteor? Quella preghiera penitenziale che recitavamo da bambini e che diceva: «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi fratelli di pregare per me il Signore Dio nostro. Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna»
Il terzo dei poemetti degli Spleen de Paris di Baudelaire si intitola proprio Confiteor dell’artista, e qui l’artista confessa una colpa. Quale? Quella di essersi lasciato andare al pensiero del dolce naufragio nell’infinito, nel mare di luce (se piace pensare a “luce” piuttosto che oscurità e annullamento) che da Platone ai mistici di ogni tempo, dai romantici agli euro-neo-induisti, ha sempre rappresentato una tentazione di uscita dal mondo instabile, pieno di imperfezioni e sofferenze. Nell’io che realizza la perfetta identificazione con Brahman (o con Buddha, in quelle forme di buddhismo in cui ricompare il non-dualismo indiano advaida) si cerca la liberazione dalla propria, individuale disgrazia. E chi, meglio di Leopardi ha espresso questo pensiero? «Così tra questa
 immensità s’annega il pensier mio:
 e il naufragar m’è dolce in questo mare». Ecco quella che a Baudelaire appare come la colpa dell’artista: «Grande delizia è sprofondare il proprio sguardo nell’immensità del cielo e del mare! Solitudine, silenzio, incomparabile purezza dell’azzurro!» Come, in una breve nota tempo fa osservava Pietro Citati — il nostro critico dallo stile perfetto, penetrante, sempre dalla parte del lettore — , questo infinito romantico non soddisfa più Baudelaire che dice: «Non vi è punta così acuminata come quella dell’Infinito», un «infinito che ferisce, taglia le sensazioni, i sentimenti, le immagini, i pensieri, i corpi e fa soffrire atrocemente. [... Se] leggendo l’apertura del Confiteor dell’artista avevamo creduto che la natura e il poeta collaborassero, e da questa collaborazione di sensazioni  e di desideri nascesse il bello sovrano, silenzioso e incomparabilmente casto, ci eravamo sbagliati. Tra la natura e l’artista non c’è nessuna collaborazione, nessuna armonia, nessuna quiete. Il loro è un duello terribile» (Citati). È il soggetto moderno che si ribella, si sente sopraffatto, ma non vuole “naufragare”. «E ora la profondità del cielo mi costerna; la sua limpidità mi esaspera. L’insensibilità del mare, l’immutabilità di questo spettacolo, mi fanno rivoltare... Natura, incantatrice spietata, rivale sempre vittoriosa, lasciami! Non tentare più i miei desideri e il mio orgoglio! Lo studio del bello è un duello in cui l’artista grida il suo terrore prima di essere vinto». Sofferenza e bellezza, grido della «mia irredimibile esistenza» che il Poeta oggi offre. «La dolcezza morbida di Rousseau», dice ancora Citati, «viene dimenticata. L’infinito moderno è la tensione, il duello, il fallimento, la ferita».
Dunque, non cercate più di sedurci con la proposta di dolci naufragi e non aiutate più la natura spietata a soffocare il grido di terrore che il poeta tramuta per noi nel bello che salva.

P. S. La traduzione che ho utilizzato è quella di Franco Rella.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Una delle difficoltà più aspre, nell'ambito del dibattito su meditazione e transe, è data dalla terribile contrapposizione tra chi ritiene la "sospensione del Sé" l'elemento più importante e significativo dell'esperienza meditativa, e chi viceversa non rinuncia a un Io da rafforzare costantemente o, nella migliore delle ipotesi, da "espandere".
E evidente che studiosi come Eric Fromm, legati a doppia mandata alla psicologia dell'Io, incontrano difficoltà enormi a conciliare questa prospettiva con quella, presente nel buddhismo (ma anche in Lacan), che nell'io individua una perniciosa illusione.
Come uscirne?

Riccardo ha detto...

La pratica meditativa si inserisce in un percorso spirituale e quindi ha modalità e finalità diverse a seconda dell’itinerario che si segue. Avendo la rivoluzione mahayana affermato che il samsara coincide col nirvana ne è venuta, di conseguenza, la rivalutazione del fenomeno e del soggetto, quindi anche il significato della meditazione ha assunto aspetti diversi rispetto alla meditazione di altre tradizioni. In particolare, ritengo che la scuola Tiantai/Tendai abbia saputo interpretare questa diversità nel modo più coerente. Di questo ho scritto ampiamente sia nel volume Coscienza e cambiamento sia negli articoli presenti nel sito , nella sezione sulla meditazione Tiantai/Tendai. L’argomento è complesso e non potrei riassumerlo qui in poche righe, ma sarò lieto di discutere eventualmente alcuni punti specifici degli scritti citati.