lunedì 26 gennaio 2009

Perfezione

Perfetto, da perfectum, part. pass. di perficere, da per, fino in fondo e facere, fare, compiere, a sua volta da complere, riempire, da cum, intensivo e plenus, pieno. Perfetto è dunque ciò che è compiuto, che ha colmato la misura e non ha bisogno d’altro, qualcosa su cui si può sostare. “Tutto è compiuto” sulla croce; perfetta è la cerimonia del tè di Sen no Rikyu; perfetti il gesto di Nureyev e il canto della Callas; l’architetto Boullée progettava edifici smisurati dalla forma perfetta...

In Une gourmandise [Muriel Barbery, Estasi culinarie, tr. it., Roma, Edizioni e/o, 2008] un critico gastronomo di fama mondiale, sul letto di morte, cerca, in un bilancio definitivo, di portare alla coscienza quello che per lui è stato il sapore assoluto, perfetto, verità prima e ultima di tutta una vita, inseguito per anni, primordiale e sublime, anteriore a qualsiasi vocazione critica, a qualsiasi desiderio di parlare del piacere di mangiare (e metafora del significato della vita). Lo troverà — ma è questo il lato forse un po’ convenzionalmente moralistico del libro — in un sapore dell’infanzia, nei “banali” bignè con la granella di zucchero che comprava al supermercato uscendo dalla scuola, un sapore che gli dava la possibilità di raggiungere Dio, “il piacere brutale senza compromessi, che parte dal centro di noi stessi, bada solo al nostro godimento e alla fine ritorna da dove è partito. Dio, ossia la regione misteriosa della nostra intimità in cui apparteniamo interamente a noi stessi, in un’apoteosi di desiderio autentico e piacere incontrastato”. Ma lui, forse, in un altro piacere aveva raggiunto la perfezione, nello scrivere, in cui l’oggetto — in questo caso il cibo — era poco più di un pretesto, perché “a risplendere era la parola” (che, va qui dichiarato, risplende anche nella parola della giovane autrice, Muriel Barbery). Il gastronomo, alla fine, ritrovato quel sapore, potrà affrontare l’arroganza della morte con la certezza di aver scoperto (redenzione!) che “il punto non è mangiare né vivere, è sapere perché”.