venerdì 13 novembre 2009

Sulla pazienza#6/Se la pazienza diviene martirio...

(Ri)vedere oggi il film di Mel Gibson, The Passion of the Christ, a qualche anno dalla sua uscita nelle sale, consente di superare le polemiche di allora (su antisemitismo, esibizionismo sadico, etc.) e di apprezzarlo in quello che puo essere il suo pregio maggiore: una rappresentazione e uno stimolo alla riflessione sul martirio nella sua generalità. La pazienza, se consideriamo che alberga sempre dentro di sé una qualche dose di martirio, da “piccola” virtù ci apparirà allora come grande o suprema virtù.

Il termine martire, da m£rtuj (mártus), testimone (da una radice col significato di ri-cordare), è parola greca, da Tertulliano latinizzata in martys, offerta al posto del corrispondente già disponibile testis), che indica non solo l’atto del rendere testimonianza, ma anche le conseguenze di sofferenza e di morte che ne possono derivare. Martire, dunque (anche nella forma di martirio cosiddetta “passiva”), è molto di più di una semplice vittima, poiché accompagna la sua sofferenza con la consapevolezza di testimoniare una convinzione, esprimere una verità, affermare un valore. Come l’eroe romantico che sfidava il dolore dicendo «il dolore mi ha reso troppo forte perché io tema il dolore. Sopporterò, andrò fino in fondo, questo è il mio premio e la mia condanna» (F. Schiller, I masnadieri, II, 2), al martire è consentito di oltrepassare il dolore e perfino varcare la soglia estrema della morte — superarne il limite e assegnarle un senso — realizzando il compimento di sé nella pienezza della sventura. Ciò vale non solo per il credente in una remunerazione (celeste), da ricevere al di là della soglia, o per chi si sacrifica in cambio di una più terrena ricompensa nella imperitura memoria comunitaria, ma anche, e ancor più, per chi, “in cambio di nulla”, sottraendosi a ogni forma di scambio, superando rassegnazione e sconfitta, sia in grado di trasformare la perdita del potere nel “potere della perdita” (secondo un’espressione usata dal sociologo E. Pace), in una suprema ri-affermazione della soggettività. Esprimendo la coscienza del sopruso e affermando un valore “altro” rispetto alla Legge (di Dio, della vita, della società...), la mortificante esperienza di un dolore irredimibile, di cui non è dato superamento in nessuna possibile creatività e in nessun “racconto”, trova il suo “compimento” nell’unica “perfezione” accessibile a chi tutto ha perso e ha solo nella coscienza del martirio la estrema possibilità di rovesciare in una costruzione di volontà indipendente il massimo della soggezione: questo l’insegnamento lasciato da tutti i “resistenti”, da Giobbe a Gesù, da Luigi XVI ai deportati e ai perseguitati...

Dice il Vangelo, «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mar 15, 37): colui che, paziente, si era definito «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29) eleva una protesta che diviene quella di tutti i martiri, non importa chi, non importa perché, non importa quando («io non so chi tu se’ né per qual modo/venuto se’ qua giù» [in questo luogo di martirio], Dante, Inf., XXXIII, 10 s.): perché tutti, perché viventi, perché sempre. Il grido di Gesù non è una “caduta” o una debolezza, ma l’espressione compiuta del bagliore accecante di un estremo non ulteriormente tematizzabile...

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