lunedì 24 maggio 2010

La caccia e il racconto

Carlo Ginzburg, storico originale, creativo, attento a fenomeni come il folklore, la stregoneria, le microstorie, è anche, con le sue riflessioni epistemologiche, impegnato a delucidare (come nel saggio Spie, compreso nel volume Miti, emblemi, spie, Torino, Einaudi, 2000) l’emergere e l’affermarsi nell’ambito delle scienze umane di un “paradigma indiziario”, basato proprio sulla rilevanza da assegnare a fenomeni apparentemete trascurabili.

Il detective, lo psicoanalista, lo storico dell’arte, il semeiologo medico... sembrano tutti attualizzare questo procedere che Ginzburg riconduce alla figura del cacciatore. Scrive Ginzburg: «Per millenni l’uomo è stato cacciatore. Nel corso di inseguimenti innumerevoli ha imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili da orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, piume impigliate, odori stagnanti. Ha imparato a fiutare, registrare, interpretare e classificare tracce infinitesimali come fili di bava. Ha imparato a compiere operazioni mentali complesse con rapidità fulminea, nel fitto di una boscaglia o in una radura piena d’insidie. […] Forse l’idea stessa di narrazione (distinta dall’incantesimo, dallo scongiuro o dall’invocazione) nacque per la prima volta in una società di cacciatori, dall’esperienza della decifrazione delle tracce. […] Il cacciatore sarebbe stato il primo a “raccontare una storia” perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute, se non impercettibili, lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi» (Tracce, sintomi, indizi, p. 166). Antoine Compagnon, professore di letteratura francese moderna e contemporanea al Collège de France, riprende e rafforza questa ipotesi di Ginzburg, sviluppando l’analogia tra il racconto e la caccia (lezione del 22 03 2009). Il cacciatore, che ritorna da chi è rimasto a casa, all’accampamento, al villaggio, racconta la partenza, gli ostacoli, l’attesa della preda, la paura, il combattimento, il ritorno vittorioso: la caccia, il racconto di caccia e ogni racconto, la vita tutta come racconto — quando ri-costruita, ri-pensata come insieme coerente e significativo di eventi, cioè come bio-grafia — hanno, dunque, una struttura comune, e il lettore stesso può essere visto negli stessi termini, quando si muove al riconoscimento di segni, utilizzando indizi e lasciandosi guidare dal suo “fiuto”.

C’è un aforisma di (o attribuito a) Claude-Adrien Helvétius (filosofo illuminista, 1715-71) che dice: «Ciascun essere gettato su questa terra parte tutte le mattine alla caccia della felicità»: per quanto possa sembrarci strano, ogni giorno — che siamo filologi, poliziotti, danzatori o cuochi — andiamo a mettere in scena un’avventura di caccia. Confesso di avvertire un qualche turbamento e un senso di disagio nel riconoscere in me la presenza dell’antenato paleolitico. Ma Jung, oggi, ci è di guida nel sapere qualcosa sul peso e il valore degli archetipi, che il cacciatore “originario” ignorava: un po’ di strada l’abbiamo fatta...

1 commento:

Armando Menicacci ha detto...

Salve,
anche io faccio fatica a riconoscere il cacciatore originario. Anzi non faccio fatica, ma mi costa conviverci. Se non fosse una contraddizione quasi ossimoro potrei dire.... che lo ammazzerei.
Ma Deleuze anche aiuta dicendo che detesta gli animali domestici, ma si interessa alle pucli e alle zecche perché con pochi attrattori fanno un mondo. L azeccha ha bisogno solo di tre cose ricorda: l'estremità di un ramo (luce) passaggio di un animale (odore) e ricerca di una zona senza peli (tatto) per poi infilarsi sotto a pelle. E con questo fa un mondo si territoriamizza.
Poi ricorda che uno scrittore è un fabbricatore di mondi e che passa il tempo a territorializzarsi e deterritorializzarsi. Parla soprattutto che quello che gli interessa nel cacciatore (per peraltro odia) è la sua capacità di divenire animale. Ovvero di avere un rapporto animale all'animale. Divenire animale ovvero essere un "être à l'affût" mi pare comunque una risorsa da non perdere. Forse diventare cacciatore ogni tanto può essere un sano allenamento alla perdita di alcune strutture di civilizzazione che hanno un potere depersonalizzante. Forse se si tornasse tutti, di tanto in tanto, cacciatori (ovvero rapporti animali con l'animale) si potrebbero grattar via almeno alcune croste di civilità paralizzante?