Il Capo
dello Stato prende il tram, il papa esibisce scarpacce, il sindaco Marino va in
bicicletta: tutti all’insegna del “sono uno di voi”. Bene, si cerca di
eliminare ogni “segno” di diversità, di superiorità, di aristocrazia. Se
riflettiamo, il discorso implicito è che non abbiamo più nessuna fiducia che le
“autorità” meritino ammirazione e siano degne di quelli che vengono chiamati
“privilegi”: già è molto che non si taglino teste a sovrani o altri personaggi altolocati.
Ma questo non è indolore: tutti sanno che i Re di Francia, gli imperatori del
Giappone, i papi del passato erano uomini con le loro debolezze, i bisogni
fisiologici, le malattie, e proprio per questo quello che è/era importante è il
riuscire ad andare al di là di questo livello, con una costruzione sociale capace
di rendere nascite, morti, matrimoni, funerali, abitazioni, abbigliamento, quotidianità, “sacre rappresentazioni”, cioè modelli di raggiunta perfezione, in grado di soddisfare
un bisogno di completezza ed eccellenza che i “comuni” mortali non possono
individualmente raggiungere, ma possono insieme contribuire a costruire. Il
bisogno di pienezza è un bisogno autentico come quello di eguaglianza e
giustizia e il suo occultamento non andrebbe presentato come una conquista
(nella finta ammirazione di una ipotetica catto-sobrietà da parte di lieti
gazzettieri), ma come una grave perdita, ancorché motivata dalla crisi della
rappresentanza e del valore delle élite che caratterizza il nostro tempo.
Vorrei ricordare, a questo proposito, le parole insospettabili di A. Camus che
diceva «Ogni società si fonda sull’aristocrazia, perché essa, se è tale, è
esigenza nei confronti di sé stessa, e senza questa esigenza ogni società muore».
Blog: un’occasione per parlare di sé ma non per sé, un tentativo di arginare lo spreco di esperienze, pensieri, emozioni, offrendone qualche frammento e fidando sul potenziale di universalità che è in ognuno; per riannodare fili, stabilire legami; come mani, parole tese verso…
mercoledì 25 febbraio 2015
venerdì 20 febbraio 2015
Che brutta caduta, cara Emma...
Giorni or sono, Emma Bonino ha “concesso” una
intervista a la Repubblica, dopo
l’annuncio della sua malattia fatta in diretta su Radio Radicale. Le sue dichiarazioni
sono state approvate e condivise da molti, ma — al di là dell’apprezzamento per
l’impegno della Bonino in tante battaglie “liberali” condotte negli anni
passati — debbo dire che non mi sento nel coro osannate. E non perché, come
qualcuno ha osservato, si tratta di uno dei tanti episodi di quel presenzialismo
esibizionistico che trasforma in evento qualunque accadimento riguardi qualcuno
dei Vip o della “casta”, ma per il modo in cui Lei ha parlato del suo rapporto
con la malattia che l’ha colpita. La “bestiola” la chiama lei, oppure lo
“stronzo”. Rispondendo
all’intervistatore dice: «Mi è costato pensarle [le parole], metterle in
fila una dopo l’altra, mostrare una mia fragilità intima. Io sono una
piemontese riservata anche sulle disgrazie, da sempre provo a vivere sostenendo
che il personale è politico ma credo anche che il privato non sia pubblico. Può
sembrare uno scioglilingua ma spero si capisca. Ero emozionata ... Alla fine
avere fatto quella confessione mi ha aiutata. Molti malati mi hanno scritto:
grazie, ha aiutato anche me. Avere la consapevolezza che noi non siamo il
nostro male, che siamo altro, che dobbiamo sforzarci di continuare a essere le
stesse identiche persone di prima costituisce la nostra speranza e la nostra
fede laica. So che mi devo occupare di questo stronzo e basta. Io o lui,
vedremo chi la spunta».
Quanta volgarità, rabbia, arroganza in queste parole! «La
speranza e la nostra fede laica» consisterebbe in una rimozione, un
allontanamento dalla malattia, mettendo in atto un dualismo tra noi e le
vicissitudini del corpo, dualismo che potrebbe giustificarsi se si
accompagnasse a una visione platonica di un corpo prigione e di un’anima prigioniera
che risplenderà proprio uscendo dalla reclusione corporea: non in una visione
“laica” della vita. Purtroppo, si deve ancora una volta verificare come l’avidya (l’ignoranza della natura
profonda della realtà) ci faccia dimenticare che siamo essenziati di
impermanenza, di insoddisfacenza dolorosa, di attaccamenti e avversioni. La
vita è perennemente in un equilibrio dinamico, sostenibile per un certo tempo e
poi non più. A quel punto i processi di disgregazioni prevalgono e la nostra
stessa personalità viene attaccata: le nostre funzioni fondamentali
(nutrizione, motricità, sessualità) declinano e, a seconda dei casi e delle
“terapie” messe in atto, dolore, vomito, cefalea, vertigini, deficit cognitivi
avviano a una fine più o meno sofferta. La natura, che pur produce il miracolo
della coscienza, sembra avere bisogno di rinnovare continuamente i singoli
portatori di consapevolezza per “rimediare” così alla loro intrinseca
debolezza: altro che allontanamento dualistico e «riempirsi di futuro» con un
calendario sempre più fitto di appuntamenti! La narrazione della nostra
sofferenza è la nostra ultima meravigliosa difesa (ricordiamo M. Duras: «Andiamo
a vedere l’orrore, la morte» e «sono sola… ho paura», e: «Va bene, ho trovato
le parole, bisogna chiudere la pagina»). Poi, da soggetti narranti saremo, con
un tragico anacoluto, soggetti narrati. «Io o lui, vedremo chi la spunta», dice E. B. Un
“laico” un po’ più consapevole, meno arrogante e più ironico, W. Churcill,
aveva dato una sua “risposta”: «La vita è una meravigliosa avventura. Peccato
che non sia mai a lieto fine!» Alla “spiritualità laica” alla Bonino, posso solo dire: “No, grazie!”
martedì 10 febbraio 2015
Cascami baumaniani
Da quando Zygmunt Bauman ha impiegato con successo la
metafora della “liquidità” utilizzandola nelle sue analisi di vari aspetti della
cultura in cui viviamo (da cui espressioni come modernità liquida, vita
liquida, relazioni liquide...), gli editori (non diamo la “colpa”
all’autore...) non esitano a pubblicare tutto quanto porti la sua firma,
incuranti del valore del testo.
È il caso di Conversazioni su Dio e l’uomo, tr. it. Roma-Bari,
Laterza, 2014, in cui il sociologo dialoga con Stanislaw Obirex, teologo ed
ex-gesuita. Tenendosi in una postura ambigua nei confronti del sacro e della
Totalità («oggi me ne sto all’esterno, ma osservo con enorme curiosità quello
che accade nel mondo della religione, specialmente come essa agisce nella sfera
pubblica») i due discutono dei danni prodotti dal monoteismo, con una certa nostalgia di un più tollerante (ipotetico) politeismo. Non sarebbe stato il caso di
esaminare anche una “religione” come il buddhismo, lontano sia dal mono- che dal
poli-teismo? Non viene sollevato nessun lembo del mistero dell’esistenza
(l’uomo ha guastato il mondo o ha il compito di riparare il mondo guasto? È
socio o antagonista del creatore?), si criticano fondamentalismi e appartenenze
rimanendo sul generico, si auspica un ripensamento della storia e, in
particolare, della storia delle religioni: prego, fate pure, signori, aspetteremo
i risultati.
Le cose non vanno meglio con Le sorgenti del male, tr. it. Trento, Edizioni Erikson, 2013 (il
titolo originale era nientemeno A natural
Histoty of Evil, 2011), in cui per indagare sull’unde malum, dopo aver criticato alcune delle più note teorizzazioni
del Novecento, vengono usate un po’ di banalità psicologiche. Nessun pregio?
Viene almeno ricordato il libro di Anatole France, Gli dèi hanno sete, opera ingiustamente dimenticata.
In conclusione, soldi e tempo buttati.
martedì 3 febbraio 2015
Zweig e la Menorah perduta
Stefan Zweig (1881-1942), scrittore di
romanzi, saggi, biografie, è autore dell’indimenticabile Il mondo di ieri; le sue opere hanno ricevuto numerosi adattamenti
cinematografici, teatrali e televisivi, l’ultimo dei quali (2013) è il pregevole Una promessa, di Patrice Leconte, tratto dal romanzo Viaggio nel passato. Ebreo, antinazista, Zweigh è stato un intellettuale europeo ante litteram, ma che l’Europa non ha
saputo proteggere: libri al rogo, leggi razziali, fughe, esilio in Brasile,
dove, nostalgico testimone di un mondo inghiottito, morì suicida nel 1942.
Il romanzo breve Il
candelabro sepolto è del 1937 ed ha per soggetto una
leggenda riguardante la Menorah, il candelabro d’oro a sette bracci, che era
collocato nel Tempio di Gerusalemme ed è il più antico simbolo ebraico, oggi
presente nello stemma dello Stato di Israele. Con la distruzione del Tempio nel
70 d. C. operata dall’imperatore Tito, la Menorah fu portata a Roma come trofeo per poi scomparire: da qui le
numerose leggende, su cui ci intrattiene la dotta postfazione di Fabio Isman contenuta
nella attuale edizione Skira.
Il racconto è ricco di profonde riflessioni
spirituali e pieno di amore per il popolo ebraico, amore che viene trasmesso
anche a noi lettori che viviamo in un’altra epoca e spesso sottovalutiamo o dimentichiamo
cosa significhi l’esistenza dello Stato di Israele per il popolo ebraico (il
quale oggi si prepara ad accogliere, ed è una vergogna per l’Europa, 120.000 ebrei
che, in cerca di sicurezza, forse lasceranno la Francia!).
In questi
giorni di dolorose ferite, in cui «cadono fiori su fiori dall’albero della tristezza»
(Hesse), Il
candelabro sepolto è una confortante lettura che insegna cosa può essere
un’attesa umile, paziente e illuminata. Ricordiamo le parole di W. Benjamin: «per
gli ebrei, il futuro non era un tempo omogeneo e vuoto. In esso, ogni secondo
era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia».
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