domenica 11 marzo 2012

One year ago…

Un anno fa terremoto e tsunami colpivano il Giappone con inusitata violenza e Fukushima (dal nome paradossale di “isola della buona fortuna”) è stata il simbolo e la sintesi del disastro, richiamandoci tutti alla consapevolezza della umana fragilità e dei pericoli nucleari.
Si è parlato e scritto molto in Occidente, dopo la catastrofe, sul comportamento della popolazione giapponese, in termini di stupore, poi di ammirazione e, infine, di incomprensione. Per questo ho letto con interesse il libro Ce n'est pas un hasard—Chronique japonaise (Paris, P.O.L. éditeur, 2011) che ci permette di ascoltare, attraverso questo diario di Ryoko Sekiguchi, scrittrice e giornalista, che vive tra Parigi e Tokyo, una voce che ci comunica un vissuto della catastrofe “dall’interno” della cosiddetta mentalità giapponese.  
Lungi dall’assumere l’atteggiamento “accomodante” (come molti nostrani propagandisti di una mentalità pseudo-orientale) del “tutto va bene”, “tutto si armonizza nell’unità del reale”, Ryoko esprime con molta chiarezza la differenza tra eventi naturali che accadono senza sofferenza ed eventi che coinvolgono esseri umani: «l’esplosione di un vulcano, delle onde gigantesche, questi movimenti della natura se si realizzano da soli possono rappresentare delle belle immagini. Questo genere di fenomeni si ammira in fotografia. È perché tra le onde si vedono case e corpi che questo diviene spaventoso». Come osserva il regista Takeshi Kitano, di fronte a un avvenimento che ha causato ventimila morti, bisogna ricordare che si tratta «di ventimila avvenimenti che hanno causato ogni volta una morte, poiché la tristezza  è sempre individuale». E l’Autrice aggiunge: «Mi sento violentata. Come occorre un tempo infinito alla vittima di uno stupro per non continuare a riproiettarsi lo stesso film [dell’evento], per poter pensare ad altro, io sento questo paese violentato — o piuttosto no, poiché non è stato aggredito da un individuo o da un paese nemico; si è aggredito da solo e gli abitanti del Paese sono stati violentati con lui».
Il carattere ineluttabile delle catastrofi comporta conseguenze implacabili sulla realtà del Paese, il che fa riflettere sulla durezza della vita in certe regioni e sulla indifferenza della Natura verso la sofferenza delle proprie creature. In queste condizioni «ci si abitua agli incidenti, alle urgenze, alle reazioni tardive dei responsabili», perché, come osserva il poeta Kiryû Minashita, «l’abitudine, è la cosa più forte». Le catastrofi naturali o umane si producono innumerevoli nel mondo e quando ci si interroga su come si vive dopo una catastrofe in realtà «si deve ricordare che si è alla vigilia di un’altra catastrofe futura, dunque [per uno scrittore] che bisogna egualmente interrogarsi su ciò che si può scrivere prima o tra due catastrofi, che è lo stato permanente nel quale noi viviamo», con la presenza, dunque, di qualcosa che ancora non esiste ma ci sarà: e non sarà “per caso” (ecco la giustificazione del titolo del libro).
Per la popolazione giapponese non si tratta tanto di una differenza di mentalità (come spesso diciamo in Occidente) quanto, secondo l'Autrice, di un’«abitudine acquisita, un apprendimento molto pratico che tutti i giapponesi hanno fatto. Perché sappiamo bene che le catastrofi naturali si producono. Questo non ha niente di fatalistico: è un fatto acquisito. Lo si sa bene, lo si impara a scuola. Si è addestrati a reagire in caso di terremoto». E «questo fa parte del quotidiano, nessuno ne è risparmiato. Ed è il perché si è presi dal sentimento che “quel che doveva accadere è accaduto”, che “avrebbe potuto essere per me”, che “è il mio turno”. Da qui quell’impressione non di rassegnazione, ma di essere sempre coinvolti. Da qui anche, senza dubbio, la solidarietà che prevale in ogni catastrofe».
Ma non è tutto: di fronte all’ossimoro dell’ordinarietà del catastrofico, i giapponesi mostrano, infatti, di sapere «che si potrà ricominciare a vivere, anche se si parte da zero, che non è la fine di tutto. Tranne che per coloro la cui esistenza si è interrotta, è stata spezzata bruscamente».

3 commenti:

mari ha detto...

Mooolto interessante. Grazie.

Pino Torre ha detto...

Caro Professore,
Capisco il pensiero e le emozioni della Ryoko Sekiguchi, ma vorrei fare due considerazioni.
Lei non attribuisce meriti particolari ai giapponesi, ma io credo che qualche merito lo abbiano!
Se confrontiamo le catastrofi di Fukushima e dell'Aquila ciò è evidente.
A Tokio i grattacieli ondeggiavano come canne al vento, nessun morto; Fukushima è stata ricostruita senza proteste o cortei o autocelebrazioni, L'Aquila attende ancora con le sue macerie la ricostruzione, malgrado le promesse ed il G-Forum del Cavaliere, Gheddafi e gli altri. Pure noi siamo avvezzi ai terremoti e sappiamo “ricominciare a vivere partendo da zero” ma non sappiamo organizzarci, essere solidali, pre-videnti e i nostri politici non farebbero mai harakiri se condannati per corruzione o altro. I giapponesi hanno un Io piccolo ed un Ego Sociale solido, al contrario di noi italiani ed occidentali, così la penso da italiano, chiedo venia a Ryoko.
Lei dice anche: “Il paese si è aggredito da solo e gli abitanti sono stati violentati con lui”.
Io dico, se mi è concesso, che dovremmo sforzarci di non confondere due tipi di male:
quello delle catastrofi, che accade per cause inintenzionali, naturali (anche se statisticamente prevedibili) o per “malasorte”, queste provocano dis-astri, macerie e altro ed il male provocato dall'uomo che causa “danni”, quali le ingiustizie, le offese, il dolore, le violenze, le incomprensioni (nell'etimologia del termine danno è insita l'intezionalità ).
Si, le catastrofi provocano dis-astri, le malvagità danni e offese!
Catastrofi e malvagità sono da considerare secondo me, come due ASSI DEL MALE che provocano due fondamentali tipologie di conseguenze distinte cui si può far fronte con due tipi di PAZIENZA: nel primo caso accettando, prevenendo, risolvendo i disastri, ricostruendo; nel secondo utilizzando
attentamente la nostra consapevolezza per comprendere le dinamiche che hanno provocato e provocano il dolore: incapacità di dialogo, di comprensione propria ed altrui, di empatia, di compassione; come pure il pregiudizio, l'egoismo, i luoghi comuni, le faziosità, le intolleranze e la lista potrebbe essere lunga.
Il male subìto in seguito a malvagità induce spesso ad esigere un “risarcimento” che è difficile da rendere adeguato alle esigenze della situazione e dei soggetti in causa. Tutte le culture hanno fatto e fanno del loro meglio per rispondere e soddisfare questa (naturale) esigenza umana, sia ricorrendo ad una giustizia terrena che ad una divina o karmica. Io penso che occorrerebbe pazientemente prevedere e prevenire con attenzione il male verso noi stessi, gli altri e la natura, con sincerità, trasparenza ed evitando gli inganni, le finzioni, i luoghi comuni, i moralismi etc...
Ciò esige una Visione del mondo, un'Etica, un'Arte di vivere, una Re-ligiosità che oggi reputo carenti, ancor più che problematiche. Il progresso non lascia spazi alle riflessioni ed al pensiero personale non massificato!
Così penso, per come ho vissuto, amato, patito, subito, meditato e progettato!
Ringrazio
Pino

Riccardo ha detto...

Uno dei motivi di interesse che il libro della Sekiguchi ha suscitato in me è stato proprio quello di uscire dalla psicologia dell’attribuzione, perché parliamo sui giapponesi e non ascoltiamo cosa possono dire loro di loro stessi, non applicando ovviamente gli stereotipi che noi usiamo nei loro confronti. In questo caso l’autrice ci fa capire che l’abitudine è una cosa che può essere più importante delle idee filosofico-religiose.
Quanto poi alle catastrofi e alle malvagità certo che sono fenomeni diversi, ma lascio i “due” assi del male alla mentalità dualistica, perché per un altro orientamento la malvagità è vista come la prosecuzione nel mondo umano dei conflitti che caratterizzano il mondo fenomenico e del “disinteresse” che la Natura ha per le sue creature. Ma non voglio qui ripetere né vecchi discorsi altrui né sentirmi costretto a ridire il già detto, per es. nel commento al tuo commento del post del 30 gennaio, sulla catena illusoria libertà-responsabilità-colpa. Per non parlare della necessità di riflettere sul peso delle nostre “colpe” (o, meglio, sul peso delle nostre interazioni).
E prima di disprezzare il progresso ricordiamoci che è quello che permette la libera (a volte anche troppo) circolazione di idee come quella di cui stiamo qui godendo.