lunedì 22 marzo 2010

Schermaglie#13/Renoir e il gioco delle regole

Si parla molto, in questi giorni, di regole e di rispetto delle regole: dunque, se non vogliamo ridurlo a uno dei tanti flatus vocis della propaganda politica, il tema meriterebbe qualche approfondimento. E il mio pensiero va al capolavoro di Jean Renoir, La règle du jeu [La regola del gioco], film complesso e dalla vita travagliata: uscito nel 1939, alla vigilia della II guerra mondiale, tagliato, censurato, negativo distrutto in un bombardamento, restaurato da una copia decente, di nuovo commercializzato dal 1965 e ormai fortunatamente disponibile in DVD.
La règle du jeu è una storia d’amore e di morte, di simulazioni e di violenza, in forma di “drame gai” o commedia drammatica: Renoir, maestro della trasfigurazione, teatralizza l’esistenza, travestendola in forma burlesca per suggerirci che solo i simulacri sono reali. E ha, alle spalle, Marivaux (Le jeu de l’amour et du hasard), Beaumarchais (Le mariage de Figaro) e de Musset (Les caprices de Marianne).
Molti sono i possibili livelli di analisi, ai quali posso solo accennare:
Livello del soggetto e dei temi: un “banale incidente”, sulla base di un equivoco e di una malsana gelosia, è occasione per la critica di una società imputridita, anche se il film non va certo ridotto a questo (come ha fatto la solita critica “schierata”, dimenticando che lo stesso Renoir aveva detto: “siamo stati umiliati dalla pratica del realismo”); tra i temi: la donna, la morte, gli ostacoli al desiderio, il voyerismo;
Livello di sistema: le regole devono assicurare la sopravvivenza di un sistema attraverso l’eliminazione (con o senza consapevolezza? con o senza divieti e frontiere palesi? Vedi, nel film, le regole della caccia e dell’adulterio) di ciò che compromette il suo funzionamento (come si dice in Giappone: è il chiodo che sporge quello che prende le martellate); la vita, l’amore e il potere sono giochi di cui non si possono impunemente trasgredire le regole;
Livello religioso: il sistema è una sorta di assoluto, di divinità che va placata perché l’ordine, coincidente con la sua sopravvivenza, venga assicurato; sono necessari sacrifici in suo onore e la vittima deve essere qualcuno o qualcosa che vale;
Livello sociale/teatrale: rituali della caccia e della recita in costume, coi legami di piacere e morte;
Livelli stilistici ed espressivi: l’uso del “piano-sequenza” e il montaggio non-montaggio, la profondità di campo, etc.
Ma qui il mio interesse è quello della riflessione sulle regole del gioco, di cui viene mostrato l’abile uso da parte di chi è più forte contro chi è più debole (Manzoni!), di chi vuole conservare contro chi vuole cambiare, tanto che ci viene fatta intravedere una sorta di passaggio dalle regole del gioco al gioco delle regole, gioco la cui regola (o metaregola) potrebbe essere l’abile uso e l’abile dosaggio delle trasgressioni. Quando, nella conclusione del film, il protagonista La Chesnaye, da provetto illusionista, trasforma un delitto in un incidente, il cinico commento di uno dei presenti sarà: “Questo La Chesnaye non manca di classe...”: l’importante, quindi, non è il rispetto delle regole quanto il trasgredirle con classe! Il particolare mondo rappresentato nel film doveva cadere da lì a poco, ma il gioco delle regole persiste ed è quello che può aiutarci a capire il tragico passaggio che avviene (sempre) nella storia e produce la trasformazione dei rivoluzionari in conservatori.
Film ormai “di culto” (“Il film dei film” secondo Truffaut) ha spinto altri (come Bertolucci) a fare del cinema ed è studiato nelle scuole superiori (in Francia). Chi volesse saperne di più può trovare (col titolo La règle du jeu) la sceneggiatura commentata nella collana “La bibliothèque Gallimard” e varie analisi come quella, di vari autori, pubblicata nella collana “Profil d’une œuvre” delle edizioni Hatier.

3 commenti:

Armando Menicacci ha detto...

Uscire dal ventesimo secolo.
(un metacommento?)

Comincio a capire il filo non filo di questo blog. O forse ci metto solo ora le parole. Deleuze non dice quali mai io (nei suoi scritti. Lo fa nelle interviste e nell'abecedario, ma con moderazione). Mi pare che pur amando moltissimo Deleuze, ci sia ancora in lui una forma di amore per la metafisica come scienza degli assoluti che vede da qualche parte. NelLA logica della sensazione, nel rizoma, etc. Qui leggo qualcuno che dice io, che accetta la singolarità della propria visione e che le propone come tale, ma evitando l'arbitrio di un io che dice SOLO io. Misebra che questo blog contenga una possibile uscita stilistica dal ventesimo secolo. L'abbandono della carta (forse sulla carta non sarebbe possibilie avere questo tipo di oggetti del pensiero né questo livello o piano di discorso). Ma anche l'accettazione della frammentarietà (quali sistematizzazioni sono più possibili?). E nello stesso tempo vedo qui un orrore della parola inutile (che sia universalistica o impastoiata in una soggettività di melassa.
La prego continui. Un'angolo di web per crescere.

Solo un'indicazione bibliografica che potrebbe risuonare con la su linea. L'hêtre et le bouleau de Camille de Toledo.
http://bibliobs.nouvelobs.com/20091002/14965/post-coitum-europeen-triste

Armando Menicacci ha detto...

Oer parlare dell'assunto aggiungerei (un commento) che una delle cose che più mi colpiscono nel fil è come ognuno viva coi propri paradossi senza giudicarsi. La grandama tedesca ama il marito e sembra giocare con la propria domestica e incitarla ad avere amanti, ma le manca un figlio e allo stesso tempo si getta sull'aviatore, ma non vuole veramente lasciare il marito per poi accettare l'amore di Octave anche se poi dopo l'omicidio torna con il marito e Octave che le aveva proposto di partire la lascia per sempre.
Allo stesso tempo... tutti gli altri fanno lo stesso. Ognuno smette di giudicarsi. Ognuno vive con i propri paradossi, ma integrando e accettando quelli degli altri. Cesto c'é anche arbitrio e qualcuno ci lascia le penne. Non penso questo sia un modello di società, ma mi sembra sia comunque meglio di oggi dove possiamo fare solo quello che é permesso e dove il potere, come tutti i poteri soprattutto formatta i corpi costruendo assiologie che sono peggio di prigioni.
I 120 giorni di Salò sono qui e adesso. Almeno ne "La règle du jeu" c'è la possibilità del deviante vissuto come possibile. Oggi non lo è più. E ci trasformiamo tutti in consumatori disciplinati.

Riccardo ha detto...

Come ho già detto, il film di Renoir è un capolavoro che, ogni volta che lo rivediamo, suggerisce interpretazioni e riflessioni nuove, ma resta fondamentale la considerazione sulla manipolazione, il nostro “consenso” e la quota di inevitabilità ad essa connessa (osservarla nella storia e non limitarci al nostro tempo!). Non so se siamo consumatori disciplinati, ma nella mia vita ho visto anche imporre l’impossibilità di consumare: tra le due, potendo, non sceglierei la seconda. Diceva Ronald D. Laing, autore di moda anni fa: “Stanno giocando un gioco. Stanno giocando a non giocare un gioco. Se mostro loro che vedo il gioco, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco”. Chi impone questa micidiale “regola del gioco delle regole”? Come “gioca” la paura in tutto ciò? Ci sono delle possibilità di smascherare gli impostori che giocano a non giocare un gioco?