Non eadem est
aetas, non mens/L’età non è più quella, e l’animo neppure
La diagnosi dei nostri
mali nazionali è, infatti, antica, profonda la malattia, difficile la cura. Come
non andare a quel che Giacomo Leopardi (lui che nel carme All’Italia, 1818, aveva già liricamente detto «O Patria mia, vedo
le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo...»), in una pausa della composizione delle Operette morali, nel 1824 abbozzava nel
suo Discorso sopra lo stato presente del
costume degli italiani? (il testo in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. II, Milano, Mondadori, 1988).
Il Poeta vedeva nei Lumi e nella modernità postrivoluzionaria
la causa della perdita delle «grandi illusioni dell’antichità» e della disillusione
degli uomini sulle regole morali, con la nascita conseguente di cinismo e
indifferenza, senza capacità di fornire nuove “illusioni” in grado di sostenere
i vincoli sociali. Ma se questo ha colpito l’Europa nella sua generalità perché
è risultato così particolarmente dannoso per un Paese come l’Italia? L’analisi
non è facile e Leopardi individuava alcune cause o condizioni nella mancanza di
un centro, di una «letteratura veramente nazionale moderna», di una società
stretta (élite) che possa dettare
regole e suscitare un consenso mimetico. Se nella Francia moderna, ad es., può
essere sufficiente per avere un comportamento corretto il rispetto del bon ton, una sorta di estetica morale che
tenga lontani da comportamenti immorali avvertiti almeno come “ineleganti”, in Italia non «avendovi buon tuono, non
possono avervi convenienze di società (bienséances)».
Assente l’arte della conversazione riflessiva sui problemi e l’intimità che
essa genera e presuppone (v. Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001), favoriti
dal clima, gli italiani, secondo il Poeta, vivono molto all’aperto, spinti
«all’assoluto divertimento, scompagnato da ogni fatica dell’animo, e alla
negligenza e pigrizia […] non amano la vita domestica, né gustano la
conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano , vanno agli
spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e
profane», dettate solo dal calendario.
Cinismo, «per tutto si ride, e questa è la principale
occupazione delle conversazioni [… tutti] occupati a deridersi in faccia gli
uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. […], a
pungersi fino a sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli
altri, il rispettare il loro amor proprio […] così in Italia la principale, la
più necessaria dote di chi vuol conversare, è il mostrare colle parole e coi
modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il
loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di sé
stessi e per conseguenza di voi».
Basta così. Il male
è antico, la vita degli italiani appariva a Leopardi «senza prospettiva di
miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo e ristretta al solo
presente» e a quasi due secoli da queste riflessioni (dimenticate?) non sembra ancora
esserci in giro un po’ di consapevolezza di quanto difficile sia modificare il
nostro “carattere nazionale” e di quali strade siano da percorrere, mettendosi
prima di tutto alle spalle proprio quel cinismo, disprezzo, irrisione che ci
accompagnano quotidianamente, alimentando quel «clima avvelenato e destabilizzante» di cui ha parlato Giorgio Napolitano.
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