mercoledì 9 marzo 2011

Schermaglie#18/Cigni bianchi e cigni neri

Il film (Black Swan) è stracolmo di significati e può avere molti piani di lettura. Tanto è già stato scritto (Cahiers du cinéma, Il Foglio, Corriere della sera…), alcune piste già a sufficienza battute: sesso e adolescenza, madri incombenti, durezza della vita dei ballerini… Concentro, quindi, la mia attenzione su un aspetto, centrale peraltro, che è quello — in termini junghiani — dell’individuazione o integrazione della personalità o realizzazione dell’uomo totale. “Uomo totale” è l’uomo che ha compiuto o sta percorrendo il cammino di “individuazione”, di integrazione delle diverse parti della sua personalità per realizzare la sua completezza, con la «trasformazione dell’uomo, sino a quel momento frammentario, in un tutto unito e completo. Per quel che la totalità dell’uomo, il suo “Sé”, possa intrinsecamente significare, questo “Sé” costituisce empiricamente un’immagine dello scopo della vita prodotta spontaneamente dall’inconscio, al di là dei desideri e dei timori della coscienza. Esso rappresenta lo scopo dell’uomo totale, vale a dire la realizzazione della sua totalità e della sua individualità, consenziente o meno la sua volontà. Forza motrice di questo processo è l’istinto che provvede affinché tutto quanto deve far parte di una vita individuale ne faccia effettivamente parte, sia con, sia senza il consenso del soggetto, sia che questi abbia sia che non abbia coscienza di quanto sta avvenendo» (Opere, XI, p. 440). Perché il processo di individuazione possa realizzarsi è dunque necessario accogliere quella «parte di personalità che l’uomo cosciente dovrebbe integrare per realizzare la sua completezza. È dapprima un frammento di scarsa importanza […] ma, allo stesso tempo, insieme a quel frammento che potrebbe completare la nostra coscienza rendendola una totalità, nell’inconscio è già presente anche quella stessa totalità, ossia l’homus totus degli alchimisti occidentali e l’uomo vero (chen-yen) degli alchimisti cinesi, l’essere primordiale sferico che rappresenta l’uomo interiore più grande, l’Anthropos che è affine alla divinità. È inevitabile che quest’uomo interiore sia in parte inconscio, poiché la coscienza in quanto semplice parte di un uomo non può coglierne la totalità. Ma l’uomo totale è sempre presente, dato che la scomposizione del fenomeno umano è un effetto della coscienza, che è composta soltanto di rappresentazioni sovraliminari» (Opere, XIV, p. 124 s.). E va notato che ogni separazione dicotomica porta in sé la possibilità di integrazione e mette a disposizione strumenti per una possibile integrazione.
È questa integrazione che cerca di realizzare la protagonista Nina, la quale, sulla scena (Lago dei cigni) e nella vita, vuole esprimere il cigno bianco e il cigno nero, portare alla luce la sua metà oscura, unire le due facce della sua personalità. La Totalità come espressione di pienezza di tutti gli aspetti della personalità è la meta dell’esistenza, da realizzare attraverso superamento e integrazione degli opposti con un lavoro in cui ogni scalino richiede disciplina, sacrificio, perseveranza, Totalità che è superamento degli attributi, caratterizzanti il mondo finito, attraverso la loro “totalizzazione”. «Posso dominare un opposto solo in quanto, attraverso la percezione di entrambi, me ne libero giungendo così al centro. Là soltanto non sono più sottoposto agli opposti» (Opere, XI, p. 476 s.). Quando due opposti si uniscono e giungono a una sintesi il risultato è l’acquisizione di un più alto livello di esistenza.
Nel film al “lavoro” psicologico della protagonista si sovrappone il lavoro professionale e si palesa tutta la violenza connessa all’ansia di perfezione unita alla conquista dell’eccellenza. Il difficile compito la scinde invece di unificarla, per cui attraversa una fase psicotica e compie il suo finale martirio in back stage. Il regista Aronofsky è spinto da una sorta di ossessione: la ricerca della perfezione. Perfetto (da perfectum, part. pass. di perficere, da per, fino in fondo, e facere, fare, compiere, a sua volta da complere, riempire, da cum, intensivo, e plenus, pieno) non è l’illimitato, ma quel che viene compiutamente eseguito, colmando la misura, che non ha bisogno d’altro, capace di “arrestare” il corso del tempo e su cui si può sostare. Molti sono i possibili livelli della perfezione così intesa e l’integrazione individuante ne conosce infinite realizzazioni, anche se spesso ed erroneamente consideriamo sinonimi perfezione ed eccellenza (esempi: «Tutto è compiuto» sulla Croce, perfetta è la cerimonia del tè di Sen no Rikyu, perfetti il gesto di Nureyev e il canto della Callas, l’abbraccio di S. Francesco, la Prospettiva borrominiana di Palazzo Spada e le forme degli edifici smisurati che l’architetto Boullée progettava...). La perfezione nell’eccellenza ha i suoi martiri (ricordiamo i suicidi Sen no Rikyu, Borromini, Vatel, Mishima..., per citare solo alcuni di coloro che, in campi, in tempi e in contesti diversi, hanno espresso il “pericolo” insito nel loro essere stati troppo a lungo o troppo vicini alla Totalità, ricordandoci il rischio del raggiungimento dell’eccellenza nella “intermittenza del cuore”) e Nina muore dicendo «Ero perfetta», riferendosi alla sua ultima-unica performance. Ma la compiutezza nella coscienza del martirio ha un valore assai più ampio perché anche la mortificante esperienza di un dolore irredimibile, di cui non è dato superamento in nessuna possibile creatività e in nessun “racconto”, può trovare il suo “compimento” proprio nell’unica “perfezione” accessibile a chi tutto ha perso e ha, solo nella coscienza del martirio, l’estrema possibilità di trasformare in una costruzione di volontà indipendente, il massimo della soggezione, passando dalla “perdita di potere” al “potere della perdita”: riaffermazione della soggettività nella coscienza del sopruso e affermazione di un valore “altro” rispetto alla Legge (di Dio, della vita, della società…).
Su un piano di equilibrio psicologico-psicoterapeutico, infine, se l’integrazione va realizzata sempre e da tutti, la ricerca dell’eccellenza piuttosto che obbedienza al dàimon può rivelarsi espressione di narcisismo, assenza di limiti, immaturità ed essere quindi non solo distruttiva ma insensata e in-concludente: una forma di hýbris (con Icaro come figura archetipica della aspirazione all’eccellenza senza misura che conduce all'autodistruzione, da non confondere coi costi e i sacrifici dell'individuazione).

2 commenti:

Silvia ha detto...

Ho adorato questo film, non solo in virtù del mio amore per la danza, ma soprattutto per il messaggio "antiperfezionistico" di cui si fa portavoce. In un mondo dove l'esasperazione della completezza assoluta e l' ossessione maniacale di "arrivare"la fanno padrone, questi proclami della nocività della perfezione sono quantomai ben accetti.

bio ha detto...

Mi aspettavo di più? Nina contro Nina, il cigno bianco e quello nero, la fatina che danza nel carillon senza accorgersi della strega che graffia il corpo, lacera la pelle, brama il sangue. Si inseguono nella vita, si incrociano, ma solo si sfiorano e non si uniscono che nell'estremo sacrificio della morte.
Di bello è bello, ma non penso di rivederlo e, a dire il vero, non ne ho ancora messo a fuoco il motivo. Certo lo ricorderò per la bellezza di Natalie Portman e per la potenza visiva della scena in cui Nina, danzando nella sua prima e unica performance da protagonista, si trasforma nel cigno nero: una scena che da sola vale tutto il film, meraviglia dei nuovi mezzi tecnologici a servizio della visionarietà del regista. Continuerò, invece, a rivedere la messa in scena meno sontuosa di Dr. Jekyll e Mr. Hide del "Mary Reilly" di Stephen Frears.