lunedì 21 febbraio 2011

Finis vitae#1/Chi muore?

Nel descrivere gli ultimi istanti di vita della protagonista, Muriel Barbery nell’Eleganza del riccio (un libro che non mi stancherò mai di elogiare), dice: «questa mattina capisco cosa significa morire: nel momento in cui scompariamo sono gli altri a morire per noi». Siamo soliti pensare alla nostra morte come privazione assoluta delle cose di cui abbiamo goduto e degli altri che amiano. Operando un geniale ribaltamento di prospettiva,  l’Autrice ci invita a guardare alla privazione che la nostra morte provoca nel mondo e negli altri che verranno privati dell’esser presenti nella vita della nostra coscienza.
Oggi trovo in Pascoli, L’anima o A una morta (1905), analogo pensiero, anzi con un passo in più: l’amata morta continua a vivere — anche se solo di un “odore” di vita — nel pensiero dell’amante, ma quando questo scomparirà sarà per la donna una morte ulteriore e definitiva:

O tu che sei tra i vivi
solo perché ti penso;
come se odor d’incenso
fosse il pino che fu…
Ma, quando anch’io?... morivi
Pure anche tu… Tremando
L’attimo io vedo, quando
Non ti penserò più.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Chi Muore?


“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e chi non cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero sul bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno.

Lentamente muore chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità“.(Martha Medeiros)

Muore chi è morto mentre ancora era in vita,chi soffocato dalla paura non è riuscito a regalare un fiore nè a se stesso, nè agli altri.Gli altri piangeranno per questa "miseria", non per la dipartita.

bio ha detto...

Sì, cortese Anonimo, siamo d'accordo che si puo' morire in senso metaforico e che e' umano desiderare di percorrere la strada verso una vita piena, vitale e felice, per quanto lunga e irta di ostacoli si prospetti, ma cosa pensare circa la morte "vera"? Quella che non arriva a piccole dosi, non sai nemmeno quando arriva, è irreversibile e lascia tracce insignificanti rispetto alle quali persino la più degradata delle esistenze acquista valore inestimabile? Dove era mia nonna quando il suo corpo morto giaceva sotto i miei occhi? Non era forse (allora come oggi) solo nelle lacrime dei suoi figli e dei suoi nipoti, nei loro cuori, nei loro ricordi, nelle loro storie, nei loro desideri di felicità come nella loro paura di morire?
Non so come muovermi su un terreno così instabile come questo, ma so che ho più paura di perdere le persone che amo che non di morire a mia volta. Grazie Riccardo

Anonimo ha detto...

Il post di Riccardo è stato per me una suggestione su riflessioni che ultimamente occupano la mia mente. Per me la morte di un'anima non è assolutamente metaforica, ma concreta e reale quanto quella di un corpo.Mi dispiace che quella che voleva essere una "buona provocazione" abbia in qualche modo ferito il tuo sentire, cara bio;non intendo di certo negare così superficialmente il dolore straziante di un lutto.
Eppure non posso fare a meno di pensare che siamo così poco preparati alla morte, viviamo come se fossimo immortali; intorno a noi c'è una forte rimozione della morte ed anche la spettacolarizzazione che i media ne fanno è solamente un'altra maniera per prenderne le distanze.
E' un tema così complicato che ogni parola in merito rischia di diventare banale, superficiale.
L'impronta di un'anima continuerà ad essere vitale e a sopravvivere nel cuore e nella mente di quanti l'hanno conosciuta e di chi non l'ha conosciuta ma ne ha sentito parlare e l'ha "vissuta" indirettamente attraverso il ricordo di altri.Quanto tempo durerà quest'impronta prima di sbiadire ed essere cancellata definitivamente? Ma sarà poi davvero cancellata definitivamente? Per quanto labile o duratura sia vorrei sforzarmi affinché la mia anima lasci un'impronta d'amore.

Riccardo ha detto...

Il mio intento era quello di soffermarmi su due riferimenti (Pascoli e Burbery) alla nostra morte che priva il mondo del nostro rispecchiamento, gli altri del nostro amore e della nostra considerazione: il mondo e gli altri resi più poveri, mortificati dalla nostra scomparsa.
Ma il discorso si è spostato alla morte come passaggio o transito («In tutte le società tradizionali la morte non era considerata come la fine assoluta, ma solo come un rito di passaggio a un nuovo modo d’essere; si potrebbe dire che la morte costituiva l’ultima esperienza iniziatica, grazie alla quale l’uomo acquisiva una nuova esistenza, puramente spirituale», Eliade, Le messi) e al perdurare nella memoria, esaltata nel mondo classico (la “bella morte” come strumento di immortalità nella memoria del canto epico: «A un giovane tutto sta bene, quando giace ucciso da Ares e lacerato dal bronzo acuto; anche morto, è tutto bello [pánta kalà] ciò che si vede», Il., XXII, vv. 71-73), conservata nei secoli, ormai irrisa nel nostro mondo (W. Allen: «Non mi interessa vivere nel cuore degli americani; preferisco vivere nel mio appartamento»). Sopravvivenza come metafora, per la nostra coscienza individuale, consolazione di fronte all’ansia provocata dalla conspevolezza della precarietà della condizione umana.
Mi riprometto poi di tornare sulla possibilità (impossibilità?) della preparazione alla morte, come volevano Socrate, Montaigne, etc.

Armando Menicacci ha detto...

Ricordo il testo finale di Palomar, di Calvino. "Come imparare a essere morto"

E ricordo il commento di Deleuze neu sui corsi su Spinoza. Deleuze ricorda che Spinoza pone la domanda di cosa sia una vita soddisfacente. Che cos'è dice Deleuze questra strana assoluzione che ci si può dare in fin di vita? Per Deleuze Spinoza da una risposta chiara e semplice. Per morire soddisfatti basta morire il meno possibile. E per morire il meno possibile bisogna esplorare al massimo la parte "intensiva" di se (non quella estensiva. ma in un altro commento (su Leibnitz) Deleuze dice che l'esplorazione della parte intensiva di se non deve necessariamente essere in ogni direzione. Si può esplorare anche solo quello che i brasiliani chiamano "la propria spiaggia". Quello che si è trovato come il proprio campo di espressione privilegiata di sé. In quel caso l'esplorazione invece che essere orizzontale, scopica, diventa verticale. Si scava la propria spiaggia andando il più lontano possibile. Quando si é scavato quanto più si può" riane poco al dominion della morte perché (tornando al commento su Spinoza" muore solo quello che non si è esplorato. Quello che non è vissuto. Quello che non si è espresso come energia della propria capacità espressiva.

Insomma si può morire sopravvivendo a se stessi, come nel commento dell'anonimo. trasformandosi in scoria, ma si può anche morire poco. Dando. Poiché come ricorda Seneca nella prima lettera a Lucilio, la morte non è un evento futuro. Ma è il passato. Ciò che si é fatto e che non tornerà più. Ogni momento vissuto appartiene al dominio della morte. E questo ci spinge a scavare di più.