giovedì 17 marzo 2011

Forza o insensibilità?


Di fronte alla tragedia che in questi giorni sta vivendo il Giappone sorprende il modo in cui TV, giornali, conversazioni private reagiscono alla visione dei comportamenti dei giapponesi di fronte alla catastrofe: si va dall’ammirazione della “dignità”, della forza e dell’autocontrollo a un non del tutto espresso fastidio per la “calma disumana”, l’indifferenza, etc. In realtà, mancano le categorie interpretative delle condotte di persone appartenenti a una cultura che, sotto la superficie della modernizzazione e della tecnologia, ha un’anima fortemente diversa da quella di noi occidentali, per cui si evidenzia — ancora una volta — la necessità della mediazione culturale (di junghiana memoria). Provo a elencare qualche elemento che ritengo utile per una più aderente e rispettosa comprensione, così come mi viene suggerito dalla mia esperienza e dalla mia (sia pur limitata) conoscenza di quella cultura.  
Il punto che mi sembra fondamentale è rappresentato dalla diversa concezione del soggetto e del suo posto nel mondo, in gran parte dovuta all’influenza della visione del mondo buddhista, elemento fondamentale dell’identità giapponese, al di là dei confini stessi della tradizione religiosa:
• l’individuo non si sente autosufficiente e questo determina il suo sentimento di dipendenza (la parola amae esprime sia la dipendenza che la tenerezza, mostrando, se si vuole, un certo coté infantile o conformista: “Il chiodo che sporge è quello che prende le martellate”); l’individuo conta poco e può chiedere poco, anzi quel che può chiedere è di partecipare a qualcosa che conta;
• il sentimento del pudore (la cui area si è progressivamente ristretta in Occidente) conserva lì tutta la sua forza, per cui le emozioni non sono assenti, ma ne viene controllata l’espressione (ci si copre se si ride, si evita di piangere in pubblico, etc.) e la comunicazione non verbale o silenziosa è considerata non meno intensa di quella parlata o mostrata. Una manifestazione emotiva scomposta mostra una inflazione egoica che contrasta con l’impegno a dedicare la propria vita incondizionatamente a un compito (per questo anche oggi si parla, più o meno appropriatamente, di samurai o kamikaze, ad es., per i lavoratori della Compagnia elettrica nella centrale nucleare di Fukushima). L’individuo avendo ricevuto inestimabili doni, ha contratto un debito di riconoscenza che andrà ripagato, nel corso della vita, con il massimo impegno e in tutti i campi, nei confronti dell’Imperatore, della Nazione, dei genitori, della famiglia, di tutti gli esseri senzienti, dei tre gioielli buddhisti (Buddha, Dharma e Sangha). Anche la solidarietà autorealizzativa rientra quindi nel “pagamento del debito” e la pietà filiale-lealtà fonda l’unità culturale del popolo;
• non va dimenticato che quella che può apparire come indifferenza o rassegnazione può contenere dentro di sé una forma di contemplazione: di fronte all’ineluttabile, è inutile agitarsi o imprecare, ma occorre prendere atto di ciò che è accaduto o sta accadendo (shikata-ga-nai); contemplazione e riflessione che sono paragonabili, ad es., a quello che, solitamente, esprimiamo nel nostro atteggiamento di fronte a un defunto;
• educazione è in gran parte imparare a seguire delle regole, delle vie (-do: judo, kyodo, shodo, chado…); essere preparati è sapere cosa fare, sia nella vita pratica quotidiana (prevenzione per fronteggiare le situazioni rischiose) sia come concetto estetico (keishiki-ka, formalizzazione, per cui ogni azione viene regolata da norme), da cui l’eleganza tesa a raggiungere la bellezza della perfezione (kanzen shugi);
• di matrice più direttamente buddhista è la consapevolezza dell’impermanenza: tutto quello che ha forma è destinato a scomparire (“La forma è Vacuità”); il godimento  e la commozione di fronte alla bellezza, dell’arte o della natura, non sono disgiunti dalla tristezza e dal rimpianto per la sua fugacità (utsukushisa to kanashimi to, secondo l’estetica del mono no aware o lo straziante delle cose); non meno doloroso è il fatto che la promessa di rinnovamento risieda nella precarietà delle cose e debba quindi passare attraverso la negazione, la morte e la distruzione;
• il non-dualismo tra natura e cultura rende la Natura né amica né nemica e l’uomo ne è parte indissolubile; il non-dualismo tra individuo e società non fa addossare le colpe agli “altri” perché l’individuo è parte della comunità e le responsabilità sono condivise da tutti;
• la vita è meno importante della dignità e della lealtà, per cui di fronte a un conflitto di doveri la morte rituale (seppuku), non depressiva ma eroica, può divenire l’unica tragica via di uscita (come mostra la storia archetipica dei 47 samurai, Chushingura). 

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